Picatoru e Pappacènnire

di Armando Polito

Tra i ricordi d’infanzia probabilmente quelli legati alle persone e non agli oggetti restano i più vivi e tra loro a distanza di anni o, come nel mio caso decenni, suscitano interrogativi mai posti quando l’età era tenerissima. Oggi nemmeno gli adulti, nonostante la disponibilità di formidabili strumenti di conoscenza, si pongono eccessivi perché e chi mostra di essere curioso, cioè di esser posseduto dalla cura  di conoscere (come il furioso è posseduto dalla furia, lo smanioso dalla smania, e così via …) è visto come un alieno, a meno che la curiosità non suia indirizzata a questa o a quella miseria gossippara …

Potevo io a cinque anni o poco più chiedere agli altri (meno ancora a me stesso) il perché dei soprannomi del titolo con cui a Nardò negli anni ’50 erano chiamati i personaggi di cui sto per parlare?

Picatoru (vero cognome Calabrese, il nome Totò) era il colono di mio nonno (Alessandro Giulio), addetto alla raccolta dei fichi e delle mandorle, che nell’economia del tempo avevano un ruolo determinante1. Era un ometto basso (nel suo lavoro, perciò, adoperava un crueccu2 più lungo del normale) e segaligno, con un naso abbastanza pronunciato, diciamo pure sovradimensionato, rispetto al resto del volto, di pochissime parole e dai gesti lenti. Più loquace e pimpante era, invece, la moglie, Maria, che, oltre che aiutarlo, provvedeva pure a raccogliere le cozze piccinne3, in quei tempi abbondantissime dappertutto, Masserei compresi. I Masserei, oggi sono un quartiere periferico di Nardò, all’epoca di questi miei ricordi erano aperta campagna punteggiata qua e là da qualche casinu4, in cui il privilegiato possessore, che viveva per il resto dell’anno a Nardò, andava in villeggiatura. I miei possedevano ai Masserei una stamberga (tale la definisco con ingratitudine e crudeltà dopo che al suo posto sorge da qualche decennio una casa moderna e confortevole) dal tetto di cannizzi5 sorretto da travi e coperto da tegole. Trascorrevamo lì l’estate, almeno finché il tetto non cominciò a cedere e dovemmo rinunciare alla villeggiatura.

Torniamo, però, a Maria e alle cozze piccinne. Chi le conosce sa che ci sono quelle femminili, più pregiate, e quelle maschili, che lo sono meno, perché, sentivo dire, ospitavano un verme. Vero o falso che fosse, Maria le poneva in un cofano pieno d’acqua ed aspettava che il verme uscisse prima di cucinarle. Sarà stata suggestione ma a distanza di quasi sette decenni ho ancora viva davanti a me l’immagine del cofano con i vermi galleggianti in superficie.

Come la moglie assume il cognome del marito (sia pur preceduto dalla preposizione in, che potrebbe assumere un significato inquietante … altro che maschilismo!), Maria ne aveva assunto il soprannome, sicché, quando si era obbligati a specificare di quale Maria si parlasse, l’inevitabile risposta era Maria Picatoru. E qui l’affare si complica perché qualsiasi soprannome ha in sè una valenza negativa, anche quando nasce, per esempio, dall’attività esercitata dall’interessato e non da un suo difetto fisico6.

Picatoru non poteva suscitare curiosità di tipo etimologico in un bambino come me e, anche se così fosse stato, qualsiasi aiuto da parte degli adulti sarebbe mancato. Oggi, infatti, sono in grado di ipotizzare che Picatoru derivi in realtà da pica t’oru (pica di oro) e che contenesse un probabile riferimento alle capacità sessuali dell’interessato. In tempi in cui in presenza non dico di infanti ma di minori tutte le parole attinenti alla sfera sessuale erano tabù, tanto che l’attesa del ciclo mestruale (mese) diventava attesa del marchese, e questo tipo di omertà sessuale trovava consacrazione in locuzioni del tipo mo no ppozzu parlare ca ‘nci so’ li ozze7, perché, quando, come e dove un bambino di cinque anni avrebbe potuto soddisfare, ammesso che l’avesse avuta, una curiosità di tal tipo? Purtroppo oggi a settantatrè anni continuo a restare con lal mia ipotesi, quando ormai, per il trascorrere inesorabile del tempo, quasi sicuramente non c’è nessuno della generazione precedente la mia che possa in qualche modo confermarla. Eppure, nonostante il suo fisico, Picatoru, proprio per via del suo naso, se il tanto del soprannome mi dà tanto, sarebbe potuto essere un ottimo testimonial per il Noscitur a naso quanta sit hasta viro8 (Si riconosce dal naso quanto grande un uomo abbia il pene).

Ho già detto dell’abitudine annuale per la mia famiglia di andare in villeggiatura ai Masserei. Oggi forse costa meno denaro e tempo comprare l’arredamento per la casa di campagna piuttosto che sobbarcarsi a fastidiosi e costosi traslochi. Ma allora, anche se l’arredamento di cui parlo era sostanzialmente costituito da un tavolo, qualche sedia e qualche letto (la mastodontica radio Geloso restava a Nardò, anche perché ai Masserei non c’era l’energia elettrica) non c’erano le mirabolanti offerte di oggi con sconti del 120% …

E a questo punto di questa storia autentica, anche se personale, debbo introdurre Pappacènnire (cognome De Benedittis, anche per lui ignoro il nome), titolare di una sorta di impresa di traslochi ante litteram.

Non so se avesse altri mezzi, ma ricordo che per il trasporto di quei pochi, ma ingombranti, oggetti di arredamento ai Masserei utilizzava un carro di dimensioni almeno triple rispetto ai comuni traìni9. Era bellissimo, con un pianale immenso (largo almeno tre metri e lungo più di quattro), privo di ‘ncasciati10, con quattro ruote gommate, tirato da un robusto cavallo.

Pappacènnire era fisicamente l’esatto opposto di Picatoru: alto, robusto, dal fare svelto e deciso. D’altra parte, se non fosse stato così, per la  villeggiatura non saremmo mai partiti, tanto meno arrivati ai Masserei. Toccava, infatti, a lui fare tutto, col saltuario aiuto dei miei in qualche frangente: carico, viaggio e scarico.

Come per Picatoru così per Pappacènnire l’etimo resterà un mistero e tutte le ipotesi sono plausibili, pure che avesse un appetito così formidabile da papparsi pure la cenere attaccatasi eventualmente alla carne durante la cottura. Eppure per lui ho sperato per qualche tempo di giungere a conclusioni più concrete.

Nell’anno scolastico 1998-1999 in quarta ginnasiale una mia alunna era Alessandra De Benedittis. Senza perdere tempo le commissionai l’incarico di assumere informazioni eventuali sul nostro personaggio. La ragazza dopo qualche giorno mi riferì che Pappacènnire era un suo antenato e precisamente il nonno di suo padre, con conferma del soprannome e dell’attività. Nulla di più, purtroppo, neppure, non dico una foto, un’indiscrezione, un aneddoto, una diceria che facesse luce sul soprannome. Eppure proprio quest’ultimo ha contribuito a far restare in me vivo il ricordo di un uomo e, per quello che la mia scrittura può valere, di mantenerlo, ritardando, pur provvisoriamente, l’impietosa azione cancellatrice del tempo esercitata sugli uomini cosiddetti comuni. Non tutti si chiamano, a partire dalla nascita e per restare nel nostro Salento, Adriano Pappalardo …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/05/da-una-foto-del-1911-ecco-il-grande-laboratorio-di-fichi-secchi-di-neviano/

2 Bastone a forma di uncino ricavato opportunamente da un ramo. Il corrispondente italiano è crocco, dal francese croc, a sua volta dallo scandinavo krokr. Il plurale (cruecci) designa l’attrezzo, formato da vari uncini, utilizzato per recuperare il secchio caduto nel pozzo.

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/16/voglia-di-cozze-piccinne/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/22/cozze-de-terra/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/lumache-e-chiocciole/

4 Casa rurale. Stranamente non era parola soggetta a censura, forse per un’ipocrita rimozione (corrispondente ad una finta ignoranza) dell’altro significato, quello di casa di tolleranza, di quella, cioè, che all’epoca era quasi un’istituzione ufficiale e riconosciuta di iniziazione (mi stava scappando educazione) sessuale.

5 cannizzu: in italiano canniccio. Assicuravaun’ottima coibentazione. Sempre fatto di canne, era utilizzato per l’essiccazione dei fichi.

6 Non guasta ricordare i tria nomina (tre nomi) dei Romani: il praenomen, corrispondente al nostro nome; il nomen corrispondente al nostro cognome e il cognomen o agnomen corrispondente al nostro soprannome. Quest’ultimo si riferiva ad un difetto fisico (per esempio: Marcus Tullius Cicero, in cui Cicero, secondo quanto riportato da Plutarco nella sua biografia del famoso oratore, sarebbe riferito ad un porro a forma di cece che aveva sul naso), oppure all’attività esercitata (per esempio: Marcus Livius Salinator in cui Salinator probabilmente alludeva al salinator aerarius, colui che dallo stato assumeva l’appalto per fare o vendere il sale), oppure ad una memorabile impresa compiuta (per esempio: Publius Scipio Africanus, in cui Africanus è in ricordo della vittoria decisiva della seconda guerra punica riportata a Zama, in Africa). Più arbitrarie e casuali, invece, sembrano le ragioni che stanno alla base dello pseudonimo, che ha il compito di ridurre la banalità (e in qualche caso qualche probabile  inconveniente) del cognome originale. Per esempio: pensate che Peppino Di Capri sarebbe giunto a festeggiare i sessanta (dico sessanta) anni di carriera e ad incidere più di cinquecento canzoni (credo sia record mondiale), se avesse continuato a chiamarsi Giuseppe Faiella?

7 ozza: grande ed alto vaso di creta per conservare vino; in italiano boccia. Probabilmente il riferimento metaforico è legato alla sagoma del recipiente (che può ricordare, per quelle di minori dimensioni, la sagoma di un bambino, oppure alle doti recettive di entrambi.

8 È il secondo verso di un distico elegiaco della Scuola salernitana. Il primo verso recitava: Noscitur a labiis quantum sit virginis antrum (Si conosce dalle labbra quanto grande sia la vulva di una vergine).

9 traìnu: carro a due ruote alte; in italiano tràino. Mentre la forma italiana è deverbale da trainare (come cambio da cambiare) quella salentina è, sempre deverbale, ma dal latino medioevale traginare. Da ciò il suo accento (traginare>*tragìnu>traìnu).

10 ‘ncasciatu (in italiano alla lettera incassato, usato come participio passato sostantivato): sponda laterale amovibile del carro.

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5 Commenti a Picatoru e Pappacènnire

  1. Dove scrivi “utilizzava un carro di dimensioni almeno triple rispetto ai comuni traìni. Era bellissimo, con un pianale immenso (largo almeno tre metri e lungo più di quattro)” era forse lo “scialabbà”?

  2. Caro Armando, dopo qualche tempo, torno a ribadirle tutto il mio apprezzamento per i suoi post colti, arguti, interessanti e stimolanti (nel senso della conoscenza, ovviamente :)). In questo caso in particolare, non posso trattenermi dall’intervenire perché con Pappacènnire lei ha fatto un’incursione, involontaria, nella vita della mia famiglia.

    Ancora oggi qualcuno lo potrebbe ancora ricordare ed utilizzare, ma senz’altro negli anni della mia infanzia e adolescenza a Salice Salentino, prima che l’università e poi il lavoro mi portassero in Toscana, io, Vanni, ero il figlio di Ciccio Greco, molto meglio riconoscibile, senza rischio d’errore, come …lu fiju te lu Cicciu Pappacinnere.
    Dal primo momento che ne sono venuto a conoscenza, ho chiesto a mio padre le ragioni di questo soprannome che, come per quasi tutti gli altri soprannomi, mi appariva tutt’altro che un complimento o un’informazione anagrafica di carattere neutro; tanto meno se si considerava il tono sarcastico con cui veniva pronunciato da alcuni.

    Ecco la risposta di mio padre.

    Il soprannome risaliva al mio nonno Giovanni (classe 1863) e, almeno, al mio bisnonno Nicola (1818). Derivava da un loro antenato frate francescano, lettore del convento di Salice Salentino, un tempo anche sede di rettorato per novizi. Pare che tale frate, per testimoniare concretamente ai giovani novizi umiltà, sacrificio e distacco da beni terreni e piaceri umani, all’inizio di ogni pasto, peraltro assai frugale, usasse spolverare con un pizzico di cenere la pietanza nel piatto, accompagnando il gesto con queste parole enfatiche: “Oh mio corpo, che pregusti il piacere di questa tavola, ricorda che cenere eri e cenere tornerai!”.
    Ecco, dunque, l’origine apparentemente chiara. Almeno secondo la tradizione orale della mia famiglia che, in questo modo, provava anche a compensare, se non nobilitare, l’effetto spregiativo del soprannome. In aggiunta, mio padre ricordava anche che, nelle varie generazioni di Greco, i figli più svegli e intelligenti venivano appellati come Pappacinnere, mentre gli altri un po’ più semplici o bonaccioni prendevano il soprannome della famiglia della madre. È superfluo aggiungere che mio padre si riteneva un Pappacinnere e che la tentazione sia per me altrettanto suggestiva :)

    Le mie ricerche mi hanno fatto anche appurare come questo rito della cenere sul cibo non fosse una rarità tra le comunità monastiche di varie epoche, facendo perdere quel tocco di esclusiva originalità che mi sarebbe piaciuto ricondurre solo al mio antenato.

    Da appassionato di genealogia (ho ricostruito il mio albero genealogico fino agli anni a cavallo tra Cinque e Seicento), devo anche segnalare di non aver ancora rintracciato l’antenato frate Greco cui fa riferimento la tradizione familiare, il quale, avendo preso le difese – come narravano i miei – clerical-borboniche nella breve Repubblica Napoletana del 1799, sarebbe stato facilmente identificabile in un arco temporale ben definito.

    Un’altra direzione delle mie ricerche mi ha poi condotto nella prima Terra di Bari, poco sopra il confine dell’antica, nostra Terra d’Otranto, tra Castellana e Monopoli da dove proveniva, a metà del Settecento, un altro mio antenato di cognome Saracino. A Monopoli, in particolare, esiste tutt’ora “via Papacenere” che prende il nome di un bastione delle antiche mura. Ringrazio ancora Michele Panizzi di Monopoli, appassionato di storia locale, che mi ha fornito le seguenti notizie:
    “Il Nardelli, che ha scritto una storia di Monopoli a metà del 1700, riferisce a pag. 23 del suo libro, che “Pappacenere” era il nome che si dava ad uno dei 14 baluardi delle mura di cinta dell’antica Monopoli. Sempre, secondo il Nardelli, questo baluardo era chiamato Pappacenere perché lì nel periodo precristiano erano state sepolte le ceneri di Babula, nipote del poeta Ennio e moglie di Minonte Silicio. Tale notizia il Nardelli la prende da uno storico antecedente a lui, Bante Brigantino e da un altro storico, nonché illustre matematico, G. La Pezzaia, del periodo rinascimentale. I testi di questi storici però sono introvabili e quello che sappiamo è tale perché riportato non solo dal Nardelli, ma anche da altri storici, come G. Indelli.
    Ebbene Nardelli riporta il testo dell’antica lapide posta nel baluardo:
    HEIC / BABULAE CINEREIS / ENNII VATIS NEPTIS / MINONTHES SILICIUS / VIR CARUS / DOLENS POSUIT.”
    L’ipotesi del mio cortese informatore monopolitano Panizzi è pertanto che Pappacenere sarebbe la volgarizzazione di Babulae cinereis. Ipotesi che ci allontanerebbe dalla mia versione familiare.

    Ora lei, Polito, con il suo post riapre – almeno dal mio punto di vista – la questione che già mi ponevo: e se invece il soprannome Pappacinnere anziché essere inizialmente riferito ad un Greco, fosse stato dai Greco acquisito per via materna e quindi riconducibile ad altro cognome, anche rispetto al mio antenato frate che come Greco è introvabile?
    Questa è, infatti, l’ipotesi che mi aveva condotto prima a Castellana e poi a Monopoli e che adesso mi riporta su Nardò dove – qui la faccenda si fa per me intrigante – risalgono una parte delle mie origini.

    Mi spiego meglio. Il mio bisnonno Nicola Greco (il più antico Pappacinnere di cui sono certo) sposa, in secondo matrimonio a Salice, nel 1849 Elisabetta Schirosi, figlia di Fedele e di Lucia Saracino (a sua volta figlia del Saracino di Castellana) anche loro sposi a Salice nel 1818. Il caso vuole che Fedele Schirosi (piuttosto benestante, un giorno se le interessa le racconterò quest’altra storia che si tinge anche di giallo) si fosse trasferito a Salice, poco prima del matrimonio nel 1818, proprio da Nardò dov’era nato nel 1797 da Vito e Agata Colaci (Agata di Arcangelo Colaci, nato nel 1730 ca. a Galatone, e Rosa Vernole, nata nel 1735 ca.).
    Purtroppo, non ho alcuna notizia di parentela – almeno per ora – tra i miei antenati Schirosi o Colaci di Nardò con i De Benedittis che lei cita nel suo post come Pappacènnire. Ma non voglio escludere che qualcuno possa indicarci qualche nuova strada che ci aiuti a riagganciare opportunamente i dati per venire a capo di questa faccenda.

    Oltre la ricerca prioritaria di rapporti familiari diretti con i De Benedittis, indicherei anche altre due possibili direttrici che potrebbero essere:
    1) Un antenato del traslocatore neretino Pappacènnire, che lei ha conosciuto personalmente, potrebbe esser stato il traslocatore professionista utilizzato da Fedele Schirosi prima del 1818 per trasportare beni, materiali e mobilio da Nardò a Salice. Consideri che Fedele in quegli anni costruì a Salice una “casa palazziata” (parte della quale è ancora proprietà della mia famiglia) di oltre 400 mq per ciascuno dei due piani interamente coperti, e che qui avviò, o continuò dal padre e con la sua collaborazione, un’attività commerciale particolarmente redditizia. Il nuovo arrivato a Salice potrebbe aver preso il soprannome dai richiami, ripetuti e urlati, rivolti al traslocatore Pappacènnire, alias De Benedittis;
    2) Il monaco Pappacinnere potrebbe appartenere alla rete famigliare degli Schirosi (non alla Greco) ed il convento interessato dall’episodio della cenere sul piatto non essere quello di Salice, ma di Nardò o di altra località.

    Chiudo ringraziandola ancora per lo spunto prezioso che mi ha fornito, per me molto coinvolgente anche dal punto di vista affettivo, sperando di non averla troppo annoiata con i miei riferimenti familiari e magari provando a trovare l’occasione per scambiare due parole anche di persona nelle prossime settimane, visto che per me si sta avvicinando il tanto sospirato ritorno in ferie nel nostro amato Salento (il caro Marcello le potrà dare il mio cellulare).

    Con stima

    Vanni Greco

    • Il mondo è veramente piccolo, oggi più che mai, e la rete in particolare, pur coni suoi difetti, rende possibili incontri del nostro tipo. La sua storia è intrigante, ma dipanare la matassa dopo averne sciolto i nodi non è cosa facile. Eppure, nel ringraziarla per lo spessore conferito con i suoi dati ad un ricordo personale, sono contento di averle complicato la vita; e il mio non è sadismo …

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