Note e riflessioni ispirate dalla storia (o leggenda) di S. Giuseppe

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di Eliana Forcignanò

Conosco soltanto per brevi cenni la storia di San Giuseppe che, in fuga con Maria, comincia a vendere frittelle per sfamare la propria moglie. Pare che questi semplici dolci fossero gli antesignani delle nostre zeppole che oggi fan bella mostra nei banchi gaiamente illuminati delle pasticcerie in vista della ricorrenza dedicata ai padri.

Quasi sorrido al pensiero che quell’uomo, già avanti con gli anni, si dedicasse a impastare e cuocere pur di guadagnare qualche soldino, tuttavia, tentare di smentire una leggenda, è violare una visione archetipica del reale che ha elementi sacrali, perché attiene al modo di vivere, pensare e sentire dell’umanità intera. Come osserva L. Zoja, d’altronde, il padre, “increspatura relativamente tarda nella storia dell’umanità” procaccia alle donne e ai nuovi nati la sopravvivenza, né gli compete, in epoche primitive, l’accudimento o la cura della prole. Vi è, senza dubbio, una differenza tra il garantire la sopravvivenza di qualcuno e il prendersene cura, poiché il concetto di cura afferisce al medesimo ambito semantico della coltura: in breve, io mi prendo cura dell’altro coltivandolo, secondo quanto suggerisce il verbo latino “colere” valido per piante, uomini e dei.

Non a caso, il “cultum” che si tributa alla divinità è una devozione coltivata nel tempo e un uomo che coltiva, per quanto ci si sforzi qui di superare gli stereotipi di genere, è evidentemente entrato in contatto con la sua parte femminile, dedita alla cura e all’accudimento, in breve con la propria funzione Anima. Nella visione lacaniana, citata più volte anche da Recalcati, il padre è colui il quale si frappone alla brama smodata e inconscia della Cosa materna da parte del figlio e, attraverso la Legge, educa a un desiderio maggiormente cosciente e aperto al mondo. Anche questa, in fondo, è una forma di cura – nell’accezione del “prendersi cura” – per l’altro, poiché costruire il senso del limite è un modo di porre un figlio o una figlia nella condizione di acquisire consapevolezza del proprio Sé e delle risorse di cui dispone per affrontare l’esistenza. Tornano alla mente Platone e Kant: i filosofi dello Stato ideale, infatti, pongono un limite alla cupidigia, mentre la ragione kantiana postula il noumeno per interrogarsi sulle proprie capacità critiche.

Verrebbe, tuttavia, da chiedersi quale attinenza abbia il concetto di limite con quello di paternità, di là dalle riflessioni pur valide, ma oramai acquisite, sull’imperizia educativa di tanti genitori dei nostri tempi. Oltre i luoghi comuni, oltre le indebite generalizzazioni, la paternità e il limite sono, a mio avviso, legati dal nesso dell’ascolto, perché un padre che non ascolta non è in grado di percepire il travaglio di una vita che faticosamente si apre al mondo e di interrogarsi sul modo più opportuno di accompagnare questo travaglio con un atteggiamento fecondo non solo per il figlio o la figlia, ma anche per se stesso.

Mi si potrebbe obiettare che la mia è un’asserzione generica, che l’ascolto sia importante sempre e dovunque, tuttavia per un padre, o per chi esercita la funzione paterna, ascoltare le domande filiali significa comprendere e, per il sol fatto di comprendere, limitare l’angoscia propria e altrui. E la madre? Non è d’obbligo che anche la madre ascolti? Nessuno lo mette in dubbio, però nella madre vi è un aspetto inconscio e primitivo che, identificazione proiettiva a parte, permette al figlio o alla figlia di essere un unicum, una cosa sola con lei. La madre è terra, corpo, sangue, è quella “Natural mind” (Mente Naturale) della quale Jung parla e con la quale s’instaura un rapporto che è preverbale. Il padre, pur essendo corpo e sangue, non è terra ma cielo, non è humus ma limes, termine che può chiudere uno sguardo o, per fortuna, aprire un orizzonte. Ora, chiusura e apertura sono sempre in relazione a un limite: si chiude rispetto a qualcosa, si apre rispetto a qualcos’altro.

Chi non ricorda la figura del lampionaio matto presente ne “Il piccolo principe” che spegne e accende il suo lampione ogni minuto? L’uomo si comporta così perché il limite del giorno e della notte gli è venuto meno, analogamente un figlio cui venga meno il limite si spegnerà o accenderà senza una regolazione interna, transitando, fuor di metafora, dall’euforia alla depressione. Il padre può contribuire alla regolazione interna attraverso l’ascolto del ritmo al quale il figlio o la figlia danzano in quel caos che è il mondo.

Quasi superfluo dire che non si ascolta soltanto con le orecchie, poiché vi è una parola ascoltante e accogliente che corrisponde alla domanda di senso. E ho appreso che il senso si trova vivendo. Un padre che ascolta, pertanto, è un padre che ha posto una domanda e che chiede a propria volta di essere ascoltato in un orizzonte relazionale che supera la visceralità peculiare del materno.

In breve, è l’orizzonte di una progressiva maturazione che porta con sé l’interiorizzazione della figura paterna in quanto Super-Io, ma, se è lecito, anche in quanto accompagnamento all’Io. “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, scriveva Kant e non sono, forse, il cielo stellato e la legge morale, entrambi aspetti di un Paterno foriero di senso?

14 marzo 2018

 

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