Cutrèu: una caccia conclusasi felicemente, forse …

di Armando Polito

La battuta iniziò nell’ormai lontano 2010 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/10/dialetti-salentini-cutreu/) su Spigolature salentine, cui sarebbe succeduto, dopo la nascita della fondazione, l’attuale blog. Continuò quattro anni dopo con un’ipotesi alternativa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/12/29/ritorna-cutreu-dopo-quattro-anni/), si conclude oggi, ad altri quattro anni di distanza, almeno per quanto mi riguarda, anche se nel campo dell’etimologia parlare di soluzione definitiva spesso può essere azzardato, specialmente nei casi in cui due o più soluzioni sembrano plausibili.

Nel nostro caso particolare il dubbio restava alimentato dal fatto che il *crudivus messo all’inizio in campo, pur suffagrato dall’autorevolezza del Rholfs, restava pur sempre una voce ricostruita (come indica l’asterisco che lo precede), non attestata nel latino classico ed assente pure in quello tardo e nel medioevale.

Prima di continuare, però, debbo riportare quanto il concittadino Pasquale Chirivì ha postato sul suo profilo Facebook in data 13 maggio u. s.:

Lo chiamerò, arbitrariamente, Leo. Non ho la minima idea sulla sua identità, ma mi va di chiamarlo Leo: Leo lo Scutrèo, e ora spiegherò perché. Sulla settantina, bassezza media, sagoma vagamente tracagnotta e, soprattutto, espressione perennemente ingrugnata, come di chi sia costretto a convivere con uno spinoso cactus tra le chiappe (cit.). Comunanza di percorsi pedestri fa sì che io e Leo ci si incontri con una discreta frequenza, per cui all’ennesimo incontro mi venne spontaneo un misurato gesto di saluto, niente di eclatante che potesse mettere in imbarazzo chi magari in quel momento non se l’aspettava; infatti non se l’aspettava e non ebbe il riflesso di rispondere anche con un minimo cenno. Così pensai, per lo meno. Poi però, al mio secondo tentativo andato a vuoto, capii che Leo non aveva alcuna intenzione di aprire alcun tipo di rapporto, se pure estremamente formale e di pura gratuita cortesia. Perfettamente legittimo, per carità: nessuno deve sentirsi costretto a fare qualcosa che non vuol fare. Così da quel giorno, temendo che il mio salutare non fosse per lui salutare, ho smesso di salutare, e tanti saluti al secchio. Leo però continuo ad incontrarlo. Ora cerco di dare un senso al mio trovarmelo di fronte, e penso che la sorte sia stata con me benigna nell’avermi offerto un soggetto da studiare, l’occasione di esercitare quel dono dell’introspezione psicologica che ognuno di noi sente di avere, inutile nasconderlo, e che fa di noi infallibili psicologi, purché il soggetto da psicanalizzare sia esterno a noi stessi, dato che nel caso contrario perderemmo tutta la nostra presunta sapienza. Cos’è che fa di Leo una persona così poco incline alla socializzazione? Quale filosofia di vita lo sostiene? Una forma di nichilismo, una specie di “pensiero debole”, un’arroganza preterintenzionale, un così profondo disincanto sull’essere umano tale da impedirgli anche il minimo sindacale di interazione con gli altri? Forse è afflitto da problemi così gravi da inibirgli ogni forma di relazione col mondo esterno? Sono disposto a dargli tutte le attenuanti del caso, non avendo elementi in mio possesso per giudicare, però la mia sensazione, che non ha nessun valore assoluto e che quindi mi posso permettere, essendo per l’appunto “mia”, è che Leo appartenga alla ben nota categoria degli Scutrèi. Cos’è uno scutrèo? Trattasi di sostantivo di origine idiomatica intraducibile in italiano, che si potrebbe “tradurre” con “Persona totalmente priva di empatia e incapace di relazionarsi col resto del mondo” (fonte: Quattrocani Per Strada). Impagabile il dialetto quando sintetizza il tutto in un’unica espressione! Sì, per me Leo è uno Scutrèo, lo intuisco da come mi guarda ogni volta con una coda dell’occhio più evidente di quella di una volpe, da come fa di tutto per evitare il mio sguardo, da come, in definitiva, non gliene frega assolutamente niente di me; sentimento che, per quanto mi sforzi, non riesco a ricambiare del tutto, tanto che, soprattutto nel momento in cui sto scrivendo di lui, mi sovviene quasi un moto di tenerezza nei suoi confronti. In fondo se non mi saluta non vuol dire necessariamente che nutra qualche sentimento negativo nei miei confronti; sono disposto ad accordargli volentieri tutte le attenuanti sopra descritte. Se non altro qualcosa gli devo: di avermi acceso la curiosità e la fantasia.

Grazie, Leo lo Scutrèo!

A chi considera Facebook e qualsiasi altro social come un magazzino di esibizionistìche castronerie (ma poi, senza nemmeno tapparsi il naso, non resiste alla tentazione si dare una sbirciatina, e nemmeno ogni tanto …) ribatto con la banale osservazione che qualsiasi strumento è sempre un’arma a doppio taglio, come un cacciavite può assolvere alla funzione per cui è stato inventato ma può anche essere l’arma di un delitto. Tutto dipende dal livello intellettivo e culturale di chi posta e di chi legge; e quando avviene l’incontro tra due livelli mediamente accettabili, il frutto non sarà, magari, perfettamente maturo ma certamente commestibile …

Fuor di metafora: Pasquale mi ha inconsapevolmente spinto, anzi costretto, anzitutto a commentare nel modo che segue:

Complimenti vivissimi per la felice creazione, forse non solo onomastica, di un personaggio (in cui ciascuno di noi farebbe bene, ogni tanto, a riconoscersi criticamente …), a cominciare dal nome. Infatti, a parte il fatto che “Leo” fa rima con “Scutreo” (e sulla suggestione degli effetti musicali della rima non si discute, tant’è che la poesia moderna, pur tendendo a cacciarla dalla porta perché intesa, giustamente, come limitazione della libertà dell’artista, la fa poi rientrare dalla finestra sotto forma di assonanze, consonanze e risonanze), è proprio la scelta del soprannome ad essere stata, secondo me, particolarmente azzeccata. Scomodo la “Uncane” e sintetizzo quanto vi leggo al lemma “SCUTREO”: italianizzazione del salentino “scutrèu”, a sua volta forma rafforzata (con prostasi di s- intensiva) di “cutrèu”, che è (per metatesi) da un precedente “crutèu” derivato (finirò sfinito …) da un latino *crudivus (per sincope di -v-: crudivus>crudiu>crutèu), forma aggettivale (il suffisso -ivus indica tendenza ad una certa qualità) da crudus=crudo. E, pensando al fatto che l’aggettivo “cutrèu” si sposa abitualmente con i nomi di legumi ad indicarne la difficile cottura, anche un non salentino è in grado di comprendere quanta umanità si nasconde nel vocabolo che, al di là della felice applicazione metaforica al personaggio, rivela, ancora una volta i profondi (oggi purtroppo ignorati) rapporti con la cultura contadina. Ancora complimenti!

Come il lettore noterà, ho recitato la parte del pappagallo condensando al momento quanto avevo già avuto occasione di dire agli indirizzi segnalati all’inizio.

Tuttavia, quel *crudivus ricostruito continuava a frullarmi nella testa come quando, vedendo una donna malamente rifatta, ti chiedi se pure in passato le sue labbra sembravano non un salvagente per bambini ma un gommone da trafficanti di poveri cristi …

Reduce da una fatica di non molte ore (solamente artisti, magari semisconosciuti, sono sempre reduci da una trionfale tournée? …), sono lieto di annunciare che crudivus ha perso il suo asterisco, cioè non è più voce ricostruita.

L’ho scovato, infatti, usato ben due volte (al nominativo neutro singolare nel primo caso, al plurale nel secondo) nel De observatione ciborum, un trattatello dietetico-gastronomico in latino in forma epistolare, che Antimo, medico bizantino, dedicò a Teodorico I re dei Franchi (511 circa-534 circa). Prima era stato il medico personale di Teodorico il Grande (493-526) subentrando ad Elpidio1. Riporto (in formato immagine per fare più presto) i brani che ci interessano (paragrafi 66 a p. 19 e 74 a p. 19), con la mia traduzione, dall’edizione a cura di Valentino Rose, uscita per i tipi di Teubner a Lipsia nel 1877.

(Senza dubbio il cece, se l’avrai cotto in modo che si sciolga completamente, condito con olio e sale, è  buono e benefico pure per i reni. Se, invece, poco cottoio, sconsiglio assolutamente pure i sani di mangiarlo, poiché provoca pesantissima flatulenza, cattiva digestione e mal di pancia.)

(Mangia quando è necessario gli altri legumi, se saranno stati cottoi, perché, se sono poco cotti, fanno male parecchio. Infatti la fava a pezzetti, come prima ho detto, è abbastanza pesante.).

Non sarei intellettualmente corretto se non chiudessi con una riflessione sotto forma di domanda retorica: al lemma crutìu del Vocabolario dei dialetti salentini del Rohlfs avremmo visto quell’asterisco precedere crudivus, se il maestro avesse potuto curiosare su Facebook e fruire delle risorse della rete, testi digitalizzati in primis?

___________

1 È quel diacono Elpidio al quale il contemporaneo vescovo Ennodio (473/474-521) indirizzò quattro delle sue epistole (VII. 7; VIII, 8; IX, 14 e 21). In particolare nella VIII, 8 (cito da Magni Felicis Ennodii episcopi Ticinensis opera a cura di Iacopo Sirmondo, Officina Nivelliana presso Sebastien Cramoysi, Parigi, 1611, p. 229): His ergo salutans, amico et medico indico, me gravi corporis inaequalitate laborare: quam nisi te dictante pagina iocos exhibitura curaverit, distensam per tormenta ranulam longis hominibus coaequabo (Salutandoti dunque con queste parole faccio sapere all’amico e medico di soffrire di gravi disturbi ficici. Se una pagina scritta da te contenente pensieri scherzosi non la curerà, tra le sofferenze tirerò fuori una lingua così distesa da eguagliare la statura di un uomo alto). La fama di Elpidio come medico è attestata da una lettera di Avito (vescovo di Vienna, poi santo), la XXXV nella sezione S. Aviti Viennensis Epistulae  (colonna 232) del volume dell’opera omnia nell’edizione del Migne; la lettera, dopo l’esito della cura del figlio del vir illustris (uomo illustre)  Celere, così si conclude: Tribuat Christus, ut exsultando atque impensius laudando in hac cura magisterio tuo, simul tibi Italia medicinae opinionem, et Gallia pueri debeat sanitatem (Conceda Cristo che esultando e lodando con molto ardore in questa cura per la tua maestria nello stesso tempo L’Italia debba a te l’alta considerazione che essa ha nel campo della medicina e la Gallia la salute del ragazzo).

Elpidio è citato anche da Procopio di Cesarea (480 circa-565 circa) in La guerra gotica (i, 4) a proposito della condanna a morte di Simmaco e Boezio, decretate da Teodorico, rispettivamente, nel 524 e nel 525. Riporto il testo originale, e di seguito lo traduco, dall’edizione delle opere a cura di Claudio Maltreto, Bartolomeo Javarina, Venezia, 1729, p. 3: Δειπνοῦντι δὲ οἷ, ὀλίγαις ἡμέραις ὕστερον, ἰχθύος μεγάλου κεφαλὴν οἱ θεράποντες παρετίθεσαν. Αὕτη Θευδερίχῳ ἔδωξεν κεφαλὴ Ξυμμάχου νέοσφαγοῦς εἶγαι. Καὶ τοῖς ὀδοῦσιν ἐς χεῐλος τὸ κάτω ἐμπεπηγόσι, τοῖς δὲ ὀφθαλμοῖς βλοσυρόν τι ἐς αὐτὸν καὶ μανικὸν ὁρῶσιν, ὰπειλοῦντί οἱ ἐπὶ πλεῗστον ἐᾡκει. Περιδεὴς δὲ τῷ ὑπερβάλλοντι τοῦ τέρατος γεγονὼς καὶ ῥιγὼσας ἐκτόπως ἐς κοίτην τὴν αὑτοῦ ὰπεΧώρησε δρόμῳ, τριβὡνιά τε πολλά οἱ ἐπιθεῖναι κελεύσας ἡσὑχαζε. Μετὰ δὲ ἄπαντα εἰς Ἐλπίδιον τὸν ἰατρὸν τὰ ξυμπεσόντα ἐξενεγκὼν τὴν ἐς Σύμμαχόν τε καὶ Βοέτιον ἁμαρτάδα ἔκλαιεν. Ἀποκλαὑσας δὲ καὶ πειαλγἡσας τῇ ξυμφορᾷ οὐ πολλῷ ὕστερον ἐτελεύτησεν, ἀδίκημα τοῦτο πρῶτόν καὶ τελευταῖον ἐς τοὺς ὐπηκόους τοὺς αὑτοῦ δράσας, ὄτι δὴ οὐ διερευνησάμενος, ὤσπερ εἰὡθει, τὴν περὶ τοῖν ἀνδροῖν γνὤσιν ἣνεγκε (Pochi giorni dopo, mentre banchettava, i servi gli presentaronola testa di un grande pesce. Essa a Teodorico sembrò che fosse la testa di Simmaco sgozzato da poco. E a causa dei denti sporgenti dal labbro inferiore e degli occhi che guardavano torvamente e furiosamente vesro di lui, somigliava a chi minaccia decisamente. Preso dalla paura per il fatto orribile avvenuto e rabbrividendo  rabbrividendo oltre misura, se ne andò di corsa a letto e, dopo aver ordinato di mettergli sopra molte coperte, stette tranquillo. In seguito, avendo riferito tutto quello che gli era successo al medico Elpidio, si lamentò dell’errore commesso contro Simmaco e Boezio. Tormentatosi ed addoloratosi per la sciagura, non molto dopo mori, avendo commesso questa che fu la prima e l’ultima ingiustizia contro i suoi sudditi, poiché senza approfondire aveva condotto l’indagine sui due uomini)

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