Una domanda eterna: che cosa significa educare?

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di Pierpaolo Tarsi

Prima o poi un insegnante o un genitore devono tentare di darsi una risposta delle tante possibili a questa domanda eterna: che cosa significa educare? Prendo spunto per dipanare il discorso da una bellissima frase di don Giussani riportata sulla sua bacheca da uno stimato concittadino, il prof. Luigi Marcelli, uno dei pochi che osa ancora usare facebook per stimolare il pensiero e che ringrazio per avermi offerto lo spunto. “L’educazione è introduzione alla realtà” recita quella frase.

Assolutamente condivisibile, per me, però, prima che introduzione alla realtà, l’educazione è qualcosa di più comprensivo, è introduzione alla libertà.

E’ infatti l’idea complessa di libertà che sta a mio avviso a fondamento di tutto il discorso educativo e pedagogico, come sviluppato nella nostra tradizione filosofica: “libertà da, libertà di, libertà per”.

Educarsi (ex-dux-azione), da questo punto di vista, vuol dire proprio imparare a condursi autonomamente, divenire guida (dux) di se stessi per godere di una buona e virtuosa vita, appropriandosi della propria libertà in tre sensi almeno.

Il primo senso è quello negativo e per certi versi più immediato che possiamo immaginare come il rompere delle catene: qui essere liberi vuol dire non soccombere a vincoli e istinti come quelli che spingono alla violenza con l’altro, non lasciarsi imprigionare da catene come quelle delle dipendenze, ecc. Il secondo senso è quello positivo e ulteriore di “libertà di”, quello per cui non è si solo liberi per sottrazione da qualche limite ma si è liberi di procedere oltre e camminare senza quelle catene, liberi cioè di fare, agire, essere, determinarsi, esprimersi, in breve di attuare delle possibilità che il mondo, la realtà e la società dispiegano di fronte ad ogni persona che va formandosi e va progettando e proiettandosi in un proprio percorso di vita.

In questa seconda accezione positiva di libertà, in cui educazione può essere intesa come introduzione alla realtà (come dice Giussani) e alle possibilità che questa introduzione permette, anche l’idea del limite va ricompresa e riformulata in un altro senso: laddove prima il limite si manifestava nella sua accezione negativa delle catene da rompere, ora il limite è la condizione positiva e abilitante, il vincolo che apre la possibilità stessa, ciò che rende capaci di manifestarsi in qualche dimensione come esseri liberi.

I vincoli quindi sono qui qualcosa di imprescindibile e utile (quello che le pedagogie sessantottine non hanno mai compreso!), non prigioni ma opportunità da introiettare nel processo formativo e fare nostre per imparare ad agire virtuosamente e costruire nel mondo e con gli altri! Per riprendere ancora l’immagine delle catene, qui dovremmo dire che per camminare non ci basta rompere quei lacci ma ci occorre ora saper sfruttare i vincoli che ci pone la realtà, in metafora la gravità e l’anatomia umana per esempio, usando i vincoli delle forze fisiche entro cui siamo inviluppati per muoverci secondo volontà, liberamente!

Può valere qui quanto Kant, proprio per farci comprendere il valore abilitante del vincolo, scriveva in un celebre passo della Critica della Ragion Pura a proposito del volo di una colomba, un’immagine che possiamo far nostra per evidenziare il senso costruttivo e non più negativo del limite. Se una colomba vola non è solo perché non ha vincoli o catene che le impediscano di spiccare il volo ma è anche perché quella si sa servire di altri vincoli reali- la resistenza dell’aria – per innalzarsi in cielo! Privata di questo limite la colomba non solo non volerebbe meglio ma non potrebbe farlo affatto! Allo stesso modo, per esprimermi non ho solo bisogno che determinati vincoli non mi imprigionino – la censura per esempio – ma ho bisogno di altri vincoli che la realtà e la cultura mi offrono a supporto formandomi: le regole del linguaggio per parlare e manifestare le mie opinioni e i miei pensieri ad esempio, o le tecniche elaborate dalla tradizione artistica se voglio dipingere, le norme della società per relazionarmi in certi contesti agli altri ecc.

È in vista di questo seconda accezione di libertà che a scuola trasmettiamo saperi e cerchiamo di far sviluppare competenze, ossia forniamo alle nuove generazioni gli strumenti, le pratiche, le conoscenze affinché ognuno si formi, si dia cioè una propria forma delimitante unica e irripetibile, si abiliti (o si renda capace) in altri termini alla manifestazione della propria libertà in qualche ambito dell’esistenza in cui il soggetto in formazione sia divenuto autonomamente capace.

La terza accezione di libertà, “libertà per”, “per me”, “per te”, “per questo valore, fine, scopo”, può essere infine invocata per richiamare il contesto sociale in cui la libertà dell’uomo, essere relazionale per definizione, può unicamente manifestarsi. È solo stando in società, con gli altri, che posso aprirmi a me stesso e far mie le varie possibilità che offre una cultura: i suoi valori, le sue conoscenze, le sue tecniche e i suoi strumenti in senso lato. Queste strutture culturali che scopro unicamente con gli altri e attraverso gli altri mi permettono di definirmi e concepirmi nel processo riflessivo dell’autocoscienza come essere capace e libero in rapporto con delle alterità nelle quali riconosco altri esseri liberi, individui come me ma separati da me, il cui dominio di libertà non posso calpestare (un altro limite che la realtà, umana in questo caso, mi pone!) nella reciprocità della relazione intersoggettiva compiuta. Ancora una volta incontriamo qui il senso abilitante, costruttivo e non banalmente coercitivo o annichilente del limite, il quale si concretizza e si incarna in questo caso nel volto dell’altro! Questo punto è particolarmente importante.

Riflessivamente, attraverso la richiesta dell’altro di cui non mi è dato disporre in totale arbitrio, mi approprio gradualmente della possibilità di tornare a me stesso e vedermi o affermarmi a mia volta come essere libero, come soggetto cioè che può reclamare per se stesso il medesimo spazio di autodeterminazione e il medesimo rispetto che mi domanda l’altro. Nella relazione intersoggettiva e sociale comprendo inoltre che posso conservarmi in questo dominio personale di libertà solo in funzione e in relazione al rispetto che mi impone al contempo lo spazio di libertà altrui: comprendo cioè che la mia libertà sussiste solo nella misura in cui partecipo e non mi sottraggo a questa dinamica di reciproco riconoscimento di autodeterminazione e di reciproca inviolabilità, di reciproca donazione di libertà, accettando, restando e rinnovando continuamente questo movimento dialettico per cui la mia libertà dipende necessariamente da quella dell’alter. Qui incontriamo la regola aurea che attraversa non a caso tutte le culture, non solo quella cristiana nella formula del “non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”. L’incontro autentico con l’altro e il limite che il suo sguardo mi pone è allora il punto di snodo e passaggio dall’arbitrio cieco e inconsapevole della bestia all’autentica e autocosciente libertà umana, quel limite abilitante che mi apre e mi disvela tanto la possibilità quanto i confini reali e tangibili della mia stessa libertà. Confini questi che scopro non poter varcare – ad esempio negando o tentando di sopprimere la libertà dell’altro – senza interrompere così la dinamica del riconoscimento reciproco, mettendo di conseguenza a repentaglio la mia stessa libertà, ad esempio esponendola alla possibilità dell’annientamento da parte dell’alter cui potrei soggiacere.

La mia sfera individuale di libertà e la consapevolezza stessa della mia libertà non devono essere allora concepiti come tratti naturali di un essere isolato e dall’arbitrio illimitato ma come conquista relazionale, effetto e portato di una dinamica sociale perennemente vincolante e riattivata. Non come soggetto isolato e astratto ma solo come essere in società e condizionato dagli altri posso unicamente riconoscere e appropriarmi riflessivamente del mio dominio di libertà personale, posso allora pretenderlo, reclamarlo per me e infine tutelarlo ed estenderlo, a condizione che al contempo lo riconosca, lo tuteli e lo ampli per chi ho di fronte. Tutto ciò, in parte oscurandone il complesso movimento genealogico e intersoggettivo visto, è quanto in genere sintetizziamo dicendo che la libertà di ognuno termina (ossia incontra un felice, salvifico e costruttivo limite) esattamente dove inizia quella dell’altro.

Queste tre declinazioni del concetto di libertà (libertà da, libertà di, libertà per) esplicitano il senso complesso della libertà che i saperi filosofici e pedagogici mettono in evidenza e pongono al centro della formazione della persona intesa nella sua interezza e totalità, ossia tanto negli aspetti cognitivi quanto in quelli affettivo-emozionali, relazionali e volitivi.

Praticare (e non solo pensare) una buona vita non vuol dire altro che aprirsi individualmente, nella totalità emotiva, razionale e volitiva che ogni persona è, alla virtù, educarsi e impratichirsi alla libertà in tutte le accezioni o sensi declinati sopra, nel coinvolgimento pieno di tutte le dimensioni psicologiche ed esistenziali della soggettività immersa nella relazione sociale. Per queste ragioni proprio della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani ad una vita virtuosa.

Nell’Emilio, capolavoro della letteratura pedagogica di tutti i tempi, evocando peraltro la riflessione etica di altri giganti del pensiero come Aristotele, così scriveva Rousseau per esplicitare questo profondo nesso tra una vita virtuosa e la libertà: “Che cosa è dunque l’uomo virtuoso? È quello che sa vincere i vincoli dei propri affetti […] D’ora in poi sii libero sul serio; impara a diventare padrone di te stesso; comanda al tuo cuore, oh Emilio, e sarai virtuoso”

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8 Commenti a Una domanda eterna: che cosa significa educare?

  1. EDUCAZIONE? CHI EDUCA CHI: INSEGNARE A VOLARE. I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare…

    Pur condividendo con l’Autore di “Una domanda eterna: che cosa significa educare?” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/10/domanda-eterna-cosa-significa-educare/), la linea strategica della sua riflessione (“della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani a una vita virtuosa”), credo che sia necessario e opportuno (anche sul filo delle sue stesse accennate indicazioni di Aristotele, Rousseau, Kant) portarci oltre e RIFLETTERE su quanto nella domanda è “nascosto”, vale a dire su “CHI” educa “CHI” – a tutti i livelli! I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare…

    Se di Rousseau non vogliamo (continuare a) farne un teorizzatore dell’e-duc-azione autoritaria ( “ex-DUX-azione”), dobbiamo problematizzare proprio la sua frase finale, (ripresa dall’ “Emilio”), sull’uomo virtuoso, sul diventare “padrone di se stesso”, e sul comandare al proprio “cuore”, e, con lo stesso Rousseau, reinterrogarci sulla nostra condizione: “L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo degli altri” (“Il contratto sociale”); e, insieme, sul tema del “CAPO” (preziosa al riguardo la “lezione” di Gramsci del 1924, si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154).

    La questione è “eterna” ed è … intrecciata con la questione delle Sibille e dei Profeti di Copertino (cfr. Pierpaolo Parsi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/), con la filologia e l’affresco di sant’Agostino di Nardò (cfr. M. Gaballo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/), e, ancora e in particolare, con il lavoro di Sigmund Freud. Non a caso in un mio lavoro su questi temi (cfr.: “Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica”, Prefazione di Fulvio Papi, Milano 2013), un capitolo è dedicato al problema J.-J. ROUSSEAU: “Al di là della cecità edipico-parmenidea e al di là della “società civile”. J.-J. Rousseau: una coscienza aperta e una triplice fedeltà” (pp. 101-110).

    PER ANDARE AVANTI democraticamente occorre rimeditare (come Pierpaolo Tarsi sollecita a fare) la lezione kantiana racchiusa nell’immagine della colomba della “Critica della Ragion Pura”, occorre INSEGNARE A VOLARE. E, su questo, il contributo di KANT è enorme. Se si vuole uscire dallo “stato di minorità”, non si può non tenerne conto!
    ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829)!

    Federico La Sala

  2. Ringrazio Marcello per aver inserito questa mia riflessione benché poco attinente al sito, ringrazio inoltre Federico La Sala per il bellissimo commento che, più che una risposta, meriterebbe una lunga meditazione, supportata dalle suggestive indicazioni bibliografiche che evidenzia. Buona domenica. Pier Paolo

    • Chiarissimo Pierpaolo Tarsi grazie a te! E grazie al dott. Marcello Gaballo!

      Tutti i miei più vivi complimenti e auguri di buon lavoro.

      Federico La Sala

      • DOC.: CHE COSA SIGNIFICA EDUCARE? UNA LEZIONE DEL PROF. ARMANDO POLITO

        SAN GIUSEPPE DA COPERTINO, DUE VOLI OFFENSIVI, E LA COLOMBA DI KANT

        A OMAGGIO DEL PROF. POLITO, E DI QUESTO SUO BRILLANTISSIMO LAVORO SUI “DUE VOLI OFFENSIVI” DI SAN GIUSEPPE DA COPERTINO ( https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/19/san-giuseppe-da-copertino-22-due-voli-offensivi/) E SUL SUO EQUILIBRIO CRITICO DI SPIRITO “PROF-ETICO DOTATO”, sul tema dei voli di san Giuseppe, della passera e della colomba, mi sia lecito citare qui un passaggio famoso dalla “Critica della Ragion Pura” di Immanuel Kant:

        “La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppo angusti limiti all’intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l’intelletto.
        Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un buon fondamento. Se non che, poi si cercano abbellimenti esterni di ogni specie per confortarci sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica” (Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 38).

        E, SUL FILO DI QUESTO CONTRIBUTO DEL PROF. ARMANDO POLITO, invitare a riflettere (di nuovo e ancora) sulla “domanda eterna: che cosa significa educare?” di Pierpaolo Tarsi(cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/10/domanda-eterna-cosa-significa-educare/).

        Mi auguro che il prezioso lavoro fatto dal prof. Polito possa volare lontano, ed essere letto e discusso da studenti e professori – in tutte le scuole, non solo del Salento!!!

        Federico La Sala

          • NESSUNA ESAGERAZIONE, CARO ARMANDO. A mio modestissimo parere, tu e l’intera redazione della Fondazione (Marcello Gaballo e Pierpaolo Tarsi, in particolare) state portando avanti da anni un lavoro intensissimo e brillantissimo – a onore de! Salento, della Puglia, dell’Italia, e della stessa Europa! Che dire?!

            BUON LAVORO!!!

            Federico La Sala

  3. Allegato : Lettera aperta di Guido Tonelli, scienziato del Cern di Ginevra … Alunno del prof. Francesco Tartaglione.

    Lutto in città: è scomparso il professor Francesco Tartaglione. Aveva 94 anni. *

    FRANCESCO TARTAGLIONE, nato nel 1921, docente di Storia e Filosofia nei Licei, ha insegnato nel Liceo di S. Maria C.V., nei licei classico e scientifico di Taranto e a lungo, da titolare, nel Liceo Classico “Costa”di La Spezia; in un Annuario ha pubblicato un ampio lavoro Sul terzo libro del saggio sull’intelletto umano di Locke. I suoi interessi principali riguardano la storia e la psicologia.

    Ha scritto: L’infezione nazista, sui postumi del nazismo nel mondo; Le forme vuote, sugli equivoci del linguaggio; Ad majorem Dei gloriam, sull’anticristianesimo della chiesa cattolica; La questione socratica, un breve scritto sulla personalità di Socrate; Citazioni e riflessioni, un’ampia silloge di pensieri vari; L’agonia della libertà: genesi delle guerre mondiali e dei totalitarismi e Domande, un breve lavoro polemico. Inoltre ha pubblicato vari articoli su giornali e riviste, partecipando vivamente alla polemica ambientalista.

    * LA SPEZIA OGGI, 06.10.2015 (ripresa parziale): http://www.laspeziaoggi.it/2015/10/06/lutto-in-citta-e-scomparso-il-professore-francesco-tartaglione-aveva-94-anni/

    Federico La Sala

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