L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (seconda parte)

L'assedio di Brindisi_Figura 2

di Nazareno Valente

1.2 Iacta alea esto: Cesare varca il Rubicone (anno 49 a.C.)

Nel frattempo Cesare non era rimasto inattivo. S’era infatti portato a Ravenna («Ravennae substitit»)19, la città della Cisalpina più vicina al territorio italico, avendo con sé non più di trecento cavalieri e cinquemila opliti («Ἦσαν μὲν οὖν περὶ αὐτὸν οὐ πλείους ἱππέων τριακοσίων καὶ πεντακισχιλίων ὁπλιτῶν»)20 che, appena seppe della decisione del senato, mandò avanti segretamente verso il confine («praemissis confestim clam cohortibus»)21. Poi, per non destare sospetti, partecipò ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti d’una scuola di gladiatori e, come d’abitudine, pranzò in compagnia.

Solo al tramonto partì a sua volta in gran segreto con una esigua scorta («Dein post solis occasum… occultissimum iter modico comitatu ingressus est»)22 fino a raggiungere in maniera avventurosa il Rubicone, dopo aver vagato a lungo («diu errabundus»)22, essendosi smarrito, alla ricerca della strada giusta.

Sulle rive del piccolo fiume sostò in silenzio ed esitò, riflettendo sulla gravità del gesto audace che stava per compiere («ἔστη σιωπῇ καὶ διεμέλλησεν, αὐτὸς ἄρα πρὸς ἑαυτὸν συλλογιζόμενος τὸ μέγεθος τοῦ τολμήματος»)23; poi, non dando ascolto agli avvertimenti della ragione, stese un velo di fronte al pericolo e gridò ai presenti queste semplici parole in lingua greca: “Si lanci il dado”, e fece passare l’esercito («παρακαλυψάμενος πρὸς τὸ δεινόν, καὶ τοσοῦτον μόνον Ἑλληνιστὶ πρὸς τοὺς παρόντας ἐκβοήσας, “Ἀνερρίφθω κύβος,” διεβίβαζε τὸν στρατόν»)23.

Un breve inciso merita la frase comunemente attribuita in questa circostanza a Cesare, la celeberrima «iacta alea est» (il dado è tratto), per la diffusione di cui gode in ambiti pur non specialistici. Questo perché la stesura conosciuta contiene, con ogni probabilità, un errore causato da un amanuense nella trascrizione del passo in latino di Svetonio24. La frase infatti altro non è che la traduzione d’un verso allora celebre del commediografo Menandro, «νερρίφθω κύβος»25 (si lanci il dado) che il condottiero romano pronunciò per esprimere l’azzardo cui andava incontro nel dare inizio ad un sanguinoso conflitto contro il proprio Paese. Considerato che ἀνερρίφθω è la terza persona dell’imperativo del verbo ἀναρρίπτω, sembra plausibile la correzione di Erasmo26 che introdusse «esto» al posto di «est», proprio perché esprimeva la volontà del condottiero di gettare il dado e non la constatazione d’averlo già lanciato. Per questo motivo l’espressione riportata nel manoscritto di Svetonio parrebbe essere stata «Iacta alea esto» e non la conosciuta «Iacta alea est», da rendere quindi in italiano con si lanci il dado o, forse magari, se si vuole mantenere in vita il verbo utilizzato nell’attuale versione, il dado sia tratto.

Comunque sia, dare l’avvio ad un’impresa così temeraria con neppure una legione al completo (la XIII), e senza neanche attendere le altre due legioni (VIII e XII) che aveva allertato, era certo una mossa arrischiata che poteva avere conseguenze fatali per Cesare, tenuto pure conto che Pompeo, a quel momento, poteva disporre di forze in numero superiore alle sue («Οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τότε πλήθει δυνάμεως ὑπερέβαλλεν ὁ Πομπήϊος τὴν Καίσαρος»)27. Invece, grazie alla imprevedibilità dell’azione ed alla rapidità con cui essa fu condotta, Cesare riuscì ad ottenere risultati che andarono oltre le più ottimistiche previsioni: in poco tempo occupò le posizioni strategiche prossime al confine italico (Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Arezzo, Gubbio e Osimo) e, al tempo stesso, aumentò gli effettivi con i legionari che avevano disertato da Pompeo. A tutto ciò si aggiunse lo sconcerto che serpeggiò in campo avverso alla notizia di quest’attacco improvviso che sembrava incontenibile.

A Roma fu il panico.

I senatori inquieti iniziarono ad assillare Pompeo con proposte e lamentele, creando solo ulteriore disorientamento e minando così sin dall’inizio qualsiasi decisione s’intendesse assumere. Ci fu anche chi espresse aperto dissenso, come Favonio, che lo invitò a battere il piede in terra per farne venir fuori le legioni promesse («Φαώνιος μὲν Πομπήιον ἐπισκώπτων τοῦ ποτὲ λεχθέντος ὑπ’ αὐτοῦ, παρεκάλει τὴν γῆν πατάξαι τῷ ποδὶ»)28, ricordandogli in tal modo con sarcasmo quando si era vantato di poter richiamare numerosi seguaci con un semplice cenno.

A differenza di Cesare, Pompeo non amava avventurarsi in mosse rischiose o condurre una guerra di movimento basata sulla rapidità d’azione. Preferiva le strategie ad ampio respiro che, alla lunga, creavano le condizioni favorevoli a combattere avendo tutti i vantaggi dalla propria parte. Tesseva le sue tele come un ragno, e come un ragno attendeva che gli avversari ci cascassero.

In questo caso, ritenne azzardato difendere Roma. Aveva sì forze superiori, ma troppo eterogenee e poco fidate29; scelse così di attirare Cesare in Oriente, dove poteva contare sul considerevole aiuto di amici e di clienti sicuri, con l’intento di tenerlo lontano dalle sue basi di rifornimento e, con l’andar del tempo, di sfiancarlo in un inseguimento senza soluzione. Era un disegno con buone possibilità di riuscita, se solo si fosse potuto realizzare con pazienza e, soprattutto, senza le insistenze dei senatori, per lo più critici e troppo spesso portati ad imporre la propria diversa e personale tattica.

Decise pertanto di evacuare Roma ed ingiunse ai senatori di seguirlo, avvertendo che avrebbe ritenuto un sostenitore di Cesare chi fosse rimasto indietro («καὶ κελεύσας ἅπαντας ἕπεσθαι αὐτῷ τοὺς ἀπὸ βουλῆς, καὶ προειπὼν ὅτι Καίσαρος ἡγήσεται τὸν ἀπολειφθέντα»)30.

È tra il 17 ed il 18 gennaio che Pompeo lascia Roma, diretto per le città fortificate della Campania e dell’Apulia31, e, anche se nessuno sa quale piano egli abbia per la mente, a posteriori è del tutto scontato presupporre che il suo fine fosse sin dall’inizio quello di giungere quanto prima possibile a Brindisi per poi da lì salpare per l’Oriente. Cicerone, che fa parte del folto gruppo dei senatori che lo segue, è irritato che Pompeo non dica cosa intenda fare e arriva persino a pensare che neppure lui stesso lo sappia («ne ipsum quidem scire puto»)32.

Le idee sono invece chiare e, al momento opportuno, il piano sarà reso noto.

 

19 Svetonio, Cit., XXX 1.

20 Plutarco, Vite parallele: Cesare, XXXII 1. Lo stesso dato è fornito da appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, II 5, 32.

21 Svetonio, Cit., XXXI 1.

22 Svetonio, Cit., XXXI 2.

23 Plutarco, Pompeo. Cit., LX 2.

24 Il dado è tratto, disse («Iacta alea est, inquit»). svetonio, Cit., XXXII 4.

25 Ateneo, (II o III secolo d.C.), I sofisti a banchetto., XIII 8.

26 Erasmo (XV secolo – XVI secolo.), Adagi, 1, 4, 32.

27 Plutarco, Cesare. Cit., XXXIII 6. Pompeo disponeva di due legioni di stanza a Capua, oltre che delle forze arruolate espressamente per contrastare Cesare e di quelle che si trovavano nelle guarnigioni del territorio italico.

28 Apiano, Cit., II 5, 37.

29 Le due legioni, che rappresentavano il nerbo della sua armata in Italia, erano state fino a poco tempo prima al servizio di Cesare e, quindi, non erano del tutto fidate.

30 Plutarco, Pompeo. Cit., LXI 3.

31 Cicerone, Epistole ad Attico, VII 10. In questa lettera del 18 gennaio Cicerone afferma di essere partito da Roma, prima che facesse giorno («ante quam luceret»), lasciando poi intendere che anche Pompeo si fosse avviato lo stesso giorno, oppure il giorno precedente e quindi il 17 gennaio, con destinazione le città fortificate («oppidis») che si trovavano in Campania e nell’Apulia.

32 Cicerone, Cit., VII 12, 1.

 

Per la prima parte:

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (prima parte)

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