Dialetti salentini: pirumafu

di Armando Polito

In tempi in cui quasi tutte le emittenti televisive hanno fatto dei programmi di culinaria il fulcro dei loro palinsesti, chi non sa che la piròfila è una pentola, un tegame, un recipiente fabbricato con materiale resistente al fuoco?

L’importante, però,, è cucinare e poi, naturalmente, mangiare, per la qual cosa non tutti sanno che piròfila alla lettera significa amica del fuoco, perché, il vocabolo, pur essendo nato alla fine degli anni ’50 dello scorso secolo, utilizza le voci greche πῦρ antiche (leggi piùr), che significa fuoco,  e φίλη (leggi file), che significa amica. Piròfila non è l’unico vocabolo moderno costruito con voci greche antiche; in particolare, fra quelle che hanno come primo componente πῦρ, basti ricordare pirotecnico (alla lettera: relativo all’arte del fuoco), piromane (alla lettera: pazzo per il fuoco) e, con πῦρ come secondo componente, il nome commerciale Tachipirina, in cui il suffisso diminutivo quasi indica l’effetto sul fuoco della febbre annunciato dal primo componente che è da ταχύς.(leggi tachiùs), che significa veloce, per cui il tutto evoca un prodotto che agisce velocemente sulla febbre.

L’atmosfera conviviale domestica, però, molto più delle suggestioni televisive, è in grado di fornire alimento, anche culturale. Non a caso della voce sdialettale del titolo avrei continuato ad ignorare l’esistenza se non fosse venuta fuori nel corso di una delle solite cenette con mio cognato Giuseppe Presicce al quale devo le tre foto di testa (raffiguranti, rispettivamente lastre di pirumafu e vista anteriore e posteriore di un forno costruito con questa pietra) per gentile concessione dell’azienda Mater carparo di Ezio Stifanelli..

Il pirumàfu mi obbliga, però, a parlare in prima battuta delle voci italiane corrispondenti sul piano solo formale, come vedremo, entrambe nate in epoca moderna La prima è piròmaca, usata anche nella locuzione selce piròmaca, detta anche pietra focaia.1 È la selce, quasi sempre organogena, che in noduli e straterelli si trova frequente nei calcari, specialmente in quelli giurassici e cretacei. Ha frattura scheggiosa o concoide, colore vario, grigio, giallastro, rossastro, bruno; sulle superficie esterne è spesso ricoperta da una patina farinosa bianca.

Tuttavia va detto che piròmaca è la riesumazione moderna di una voce antica, della quale tratterò a breve. Se la dimestichezza col fuoco della pietra focaia (utilizzata negli acciarini) giustifica il piròmaca della mineralogia,  più sottile è il suo utilizzo in botanica. Si tratta dell’Artemisia Pyromacha, classificata da Domenico Viviani nel suio Florae Libycae specimen, Pagano, Genova, 1826. Da p. 54 ne riporto la scheda e la traduco:

(ARTEMISIA PYRONACA: Arbustiva, bianca. con le foglie frangiate verso l’apice o pennate; con foglioline ora integre, ora incise  inferiormente arrotondate; superiormente solcate. Tab. XIII fig. 5. Il suo habitat è nel deserto della Grande Sirte.

Osserva: ho voluto che questa specie di Artemisia fosse ricordata perché di essa i nuovi viaggiatori diano notizia più completa. Tutti dettagli che posseggo mancano del fiore né mai toccò ad un nostro viaggiatore di vederla in fiore; forse <assalita dalla puntura di qualche insetto, dalla quale si trovano colpiti qua e là il suo stelo e i rami dai glomeruli coperti da una densa peluria setosa. Con questi glomeruli come alimento gli Arabi del deserto utilizzano le scintille scaturite dalla selce per attizzare il fuoco).

I piròmaca e pyromacha fin qui esaminati sono, dunque, rivisitazioni moderne di un termine antico che trova, proprio nella voce dialettale del titolo un precedente cronologico e non solo.

Pirumàfu è in uso solo nel Leccese e, in particolare, nella forma riportata nel titolo  ad Alezio, Bagnolo, Galatina e Maglie, mentre la variante pilumafu è in uso a Cursi, Galatina, Sogliano, pilumàfiu ad Aradeo e Parabita, pilumacu a Specchia, pilumahu a Melpignano, piromaho a Martano, pilomafo a Corigliano, Soleto e Zollino.

Si tratta di un tipo di pietra usato nella costruzione di forni e camini per la sua spiccata proprietà refrattaria, come dimostra eloquentemente l’etimo. Tutte le voci riportate, infatti, sono dal greco πυρόμαχος (leggi piuròmachos), composto da πῦρ (leggi piùr), che significa fuoco, e dalla radice di μάχομαι (leggi màchomai), che significa combattere.

Oltre a πυρόμαχος attestato in Teofrasto (III secolo a. C.), De lapidibus, 9, esiste anche, con identica composizione, la variante più antica πυρίμαχος (leggi purìmachos) attestata da Aristotele (IV secolo a. C.), De mirabilibus ausuiltationibus,, XLVIII, in cui la nostra pietra entra nella purificazione del ferro: Λέγεται δὲ ἰδιοτάτην εἶναι γένεσιν σιδήρου τοῦ Χαλυβικοῦ καὶ τοῦ Μισικοῦ, συμφύεται γὰρ, ὤς γε λέγουσιν, ἐκ τῆς ἄμμμου τῆς καταφερομένης ἐκ τῶν ποταμῶν. Ταύτην δὲ οἱ μἑν ἀπλῶς φασι πλύναντας καμινεύειν· οἱ δὲ τὴν ὑπόστασιν τὴν γενομένην ἐκ τῆς πλύεως πολλάκις πλυθεῖσαν συγκαίειν, παρεμβάλλειν δὲ τὸν πυρίμαχον καλούμεον λίθον – εἶναι δ’ἐν τῇ χώρᾳ поλύν -. Οὗτος δ’ὁ σίδηρος поλὺ τῶν ἂλλων γίνεται καλλίων. Εἰ δὲ μὴ ἐν μιᾅ καμίνῳ ἐκκαἰετο, οὐδὲν ἄν. ὠς ἔοικε, διέφερε τἀργουρίου, μόνον δέ φασιν αὐτῶν ἀνίωτων εἶναι, οὐ поλὺν δὲ γίνεσθαι (Si dice che peculiare è la generazione del ferro calibico2 e misio3: nasce infatti, come dicono, dalla sabbia portata giù dai fiumi. Altri dicono semplicemente che dopo averla sciacquata la scaldano nella fornace, altri che bruciano il residuo della lavatura lavato più volte e vi aggiungono la pietra detta pirimaco -dicono che sia abbondante nella regione -. Questo ferro è di gran lunga migliore degli altri: infatti, se non fosse bruciato in un’unica fornace in niente, a quanto pare, differirebbe dall’argento e dicono che solo esso non arrugginisce, ma non ve n’è molto).

Solo per completezza riporto il lemma come risulta trattato,  un po’ cripticamente secondo me, da Esichio di Alessandria (V secolo d. C.) nel suo glossario: πυρίμαχος ὁ ἐν τῇ4 ἀνίκητος. καὶ λίθος ἀπὸ τοῦ συμβεβηκότος πυρίμαχος (pirimaco: l’invincibile [in battaglia] e pietra da quello che succede5 (detta) pirimaco.  Faccio notare che le varianti pilumahu di Melpignano e piromaho a Martano con la loro aspirata che riproduce l’originale greca χ secondo me attestano l’antichità della voce cronologicamente anteriore, e di molto, rispetto alle voci italiane scientifiche ricordate.6

Per quanto riguarda la letteratura latina segnalo come semplice curiosità in quanto irrilevante ai fini di questa ricerca, la presenza di Pyromachus come nome proprio di persona. Si tratta di uno scultore ricordato da Plinio (I secolo d. C.) nel libro XXXIV della Naturalis historia.7

Appare evidente come la voce dialettale ha conservato il significato etimologico di quella greca riferendo la generica indicazione qualitativa a una delle numerose varietà8 di quella che genericamente è chiamata pietra leccese.  il piromafu appunto, di colore giallo-verdastro con venature azzurre, dalla struttura omogenea, che per la sua resistenza al fuoco  è molto utilizzato in lastre dallo spessore superiore ai 10 cm. nel rivestimento dei forni a legna. Ma c’è un ulteriore dettaglio non da poco: la sua porosità interna è in grado di catturare gli aromi del fumo della legna combusta e al calare della temperatura di rilasciarli conferendo al pane il tipico profumo.

Sarà lo stesso che sembra emanare  dall’ambiente ritratto nella foto di chiusura tratta da immagine tratta da https://www.gliamicidelsalento.it/blog/tradizioni/lu-furnaru-il-fornaio/<<?

 

__________

1 La voce appare per la prima volta nella forma latina scientifica Pyromacha in Magnus von Bromell, Mineralogia, Kiesewetter, Stoccolma, 1739.

2 Di Calibe, città della Tracia.

3 Regione dell’Asia minore.

4 Lacuna nel testo, integrata solitamente con μἀχῃ, per cui la voce è interpretata violento come fuoco in battaglia.

5 Cioè dalla sua refrattarietà.

6 Da notare, rispetto alla voce attestata in Aristotele e Teofrasto (πυρόμαχος), la diastole (spostamento in avanti di una sillaba dell’accento), giustificata dal fatto che si tratta quasi di una regolarizzazione dovuta al fatto che la pronuncia piana è la più facile, anche perché un eventuale intermediario latino sarebbe stato piròmachos, essendo breve l’-α– dell’originale greco. Non è da escludere, però, una derivazione, più tarda, dalla forma presente in Esichio (πυρίμαχος).

7 CXXI Olympiade Eutychides, Euthycrates, Laippus, Cephisodotus, Timarchus, Pyromachus (Al tempo della 121a Olimpiade fiorirono Eutichide, Euticrate, Loippo, Cefisodoto, Timarco) … Pyromachi quadriga ab Alcibiade regitur (La quadriga di Piromaco è guidata da Alcibiade).

8 in ordine stratigrafico (tra parentesi la profondità in metri rispetto al piano di scavo: Oltre al pirumafu (2-4), la cucuzzara (4-6), la dura (6-11) particolarmente adatta per lastricati, la bianca (11-12) selezionata per la costruzione dei muri maestri, la dolce (12-16) preferita dagli scalpellini per la facilità di lavorazione, la saponara (17-18) in strati sottili e di scarso interesse merceologico, la gagginara (18-27) compatta e di coloro chiaro, molto apprezzata, occupa molto spesso il 50% del banco di coltivo, e la nera (27-30) usata in pavimentazioni tipiche.

 

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4 Commenti a Dialetti salentini: pirumafu

  1. L’uso di polvere di calcarenite marnosa (pietra leccese) nella produzione e lavorazione del ferro caldo può essere dettato dalla necessità di evitare una eccessiva ossidazione del ferro che ad alte temperature è molto violenta. In tempi più recenti a questo scopo i fabbri usano la borace una polvere appunto antiossidante e che favorisce la fusione a caldo di lastre e pezzi di ferro. La borace pare fatat conoscere in Europa da Marco Polo. Il pilumafu si caratterizza rispetto alle altre varianti della pietra leccese per una sia pur minima maggiore presenza di magnesio, ma in quantità tale da non giustificare particolari proprietà termche. Nelle costruzioni di case e palazzi era considerato di poco pregio (temeva l’umido e l’erosione più delle altre varianti) e credo che lo si reimpiegasse come economia di scarto nella costruzione dei forni. DIcono che tiene bene alle fessurazioni e allo spiattellamento, ma forni fatti con pietra leccese di migliore qualità tengono bene uguale.

  2. PIANETA TERRA ED ECO-LOGIA. CON IL “PIRUMAFU”, NON SOLO UN FORNO PER CUOCERE IL PANE …

    COMPLIMENTI!!! A BEN RIFLETTERE, “le tre foto di testa (raffiguranti, rispettivamente lastre di pirumafu e vista anteriore e posteriore di un forno costruito con questa pietra) per gentile concessione dell’azienda Mater carparo di Ezio Stifanelli” danno una marcia in più a tutto il brillante discorso e, senza prendere un “antipiretico”, sollecitano a tenere il “forno” acceso e portare avanti, senza sognare di essere un”tachione” (anche un “piroscafo” va bene) il filo del discorso.

    RIGUARDARE ATTENTAMENTE LE FOTO dell’azienda “Mater carparo” e poi considerate la forma e la struttura del “forno”, fatto non di “lastre di pirumafu” ma di ghiaccio – l’iglù, l’igloo – e si consideri che “L’iglù è un ambiente abbastanza ristretto, per cui, nonostante sia una costruzione tipica di luoghi molto freddi, portarlo ad una temperatura adatta per viverci è un’operazione piuttosto veloce. Due persone al suo interno e l’accensione di un piccolo braciere sono sufficienti per raggiungere e mantenere i 17 °C mentre la temperatura esterna si mantiene costantemente tra i -40 °C e -50 °C. L’aria interna si riscalda rapidamente e i blocchi di neve che costituiscono le pareti non si sciolgono a causa della capacità termica del ghiaccio e della rigida temperatura esterna
    (https://it.wikipedia.org/wiki/Igl%C3%B9).

    DETTO QUESTO, è BENE RIPRENDERE ANCHE IL DISCORSO sui “muretti e furnieddhi” e rimeditare sul “problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento” (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/16/il-problema-difficile-della-rivalutazione-delle-costruzioni-a-secco-nel-salento/#comment-209032). O no!!?

    Federico La Sala

  3. In aggiunta all’ottimo articolo, segnalo anche quanto scritto sull’argomento dal Galateo:

    “in questa regione non si mostrano grandi e immense, com’erano, le vestigia delle città, la causa è questa, che le pietre e quasi tutte sono fragili e molli, cui il vento e le pioggie facilmente erodono e consumano. Le pietre di Otranto e di Roca son simili a creta compatta, non cotta al fuoco, ma indurita al sole, in guisa che la casa che il padre edificò, deve riedificarsi dal figlio; mentre tal materia dura per tanti secoli, è sorprendente, che mentre non resistono al vento ed alla pioggia, abbiano poi forza invincibile contro il fuoco; gli abitanti chiamano piromachi le pietre di cui si servono per la fornace, i forni e i camini” (A. DE FERRARIS, Del sito della Japigia, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1867, p. 57).

    • La ringrazio della preziosa integrazione e ne approfitto per riportare la parte finale del brano nell’originale latino: “Incolae pyromachos vocant, quibus ad fornaces et furnos et caminos utuntur”.

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