Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento

di Pier Paolo Tarsi

 

Ed ora, dopo il clamore?

Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento.

Le più tardive bocche si compiacciono ancora in queste ore per il recente riconoscimento da parte dell’Unesco delle costruzioni a secco quali patrimonio dell’umanità. Dopo la consueta sbornia mediatica condita da immancabile cassa di risonanza social, dopo l’entusiastica accoglienza della gradita notizia da parte dei tanti salentini “presciati” per l’ennesima conferma delle qualità del proprio territorio (stuprato e quotidianamente calpestato, si sa, ma “lu presciu” qui non si cura), cosa resterà dunque di questo formale riconoscimento?

Conviene, con risoluto disincanto, porci quanto prima tali domande come saprà bene chi è da sempre attento alla valorizzazione del territorio e comprende, oggi più che mai, l’opportunità di cogliere l’attimo e continuare a insistere, ad imporre l’importante tema all’attenzione pubblica e della classe dirigente, prima che l’una e l’altra si volgano frettolosamente altrove.

Che sia giusto e opportuno far così ce lo conferma del resto proprio l’agire della Fondazione Terra d’Otranto, la quale, nella persona del suo infaticabile presidente Marcello Gaballo, ha organizzato il primo convegno locale sulla questione il 13 gennaio 2019, a Nardò, a pochi giorni dal detto riconoscimento Unesco.

Ben fatto caro amico. Ma ora? Che fare? Si è tutto già concluso, consumato con la rapidità con cui fagocitiamo la notizia del giorno, o si è solo avviato un percorso come auspichiamo tutti? Dobbiamo lasciare che il sipario sul tema cali, come è prevedibile se non inevitabile di questi tempi accada, oppure quanto è appena stato dovrebbe servirci per innescare un incendio da mantenere a lungo vivo?

Nel dubbio non abbiam che da chiedere al buon Cecco, ed il responso è e fu sempre questo: ardere il mondo! Occorre allora, crediamo, porgerci subito ed entrare senza indugi nel vivo di alcune questioni rilevanti: quale percorso meditato e quale progettualità territoriale dovrebbe seguire nel Salento ai riconoscimenti dell’Unesco?

Per i molti o pochi salentini che, decenni prima che si pronunciasse l’Unesco, già coglievano da sé la rilevanza del patrimonio architettonico a secco, l’occasione è certo favorevole per ridestare l’attenzione pubblica e della politica intorno a domande che da tempo avremmo già dovuto risolvere come salentini e che ora pertanto non possiamo permetterci più di rimandare o far ricadere nell’oblio.

Come tutelare realmente e valorizzare efficacemente questo patrimonio evitandone la dispersione, al di là dei bagordi mediatici passeggeri e al di là anche delle leggi di tutela già da tempo in vigore o dei controlli già operativi sul rispetto delle stesse?

Il problema è solo in apparenza banale e semplice, meglio ancora non è affatto accostabile senza una approfondita riflessione che qui proveremo a delineare.

Possiamo constatarlo con un minimo di premesse che ci permettano di intuire le dimensioni reali e il cuore nevralgico della questione.

Partiamo da un esempio immaginifico e fantasioso che, se all’inizio sembrerà allontanarci dal problema e senza dubbio annoierà gli impazienti, come un buon investimento dovrebbe in realtà fruttarci molto e permetterci di illuminare il nucleo più profondo e arduo della questione concretissima che abbiamo di fronte. Immaginiamo, con un piccolo sforzo di fantasia, neanche tanta per dire il vero, che un uomo preistorico precipiti in un’aula scolastica e domandiamoci: quale esperienza avrebbe mai in quella situazione il nostro? Cosa vedrebbe veramente attorno a sé questo supposto individuo? Quale (arido e deprivato!) paesaggio contemplerebbe? Non è difficile comprenderlo: percepirebbe e distinguerebbe senza dubbio, come forse persino a un animale riuscirebbe, gessi, lavagne, penne, matite, gomme, fogli di carta ecc., o meglio una collezione di oggetti fisici scissi, dei quali però non comprenderebbe minimamente l’uso, le funzioni e i reciproci rimandi oggettivi che connettono strettamente un utensile all’altro in un sistema unitario, organico, ordinato e complessivamente sensato di relazioni: in breve, di tutte quelle cose che pur vedrebbe non ne intenderebbe minimamente il significato.

Perché tutti quegli utensili possano manifestarsi al nostro in ciò che per tutti noi comunemente sono, egli avrebbe infatti necessariamente bisogno di un nostro intervento, di una chiave d’accesso che gli consenta di cogliere, in un sol colpo (si fa per dire!), il senso di tutto ciò che pur avendo sotto gli occhi gli sarebbe ancora di fatto precluso nella sua dimensione propria, quella cioè che chiamiamo normalmente culturale.

Qual è questo ingrediente che potremmo definire l’autentica ragion d’essere in quell’aula di ognuno – e di tutti! – quegli oggetti? La risposta è ovviamente la scrittura! Se e solo se il nostro uomo primitivo fosse accompagnato da qualcuno nella scoperta dell’esperienza della scrittura, potrebbe allora finalmente vedere davvero, comprendere cosa vede, potrebbe cioè accedere in una cornice unitaria di senso che dissolverebbe il mistero che quegli oggetti nascondono, rischiarando ai suoi occhi il rimando di un gesso alla lavagna o a un cancelletto, il significato di un foglio di carta connesso a quello di una penna o di una matita, o ancora la relazione tra questa con una gomma e così via. Tutti quegli oggetti infatti hanno un significato preciso e svolgono una funzione determinata ed esplicita solo in un mondo in cui esiste la scrittura, una pratica che li lega e li interconnette in una trama di rimandi reciproci e oggettivi, uguali per tutti coloro che abitano un mondo storico in cui esiste la scrittura.

Detto in altre parole: la scrittura (prodotto storico, umano, invenzione culturale) è la ragion d’essere di una forma di vita in cui quegli oggetti possono unicamente esistere come utensili, prodotti storico-culturali, incarnazione di precisi significati condivisi da chi è nato nella nostra civiltà alfabetica ma non accostabili da nessuna intelligenza con la mera percezione.

A questo punto possiamo finalmente tornare al nostro problema di partenza, riformulando la domanda iniziale sul patrimonio salentino in un modo più preciso e penetrante, ovvero in grado di farci rilevare il vero problema da affrontare, il quale non consiste tanto in meri riconoscimenti formali o leggi di tutela (per quanto importanti e necessari naturalmente, non vogliamo infatti minimamente svalutarne il valore, semmai indicarne l’insufficienza): cosa unicamente e unitariamente tiene insieme e connette reciprocamente le pajare in tutte le varianti e destinazioni, i muretti, le tante opere rurali a secco, gli strumenti che servono alla loro manutenzione, le arti e le professioni che servono alla loro realizzazione, le abitudini, gli scopi, le motivazioni, le pratiche e i saperi che servono a conservarle e preservarle?

Quale è la chiave d’accesso a questo mondo architettonico rurale, a questo immenso patrimonio di opere che in questi giorni, sollecitati dalla bella novità, celebriamo ma che come l’uomo primitivo in quell’aula, anche noi rischiamo di osservare come meri oggetti, magari belli, meritevoli di apprezzamento, ma senza afferrarne più l’autentico significato? Qual è il mistero che anima quell’insieme?

Qual è il suo segreto, la “scrittura” da rinvenire questa volta? La risposta è anche qui ovvia: la ragion d’essere di tutto ciò è la forma di vita propria del mondo contadino antico che in quel linguaggio architettonico a secco si è espresso e che quel patrimonio ha prodotto, il suo segreto è una civiltà cancellata, storicamente tramontata.

Si tratta del mondo proprio di gente con un modo di lavorare, produrre, spostarsi, misurare, organizzare lo spazio e il paesaggio, di uno scenario di sopravvivenza in cui ogni costruzione a secco, ogni opera, aveva il suo proprio autentico significato e la propria specifica, necessaria, preziosa, insostituibile funzione e utilità per affrontare con fatica una dura esistenza.

Così come in un mondo senza scrittura non avrebbe alcun senso fabbricare, riparare, acquistare e utilizzare penne, cancelletti, lavagne, matite, gomme, quaderni, fogli, gessi, ovvero tutti quegli oggetti che senza scrittura sarebbero destinati a sparire (a proposito, che stia già accadendo tutto ciò con la “nuova forma” di scrittura che impone la rivoluzione digitale in corso?!), in un mondo in cui non c’è più quella forma specifica di esistenza agricola che nei secoli ha plasmato il paesaggio salentino, non potranno – come se nulla fosse cambiato! – continuare a preservarsi a lungo e in gran numero le sue testimonianze sparse sul territorio, cioè pajare, furnieddhi, maestranze che sappiano edificarle, manutenerle, ripararle (ve ne sono più in vita?).

Essendo venuto meno quel mondo contadino che le ha prodotte, è plausibile allora sperare di conservare con uno sforzo condiviso queste diffuse testimonianze di un patrimonio dell’umanità solo inventando noi tutti ex novo una forma unitaria e alternativa che, in vece della prima ormai perduta, le tenga nuovamente insieme, le porti a nuove funzioni e possibilità e ci sostenga veramente e in modo condiviso e perdurante in uno sforzo minimamente plausibile di tutelarle!

Qual è questa forma di cui stiamo cercando di mettere in luce l’urgente necessità come di una scrittura che porti alla vita gli oggetti muti in un’aula che è il nostro intero paesaggio?

Può assumere questa, ad esempio, le sembianze di un rilancio dell’agricoltura, di un cosiddetto “ritorno alla terra”, tanto sulla bocca di tutti quanto nelle mani di nessuno? Ne dubitiamo: un “ritorno alla terra” sarebbe in ogni caso un’altra forma di vita agricola, una “scrittura” totalmente diversa del paesaggio rurale, l’edificazione di un “ecosistema” profondamente differente da ciò che vorremmo preservare rigenerando.

Alcuni esempi tanto banali quanto crudi dovrebbero bastare per rendercene conto: un imprenditore agricolo cosa se ne farebbe di un ricovero per attrezzi da tempo scomparsi (da reperire, nella migliore delle ipotesi, nei musei etnologici!)? Di ben altri spazi e rifugi avrebbe infatti egli bisogno! Cosa se ne farebbe questi di un rifugio temporaneo per la notte, nato per le esigenze di un contadino ormai inesistente, privo ad esempio di mezzi di spostamento rapidi e motorizzati come i nostri, impossibilitato pertanto a tornare nella propria dimora sul far della sera?

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

Ancora: potrebbe essere la forma di vita che andiamo cercando un nuovo modello di fruizione turistico-abitativa cui indirizzare il paesaggio rurale quale scenario certamente mirabile, seppur non immediatamente predisposto per soggiorni vacanzieri sostenibili? Tale sfida è già più plausibile ai nostri occhi ma ancora una volta non garantita, ardua e tutta da immaginare e inventare: non ci sono infatti, almeno per quanto ne sappiamo, molti modelli attinenti a cui facilmente ispirarsi. Il celebre caso di Alberobello ad esempio, la nota città dei trulli che dell’architettura a secco ha fatto la sua gloria nel mondo (ma anche la sua morte per rinascere triste souvenir!), non può essere minimamente riproposto nel Salento per diverse ragioni che rendono i due contesti incommensurabili.

Ne ricordiamo qua solo una ben nota agli studiosi del paesaggio: la vicinanza delle campagne ai numerosi centri abitati salentini ha determinato nei secoli passati una dispersione delle costruzioni a secco nel nostro territorio e una destinazione temporanea delle stesse, a fronte di una concentrazione evidente in Valle d’Itria o in terra di Bari, contesto ben differente questo che ha agevolato la nascita di borghi interi di pietra e di unità architettoniche abitabili stabilmente. In conclusione, le domande vere sulle quali la comunità salentina intenta a interrogare le possibilità di un futuro sostenibile per le costruzioni a secco – e in primis la classe dirigente – dovrebbe orientarsi sono, crediamo, quelle qui sintetizzate e così ripercorribili: come ripensare, come “rifunzionalizzare”, come riconcepire nell’ambito di una nuova identità e cornice unitaria ogni elemento del paesaggio rurale da preservare in stretta relazione agli altri, conservandolo nel suo nuovo significato e nella sua nuova necessità vitale per la comunità locale?

Come destinare ogni meraviglia di pietra che il passato ci ha saputo donare a un nuovo e rispettoso destino funzionale tale che ci motivi tutti indistintamente a tutelarlo per davvero, a servircene nuovamente non come mero oggetto da museo, non come mera testimonianza di un’aula senza scrittura, non come mirabile nostalgia in rovina, e non come rudere rimesso a nuovo, ma come elemento vivificato del nostro mondo attuale e presente?

Questi i veri interrogativi che la politica attuale deve affrontare, prima che quel che resta vada perduto, prima che il clamore si dissolva di nuovo, prima che cali ancora una volta il sipario. Questo è il compito da affrontare con ragionata urgenza, da cui possono discendere sensate ed efficaci azioni concrete, frutto di un progetto unitario.

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11 Commenti a Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento

  1. Condivido appieno ma non vedo soluzioni se non quella di conservare e restaurare per consegnarle alle future generazioni

  2. Ci chiediamo se le Istituzioni si muoveranno. Possiamo iniziare a farlo noi, inviando una comunicazione alla Regione e alla Soprintendenza, a nome della Fondazione T.O., e sottoscritta anche dai soci. Bene il riconoscimento dell’ UNESCO, ma se noi non ci preoccupiamo del nostro territorio…..
    Per esempio sollecitando norme per la conservazione, il restauro e la costruzione di nuove murature esclusivamente con pietre a secco.
    La ns Regione fa turismo con questi beni.
    Poi, sempre con riferimento al ns incontro con la regia di Marcello Gaballo, mi preme evidenziare che le nostre generazioni contadine ci hanno consegnato stupendi monumenti che sono il vanto del ns Territorio, ma che tale cultura fa parte della nostra Storia Messapica (circa 1.000 anni AC) che a tutti i costi stiamo distruggendo con l’indifferenza che purtroppo ci caratterizza. E’ appena il caso di rifarci alla Sardegna, che dei Nuraghi ne ha fatto motivo di interesse mondiale, nazioni estere che di una pietra antica ne fanno il vanto di un territorio: e le ns Specchie, invece, continueremo a distruggerle per farne materiale da costruzione?
    Valorizziamo e portiamo anche nelle scuole questa ns Storia locale.
    Chiudo con un monito di Cesare Teofilato, che richiama antiche voci come quelle del Galateo e del Castromediano:

    Io ti dico che se ne le tue vene
    non circola l’eredità dei millenni,
    che se nel tuo cuore non canta
    il poema de le lontane memorie,
    tu non sei un uomo,
    non rappresenti un popolo,
    nè puoi vantarti d’essere membro
    d’una nobile città.”

    • Bellissime parole Glauco. E’ stato un piacere conoscere te e gli sforzi da studioso di tuo padre l’altra sera. Faccio mie le tue speranze: che sia l’avvio di tanto altro. Un caro saluto. Pier Paolo Tarsi

    • Glauco teofilato, oggi mia madre mi ha parlato di sua nonna Anna teofilato originaria di Francavilla e dopo una ticerca sono giunta qua..

  3. LA PIETRA, LE PIETRE, E IL “RITORNO ALLA TERRA”….

    HA PERFETTAMENTE RAGIONE, PIER PAOLO TARSI: “Per i molti o pochi salentini che, decenni prima che si pronunciasse l’Unesco, già coglievano da sé la rilevanza del patrimonio architettonico a secco, l’occasione è certo favorevole per ridestare l’attenzione pubblica e della politica intorno a domande che da tempo avremmo già dovuto risolvere come salentini e che ora pertanto non possiamo permetterci più di rimandare o far ricadere nell’oblio”; ” quale percorso meditato e quale progettualità territoriale dovrebbe seguire nel Salento ai riconoscimenti dell’Unesco?”.

    MA PER NON DI-SPERARE e, possibilmente, ri-accendere il fuoco e ri-spondere alle domande (“ardere il mondo!”) poste (“Come destinare ogni meraviglia di pietra che il passato ci ha saputo donare a un nuovo e rispettoso destino … come elemento vivificato del nostro mondo attuale e presente?”), è bene accogliere la sollecitazione di Glauco Teofilato e meditare profondamente sul monito di CESARE TEOFILATO (https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Teofilato): “se nel tuo cuore non canta / il poema de le lontane memorie”, come “puoi vantarti d’essere membro /d’una nobile città”?!

    IL PROBLEMA è DIFFICILE…, ma non ci sono altre vie. Per andare avanti, bisogna ri-tornare indietro: sulle sue “pietre” (“su questa pietra”) è edificata non solo “una nobile città”, ma l’intera CIVILTÀ della TERRA. O no?!

    BUON LAVORO ….

    Federico La Sala

    • Egregia sintesi, saggi consigli, costruttiva ed efficace visione sul da farsi immediato. Tuttavia, gentile Federico, non scordiamo che non tutti hanno gli stessi animi del poeta che compone quei versi né la stessa nostra sensibilità, o il nostro sguardo sulla questione, non tutti colgono il valore di ciò che vogliamo custodire qui: il paesaggio difficilmente si tutelerà rendendolo semplicemente un museo, salvaguardando lo stato dei manufatti, conservandoli ed esponendoli! Un paesaggio non è una collezione di oggetti, è lo sfondo in cui viviamo, e viviamo in tutti i sensi, producendo, chiacchierando, sognando. A tutte queste esigenze dovrà rispondere il modello che dobbiamo trovare. Così, ad alcuni basterà la rilevanza storica, o la bellezza, per motivarsi a custodire i nostri beni architettonici, ma altri, purtroppo o a ragione (non sta a me giudicare) dovranno essere mossi da altri scopi, e bisogna pur comprenderli (nel senso letterale del termine, accogliere queste esigenze anche!),Non voglio disperare, ma solo mettere in guardia delle più ardue insidie e difficoltà che sono al fondo della questione e che sottovalutare renderebbe vane le nostre speranze, trasformandole in pie illusioni dapprima, e delusioni infine! Grazie anche a te Federico per il tuo ottimo contributo!

      • EINSTEIN. Fisica e meta-fisica….

        A LODE DI PIER PAOLO TARSI E DEL DR. MARCELLO GABALLO, tuttavia, per non perdere il filo e la memoria e la portata della sollecitazione DELL’ UNESCO, mi piace ricordare che la parola “EINSTEIN”, cioè “EIN – STEIN”, in italiano, è traducibile così: “UNA – PIETRA”. E, “su questa pietra”, come abbiamo potuto verificare, si può certamente continuare a costruire sia una “nobile città” e una nuova civiltà sia – con Ulisse, Dante, Einstein, e tutte le “pietre” del Salento, dell’Italia, dell’Europa e della TERRA – a “seguir virtute e canoscenza”. O no?

        BUON LAVORO…

        Federico La Sala

  4. Sull’importantissimo quesito che ha sollevato Pier Paolo con il suo sensibile pensiero, c’è tanto da meditare, tutte cose vere. Fintanto che le istituzioni si muovano, e spero presto, gentile Glauco Teofilato, non posso che approvare il tuo concetto. “Per esempio sollecitando norme per la conservazione, il restauro e la costruzione di nuove murature esclusivamente con pietre a secco” . Io sono pienamente d’accordo con questa linea di pensiero, e con il fatto che bisognerebbe farla davvero diventare storia, questa nostra cultura, insegnarla, tramandarla e continuare a scriverne, affinché essa conservi la propria importanza e la propria memoria.

    • Assolutamente questo il senso Cristina, se uno ce n’è, delle mie parole: continuare a scriverla quella storia, inserendosi in quella sua trama, in quella sintassi, per dire cose nuove. Conservare e inventare: non c’è un tempo che non sia chiamato a fare il secondo sforzo se vuole portare a termine veramente anche il primo.

  5. P. S. Glauco Teofilato, volevo aggiungere che sono bellissimi i versi che hai citato, grazie per avermeli ricordati.

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