Otranto 1480. Fonti, studi, testi. La parte di Donato Moro

di Cosimo Rizzo

Innumerevoli saggi sono apparsi nel tempo sulla vicenda otrantina del 1480.

Significativi e più puntuali quelli pubblicati nel secolo XX° e quelli apparsi in seguito alla canonizzazione del 12 maggio 2013 dei circa 800 otrantini decapitati dai Turchi il 14 agosto 1480 sul colle della Minerva.

Via via che ci si allontana da questo evento storico di Otranto, caduta in mano ai Turchi, afferma il critico letterario A. Vallone, si perdono insieme la lucidità e le ragioni delle circostanze e dei condizionamenti politico-militari ed anche le dimensioni del reale dramma umano e quotidiano della città e dei suoi abitanti. La fonte più genuina, seppure trepidante e commossa è negli accenni di Antonio De Ferraris, nel De bello idruntino.

Non molto dopo, verità storica e realtà drammatica non solo si vanno diluendo nel tempo, ma anche, rimescolandosi, si tramutano prima in scolastiche esercitazioni e poi, frammiste a queste, in fantasiose leggende.

Nè storici, nè letterati del tempo colgono adeguatamente l’occasione così come il fatto stesso, eccezionale sotto ogni aspetto, avrebbe forse richiesto. Ci sono nel fondo motivazioni storiche di rilievo.

Nel 1670 Francesco Antonio Capano pubblicava: Memorie alla posterità delli gloriosi e costanti confessori di Giesu Christo, che patirono martirio nella città d’Otranto l’anno 1480, editore P. Micheli di Lecce. E’ il primo centone antologico che riunisce brani <<raccolti da varii autori impressi, e manuscritti>>.

Apre la raccolta proprio A. De Ferraris, il Galateo, con un brano estratto da Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nell’anno 1480, tradotto in volgare da G. Michele Marziano, nel 1612, che racconta la presa di Otranto e la sua riconquista nel 1481.

Della presenza nel Salento nel 1480 del Galateo non si è certi; ma egli era ad Otranto l’anno seguente, dopo che nel settembre Alfonso d’Aragona riuscì a riconquistare Otranto.

Dopo questa impresa il padre di Alfonso, Ferdinando I re di Sicilia, scriveva da Bari, l’11 settembre 1481, al papa Sisto IV che era: <<assicurato il mio regno, liberata l’Italia e tutto il mondo cristiano prosciolto dall’imminente pericolo>>.

La testimonianza di un contemporaneo come l’umanista galateano sarebbe stata decisiva e probante, anche se venata dalla partecipazione di un lutto familiare per l’eccidio dell’arcivescovo Stefano Agricoli, suo parente, nel coro della Cattedrale dove, scrive il Galateo nel De situ Iapygiae, <<adorno delle insegne pontificali, fu sgozzato sulla sua stessa sedia dai Turchi che irrompevano nel tempio>>.

Seguono alcuni capitoli tratti dalla Historia de los Martires de la ciudad de Otranto, Napoli, 1631 di Francisco de Araujo. Quindi, con la premessa di una dichiarazione del notaio Angelo Stefanachi che attesta avere egli il 3 aprile 1660 visto aprire l’archivio del capitolo sito nella sacrestia della Chiesa Metropolitana e trovare un volume vecchissimo, manoscritto in folio di 56 pagine, dal titolo: Historia della Città d’Otranto. Come fu presa da’ Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini: fatta per Giovanni Michele Laggetto della medesima città, sono riporta

Su questa storia ancora oggi gravano dubbi e riserve, perchè, andato perduto il manoscritto originale, le varie copie sono ritenute modificate o contraffatte. Comunque nel 1924, a Maglie, presso la Tipografia Messapica fu pubblicata, nella trascrizione di una copia del manoscritto ritenuta autentica, una edizione della Historia, del canonico Luigi Muscari e trent’anni più tardi, una nuova edizione fu compresa in Otranto – Testi e monumenti, (Galatina, Editrice Salentina, 1955, pp.8-89) di Antonio Antonaci.

La seconda parte del volume riporta le <<informazioni>> sui martiri iniziate a raccogliersi tra la fine e l’inizio dei secoli XV e XVI ed altri brani estratti da cronache e storie e si chiude con De reliquiis martyrum hydruntinorum Hierotopochronica enarratio di Pompeo Gualtieri.

Per concludere questo brevissimo excursus storiografico sulla presa di Otranto, cito ancora di Pompeo Gualtieri Relatione de’ Santi Martiri della Città d’Otranto et apparitioni meravigliose, Lecce, P. Micheli, 1677, per sottolineare come l’episodio storico col trascorrere del tempo sia sia confuso con l’agiografia e l’esaltazione martirologica che hanno reso più tormentato e incerto il processo lunghissimo e, va riconosciuto, serio e dibattuto presso i tribunali ecclesiastici per la beatificazione degli ottocento decapitati. Costoro, stando alle non contrastanti cronache, furono gli scampati alla strage dei dodicimila cittadini di ogni età, condizione e sesso, i quali o non poterono riscattarsi per denaro o non vollero abiurare alla fede.

Di questo secolare dibattito A. Antonaci fornisce una raccolta puntuale di documenti e di indagini in I processi nella causa di beatificazione dei Martiri di Otranto, Galatina, Ed. Salentina, 1962.

La grande storiografia settecentesca e quella successiva, ricorda soltanto per inciso o per citazione la <<guerra otrantina>>, relegandola ad avvenimento marginale e locale, non incidente nello scontro che il centro-Europa visse nel corso dei secoli XV – XVI con il colosso islamico.

Nella storiografia degli ultimi anni del secolo XX° si nota positivamente un nuovo e più moderno orientamento. Lo dichiara Alessandro Laporta nella introduzione al volume Otranto 1480, Cavallino, Capone Editore 1980, in cui sono raccolti studi e contributi di valenti studiosi.

“A differenza della tradizione ottocentesca – egli afferma – che ha fatto sempre capo a fonti piuttosto tarde rispetto all’evento otrantino, e le cui uniche eccezioni sono rappresentate dal Laggetto, dal D’Acello, da Vespasiano da Bisticci e dal Marziano, gli studi del nostro secolo, sia pure accettando senza sottoporli, nella maggioranza dei casi, ad alcuna revisione critica, questi autori, hanno piuttosto cercato di recuperare materiali nuovi e principalmente coevi o immediatamente posteriori alla vicenda, con l’intento, anche, di scavalcare l’anno 1539, che per essere stato data del primo processo informativo sulla via della beatificazione dei martiri di Otranto, può aver segnato, in senso negativo, tutta l’intera tradizione successiva”.

I risultati fin a quel momento conseguiti sono piuttosto soddisfacenti, anche se non possono pretendere di essere definitivi, per quanto si sia cercato di arrivare fino al 1980 con un corredo pressocchè completo di materiali. motivo questo per cui non si vorrebbe che tante lodevoli iniziative poste in essere con questo fine, avessero ad esaurirsi con il centenario, ma, stabilizzate, portassero all’acquisto di una sempre maggiore documentazione.

Su questa vicenda otrantina, tra le pubblicazioni criticamente valide dell’ultimo cinquantennio si collocano quelle di tanti valenti studiosi che andrebbero esaminate e approfondite. Basti pensare ad A. Antonaci, A. Vallone, G. Vallone, A. Laporta, V. Zacchino, A. Saracino, P. Ricciardi, F. Cardini, D. Moro e tanti altri.

Mi limito a qualche esempio.

  1. Saracino nel volume Otranto baluardo dell’Occidente Cristiano edito a Roma nel 1981, porta un illuminato contributo sul tanto discusso episodio otrantino.

Un lavoro il suo che rievoca in forma semplice e chiaramente accessibile, ma sulla base di una accurata documentazione, il sacrificio di una città che, col suo martirio, ha di fatto salvato l’Italia dall’invasione e la civiltà cristiana da un dominio che, se realizzato, avrebbe potuto quanto meno modificare il corso della storia. E l’aspetto centrale che Saracino esamina nei diversi momenti dei fatti otrantini e che costituisce il filo conduttore del suo pregevole lavoro, è quello di dimostrare come Otranto rappresenti il primo esempio tipico di un popolo che si ribella alla inefficienza dei capi e che non esita a sacrificarsi fino all’ultimo uomo per la difesa della libertà e della fede.

In Otranto si incentra il momento cruciale della lotta tra due civiltà. Ne sono indice la preparazione accurata della spedizione fatta da Maometto II da un lato e lo sforzo compiuto dal papa Sisto IV dall’altro, per neutralizzare quel tentativo.

In questo senso, la guerra di Otranto va oltre i limiti – già di per sè molto validi – di una storia locale, per inserirsi nel quadro più ampio della storia della civiltà.

Otranto rappresentava – e questo emerge da tutta l’esposizione del Saracino – la testa di ponte ideale, da cui Maometto II contava di partire per la conquista, e soprattutto per la scristianizzazione dell’Italia: era convinto infatti che la sua stessa grandezza doveva nascere dalla conquista della civiltà occidentale, che si poteva realizzare solo attraverso la distruzione del cattolicesimo. Ed avrebbe certamente raggiunto il suo scopo se non avesse trovato nella Fede e nella forza d’animo degli Otrantini quell’ostacolo imprevedibile che, bloccando per quindici giorni le sue forze sulle rive del Canale, permisero a Papa Sisto IV di inviare i suoi appelli accorati a tutti i potentati, e a Ferdinando di Napoli di organizzare le prime difese.

Maometto II puntava alla conquista dell’Italia e quindi di Roma centro del Cristianesimo: e questo considerava il coronamento più alto dei suoi sogni.

Da tenere presente inoltre che il Saracino ha rinvenuto e pubblicato una importante bolla <<Cogimur iubente altissimo>> di Papa Sisto IV, da molti ritenuta perduta, intorno sempre alla guerra d’Otranto del 1480-81, bolla che il Pastor definisce <<nobilissima>>, che tutti i contemporanei tennero in grande considerazione e che lo stesso Saracino non esita a definirla il <<grido di un’anima>>.

Illuminante lo studio di A. Vallone L’eccidio otrantino (1480) tra canoni retorici e invenzione narrativa dal XVIII° secolo ad oggi in Otranto 1480, Galatina, Congedo 1986.

Otranto, afferma questo critico, già città fiorente e poi borgo silenzioso in una estrema provincia frontiera del Sud, resta staccata dalle ridde letterarie e si affida prevalentemente e via via sempre più decisamente dal Seicento in poi ai cantori locali. Anche in questo caso, pur di fronte ad avvenimenti di stragrande rilevanza politico-religiosa, la eccentricità storico-geografica della città è una inesorabile condanna.

I locali agiscono come possono. Le loro opere si muovono con tutti gli impacci di un episodio non solo staccato dagli interessi dei lettori, ma anche lontano nel tempo e peraltro sovrastato da fatti o eterni o compresenti nella coscienza media o aggressivi e suggestivi come cronache correnti. È fervore di fede di monsignori e ambizione di arcadi provinciali a tenere desto l’episodio otrantino.

Può dirsi che la vicenda di Otranto dal Diciottesimo al Ventesimo secolo, attraverso cronache in versi, esercitazioni teatrali ed epiche, rime varie, trova solo nell’età nostra interpreti isolati ma degni, come De Dominicis e Corti, che pur fermi nel rispetto della fede e della pietà, rigenerano l’episodio nella luce della poesia.

Amaramente si può concludere col dire che chi poteva scrivere la vera e genuina storia di Otranto, nel dramma della fede e della morte, non la scrisse e la tenne in seno, nascosta come patrimonio spirituale e umano da trasmettere a voce.

Di fatto la storia lasciata in mano ai conservatori cioè ai maestri di scuola, ne uscì irrimediabilmente contraffatta e sclerotizzata.

Originale nell’impostazione e ricco di riferimenti storico-documentari lo studio di G. Vallone Mito e verità di Stefano Agricoli arcivescovo e martire di Otranto (1480) pubblicato su Archivum historiae pontificiae n. 29, 1991 dove si mette in nevidenza la vera identità storica della figura dell’arcivescovo otrantino martirizzato nell’eccidio.

Insostituibili e punto di riferimento gli studi di D. Moro (Galatina 1924-1997), riuniti nel 2012 in due tomi di un unico volume che a dire del curatore, G. Pisanò, “sono il frutto della sua vita spesa nella ricerca storico-culturale, nella cura filologica di testi legati all’umanesimo meridionale, nella lettura critica delle dinamiche ideologico-formali sottese allo sviluppo dell’età moderna, attività, queste, tutte riconducibili a un filo ideale, a un unico tema, a un preciso e concreto “luogo della storia: Otranto”.

Si tratta di numerosi contributi, fra saggi ed articoli, scritti in un arco di tempo fra il 1971 e il 1996.

Tali studi offrono agli studiosi di storia patria, nazionale ed europea uno strumento completo e complesso per i molteplici risultati ordinati in un quadro unitario e cronologicamente definito.

Tutta la vicenda otrantina è infatti compresa in pagine ricche di documenti e di citazioni bibliografiche indispensabili per chi voglia misurarsi ancora con essa.

Di tale vicenda sono messi in evidenza gli aspetti letterari e civili, le fonti salentine, le registrazioni umanistiche.

Si prenda, ad esempio, la ricerca Otranto nel 1480-81. Due preziose fonti, fra le più antiche, mai fino ad oggi individuate come tali contenute nel primo tomo della pubblicazione citata, per rendersi conto delle direzioni di lavoro e di approfondimento con cui si è mosso il critico.

Faccio questo solo esempio per dimostrare come siano fondamentali gli studi di D. Moro che forniscono elementi sempre più chiarificatori sulla complessa problematica riguardante il tanto discusso episodio idruntino.

Le preziose fonti, pubblicate in Appendice cui si riferisce nel titolo sono: la copia della presa d’Otranto da Turchi ne l’anno 1480 – relazione d’Acello – e la relazione fatta dal segretario Ferdinando a’ Prencipi d’Italia – rifacimento otrantino: la copia è “documento di notevolissimo valore” e sta a monte del Rifacimento.

L’autore fornisce la descrizione del codice contenete la Copia (Cod. 2350 – già XIV.52 – della Biblioteca Casanatense di Roma) e ne indica l’autore – pur con qualche margine di dubbio sulla forma del cognome – in un Giovanni Antonio d’Acello che ne avrebbe avuto l’incarico da Alfonso di Calabria.

Interessante il tessuto linguistico-stilistico della Copia: in questa è riscontrabile “un fondo linguistico che rispecchia la koinè meridionale pienamente attestata alla fine del ‘400; e l’autore esemplifica questa koinè meridionale con una serie di parole e sintagmi tra cui è rilevabile fando come “probabile apporto salentino” e sicilianismi quali defenseriano, moririano accanto a usi ascrivibili al napoletano illustre del secondo ‘400.

Complessivamente si tratta di “un impasto linguistico caratteristico di un’epoca e di un clima culturale che possono assumere occasionalmente anche qualche nuova forma dialettale assorbendola in un ideale di scrittura curiale e cortigiano”; sul fondo del linguaggio cancelleresco del periodo aragonese si introducono filamenti toscani, qualche alterazione notevole (diriopiato per dirupato) o qualche termine di uso amministrativo (dispiaciò per dispacciò: da dispacciare) che andava attestandosi in area italiana.

Anche del Rifacimento il Moro dà la descrizione del manoscritto che lo contiene. Il testo, pur derivando dalla Relazione d’Acello, fu profondamen­te alterato (soppressione degli otto paragrafi iniziali sostituiti dall’autore con una propria narrazione degli avvenimenti otrantini, rielaborazione o modificazione anche notevole a volte dei paragrafi seguenti); la stesa di­gnitosa veste letteraria dell’originale è sopraffatta nel Rifacimento e quella che poteva essere una compendiosa annotazione nella Relazione (l’episodio della morte di Giulio Antonio Acquaviva) si dilata ad ampiezza di rac­conto anche se, nel seguito, spie di una resipiscenza di fedeltà all’originale, riappaiono dei gerundi coniugati al plurale (« fortificandonosi, trovandonosi, ottenendono, vendendonosi ») riscontrati, nella Relazione d’Acello, come appartenenti al napoletano illustre del secondo Quattrocento.

Dovuto alla penna di un « uomo alla buona e poco colto », quale il Moro ipotizza dovesse esserne l’estensore il Rifacimento appare « un’ibrida mescolanza linguistica, caratterizzata qua e là da forme dialettali salentine».

Prestigio del potere regio e degli uomini d’arme, fedeli al sovrano e a Dio, risaltano nella Relazione del d’Acello; protagonista del Rifaci­mento, dalle cui pagine affiora un sotteso agiografismo, è la cittadinanza. Il fervore religioso che percorre il Rifacimento induce a intravvedere nel suo estensore un sacerdote. Il Rifacimento è importante non solo perché consente di ricostruire nei contenuti la Relazione d’Acello, ma soprattutto perché informa sulle vicende interne di Otranto e nel periodo tragico della sua caduta in mano ai Turchi e in quello immediatamente seguente alla liberazione.

Lo stesso documento e l’analisi di alcuni passi dei Successi del Mar­ziano consentono all’autore di portare prove inequivocabili sull’originalità degli stessi Successi che non possono essere assolutamente considerati tra­duzione di un’opera latina del Galateo. Se questo prima era sospetto no­tevole di biografi e studiosi del De Ferrariis, oggi, nel saggio di Donato Moro, la questione è sufficientemente chiarita e i Successi risultano non aver niente a che fare con lo scritto galateano.

Ci sarebbe da domandarsi se il Rifacimento è collocabile oppure no all’epoca (1494-95) cui lo attribuisce Donato Moro. In sostanza tale data­zione riesce persuasiva se si tiene conto di alcune considerazioni che è giusto fare. A parte le condizioni di questo testo e la relativa vicinanza a noi del manoscritto da cui è stato tratto, la collocazione è convincente, in quanto la tradizione martirologica in esso contenuta rappresenta una forma embrionale molto elementare rispetto a quella più complessa e arti­colata che si verrà via via costituendo con l’ Informatio del 1539, con il Marziano poi (1583), con il Laggetto (fine del ‘500).

Sarebbe infatti assai azzardato pensare ad un confezionamento otran­tino posteriore a questi scritti e documenti in epoca cioè in cui in Otranto nessuno avrebbe osato mettere in discussione punti ormai acquisiti allo schema agiografico (data della decapitazione avvenuta di domenica, cadaveri trovati intatti dopo tredici mesi, fatti miracolosi, ecc.).

L’abbondantissima messe di informazioni, le sottili congetture, il lumeggiamento dei documenti esaminati, la valori zzazione del secondo rimasto ignoto o trascurato per tanto tempo, rendono lo studio di Donato Moro un fondamentale punto di passaggio per chi vorrà riprendere l’argomento. Se si tiene conto poi che all’indagine propriamente storica si aggiunge quella lingustica dei testi il1ustrati (specie del primo) – ed è questo, nell’insieme del saggio, un momento di notevole forza – s·i vedrà come sia possibile ri f ondare su basi nuove e con mezzi scientifici, i nserendole in una prospett iva di ricerca storica tout -court, quelle ricerche di « storia locale un tempo pales ra di orecchianti o di spravveduti, quanto bene intenzionati, ricercatori .

Ben a ragione lo storico Mario Spedicato ha osservato che questa “rinnovata attenzione alle fonti e l’allargamento dello sguardo alla dimensione nazionale ed internazionale rappresentano risultati storiografici dei quali la ricerca di settore più accreditata non ha potuto fare a meno di poter ulteriormente avanzare nella conoscenza”.

pubblicato su Anxa, sett.-ott. 2018, pp. 6-9

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