Dialetto salentino: i non indigeni sono avvertiti …

di Maria Pia Carlucci

Qualche raccomandazione per i non indigeni sulle insidie del dialetto salentino. Innanzitutto rispetto all’italiano alcune parole cambiano genere e sono indubitabilmente femminili: “la salame, la libretta, la Comune, la pettinessa”. Tuttavia in salentino esiste “scatolo” di genere maschile, da non usare però in espressioni come “rompere gli scatoli” perché non suona bene: noi ci rompiamo altre cose.
Ancora ci sono gli idiotismi, cioè parole proprie solo del dialetto che i salentini italianizzano e potrebbero giurare che esistano pure nell’italiano standard come sono sicuri dell’esistenza della mamma. Se vi sono piaciute le melanzane in agrodolce e il vostro ospite, contento dell’apprezzamento, vi promette che vi regalerà un “boccaccio”, ringraziate, ma non aspettate di ricevere un’edizione in brossura del Decameron. Vi arriverà un vasetto di delizie casalinghe: cibo per il corpo, non per la mente.
E ancora il “coppino” (il mestolo), il “cappetto” (la molletta da bucato), ma con questi potete facilmente districarvi per intuito.
Ma attenzione, se qualcuno vi propone di comprare un “cassettone” che non si sa mai, non vi sta proponendo l’acquisto di un comò con ampi cassetti dove sistemare magliette e camicie, ma di un loculo dove far riposare le vostre ossa per la requie eterna.

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13 Commenti a Dialetto salentino: i non indigeni sono avvertiti …

  1. I non indigeni sono avvertiti sì, ma non si facciano illusioni …

    Con orgoglio dichiaro che è stata mia allieva l’autrice di questo contributo che ho voluto sottrarre, dopo aver chiesto il suo permesso, alla bulimia facebookiana e proporlo su questo blog con l’entusiastico consenso del suo patron, ritenendolo prezioso anzitutto perché sotteso da un rigore documentario non disgiunto da quella particolare ironia che, lungi dalla spocchiosità, è sinonimo di complicità e di amore; prezioso pure non fosse altro che per il fatto che senza quello quando mai sarei arrivato a scrivere queste notevoli, notabili, quasi notarili e non notorie note, utilizzando per l’occasione il mio ultimo notebook, anche se nessuna tv o radio, pubblica o privata, ne darà notizia? (per la storia: questa è la più lunga figura etimologica che fino ad ora la mia presunzione è riuscita a partorire …).
    Lei, ripeto è stata mia allieva mentre io, ormai vecchio lupo spelacchiato (pur senza ombra di alopecia o di calvizie) non ho perso il vizio di continuare a pensare che pure ai fini pedagogici e (auto)didattici, nulla è più utile alla conoscenza del tentare di capire la genesi di un errore, reale o presunto. D’altra parte non dimentichiamo la massima secondo cui l’eccezione (che a prima vista appare come un errore) conferma la regola. Nel mio tentativo metterò in campo fenomeni ben noti non solo alla lingua nazionale ma anche agli altri dialetti, per cui quei “nordici” che pensano di bollare noi “sudici” come ignoranti e rozzi (per chiederci poi il voto quando fa loro comodo …) non hanno, storicamente e scientificamente, il diritto di scagliare la prima pietra. Tra le voci ricordate da Maria Pia e che riporterò nella forma originale, non italianizzata, forse solo “scatulu” e “cassettone” possono essere considerati come degli “irregolari” (il primo formalmente, il secondo semanticamente), perché per “salame”, “Comune” (ci aggiungo pure “diabete”, “sapore”, dei quali avevo già avuto occasione di parlare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/14/brexi-la-brexit-risultati-del-nostro-referendum/, nonché “concime”) il genere femminile potrebbe essere stato indotto dal sottintendimento di un sostantivo (rispettivamente “carne”, “casa”, “malattia”, “sensazione” e “sostanza”). “Pettinessa”, invece, trova giustificazione nelle sue dimensioni maggiori rispetto al “pittininu”, seguendo in questo, ma al contrario, la stessa contrapposizione tra il “limbu”, contenitore di creta di maggiore capacità rispetto alla “limba” (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/12/a-proposito-di-cumitati-ecco-le-terracotte-salentine/), la quale poteva essere, oltre che di creta, pure di latta. Una riflessione a parte merita, a parer mio, “boccaccio”, in cui il cambiamento di genere rispetto all’italiano boccaccia obbedisce ad una necessità di differenziazione semantica che ha comportato la traslazione dalla valenza dispregiativa della voce italiana (che dal dettaglio fisico si estende a tutta la persona implicando una valutazione di ordine morale) a quella accrescitiva (riferita ad un oggetto la cui imboccatura coinvolge tutta, o quasi, la parte superiore). Quanto a “cuppinu” (ci saremmo aspettati “cuppina”, trascrizione dell’italiano coppina, diminutivo di coppa) il cambiamento di genere obbedisce ad esigenze di differenziazione non solo per l’aspetto ma anche per la funzione, non fosse altro che per il lungo manico che il mestolo ha in più rispetto alla coppa; non mi azzarderei fino al punto di attribuire il genere maschile ad un inconscio, ma fino a che punto?, riferimento fallico al suo manico). Tale passaggio di genere, al pari di altri fenomeni, non è esclusivo del dialetto: basti pensare, in italiano, a “ballino”, diminutivo di “balla”.
    E siamo a “libretta”. Se, tra tutti quelli passati in rassegna, “cassettone” per motivi facilmente comprensibili non morirà mai, “libretta”, invece, è destinato più o meno rapidamente a diventare obsoleto, da quando i libretti di risparmio al portatore non esistono più. Anche qui il cambio di genere è indotto dalla specializzazione semantica rispetto a “libretto”, anche se qualche “nordico” dirà che mai quello zoticone di meridionale ha conosciuto un libro, sia pure piccolo, e meno che mai il testo di un’opera lirica …
    Chiudo con “ccappettu” che, secondo me (non compare nel vocabolario del Rohlfs), ha seguito la stessa trafila latina (infinito presente>participio passato femminile) dell’italiano “morsetto” (“mordere”>”morsa”>”morsetto”) e cioè: “capere” (significa prendere)>”capta”>”*cappa”>”cappettu”>”ccappettu”, col raddoppiamento della consonante iniziale per ragioni espressive oppure come residuo di un’originaria preposizione “ad” aggiunta in testa e in tal caso la trafila sarebbe:”*adcapere”>”*adcapta”>”*accappa” (doppia assimilazione, la prima, -d->-c-, regressiva; la seconda, -pt->-pp-, progressiva)>”*accappettu”>”‘ccappettu”, quest’ultimo da scrivere correttamente con “‘ ” iniziale, segno dell’avvenuta aferesi. E poi qualcuno ancora va blaterando che dialetto (qualsiasi) non è bello …
    Grazie, Maria Pia, per avermi dato l’occasione di rivivere quei bei tempi in cui da una parola italiana, latina o greca eravate capaci ( e non sempre per sottrarvi alle interrogazioni …) di farmi arrivare non alla fissione ma alla fusione nucleare (in senso letterale, senza riferimento alcuno ad un mio scombussolamento cellulare) …
    Per qualche ora ancora, stranamente per i più, mi sentirò meno vecchio e una volta tanto dimenticherò che “nostalgia” etimologicamente significa “dolore del ritorno” …

    • Cara Maria Pia, tu non mi conosci, ma Armando ormai molto bene e perciò mi permetto di darti del tu perchè io sono ancora più anziano del tuo ex professore. Intervengo perchè io sono un nordico, un torinese “bogianen” che non ha il significato che normalmete gli date voi “sudici” come dice Armando che vi chiamiamo noi (ma anche qui ci sono i nordici “cretini” e “razzisti” e altri, molti altri “assolutamente NO) dicevo che “gli date voi” cioè “di gente che non riesci a smuovere dal suo particolare”, no “bogianen” viene purtroppo da una fatto d’armi, una storica battaglia combattuta contro i francesi sui monti delle valli Susa e Chisone, all’Assietta e nella quale il Generale delle truppe Piemontesi disse “Fieuj noi da sì bogioma nen” “Ragazzi , noi di qui non ci muoviamo” e così fu, con naturalmente, come sempre, tantissimi morti, ma la VITTORIA!!!!!!!!!!!! dei Piemontesi. Ma lasciamo perdere queste “pinzellachere” come diceva Totò e veniamo al perchè del mio intervento. Il discorso del femminile al posto del maschile e viceversa è una costante di tutte le lingue locali e io insisto nel parlare non di dialetti, ma di LINGUE perchè non vedo la ragione di sminuire le parlate locali, come se fossero dei sottolinguaggi. Sono a tutti gli effetti delle LINGUE che dovremmo cercare di fare in modo che non vadano mai perse e che se avessimo uno Stato come si deve interverebbe perchè ciò si posso avverare, anche perchè esistono leggi internazionali che dovrebbero essere messe in pratica e che obbligherebbero a ciò. Ma si sa che il nostro è “un cattivo e in cattivo Stato”. Il Piemontese che io ho insegnato fino a quest’anno scorso(adesso ho dovuto lasciare per motivi di età e di salute) ha anch’esso molti termini che sono femminili al posto dei maschili italiani e viceversa. Esempi: “la càud” fem. “il caldo” “la frèid” “il freddo” “la sal” “il sale”. Cara Maria Pia, come vedi ogni Lingua ha le sue regole.

      • Stra-quoto.
        Tutti i dialetti italiani, al pari del fiorentino (dialetto anche esso) sono lingue. E di origine chiaramente neolatina (tolto il griko e l’ärberëshe).
        Il fiorentino di 800 anni fa (quello odierno se ne discosta perché mutato al pari di ogni idioma vivo) divenne italiano.
        La presenza del femminile in varii idiomi locali anziché del maschile, come nel fiorentino codificato (l’italiano) è semplicemente dovuta al diverso trattamento di parole latine della terza declinazione di genere neutro, durante il passaggio da questo alle forme neolatine locali.
        Tale fenomeno si riscontra in TUTTE le lingue romanze, per cui accanto al latte avremo lo spagnolo la leche, e affianco del mare il francese la mer. Così, giusto per fare due esempi :-)

        Molti dei termini indicati come salentini sono comunque pan-meridionali, in primis lo splendido “boccaccio”.

        • Mi permetto di fare una precisazione su un solo punto: non è vero che il passaggio al femminile è il normale esito di originali voci latine di genere neutro: per esempio: “diabete” è dal latino “diabetes”, maschile, a sua volta dal greco, pure esso maschile, “διαβήτης”; “sapore” è dal latino “sapore(m), anch’esso maschile”. Potrei fornire altri esempi, ma mi pare di poter concludere che ogni voce andrebbe esaminata singolarmente e, oltretutto, è da tener presente il fenomeno dell’analogia.

          • Ma non ho detto che l’esito standard fosse quello. Infatti ho scritto “al diverso trattamento di parole latine”, non intendendo tutte. Sarebbe una empietà :-)
            Poteva occorrere,questo sì, con termini quali mare, sangue, latte, ecc., diffusi presso e usati da tutti gli strati sociali.
            Ovviamente intendendosi lemmi appartenenti alla terza declinazione, il cui plurale neutro in -A induceva confusione trai parlanti non colti, che tendevano a equipararlo con la desinenza femminile singolare -A.
            Diabete, invece, rientra di fatto e di diritto fra i cultismi e in quanto tale riflette fedelmente l’etimo.

            • La regola, da manuale, dei neutri plurali (a proposito, “lac” in latino è maschile) in -ia (ancor più, direi, in -a, e non solo della terza declinazione ma anche della seconda) non è, purtroppo, applicabile a nessuna delle voci salentine riportate. Per questo ribadisco che ognuna di loro andrebbe indagata separatamente (come ho tentato di fare, poco chiaramente, a quanto leggo …), tenendo sempre d’occhio i fenomeni dell’analogia e dell’incrocio, che rappresentano, specialmente il primo, l’ultima spiaggia, e non sempre sono di agevole e convincente spiegazione, ma, comunque, esistono. In concreto (e in alternativa al sostantivo sottinteso): il genere femminile delle nostre voci potrebbe essere stato indotto da quello di voci fondamentali (tipo “fame” o “sete”) e in tal caso sarebbe un fenomeno relativamente recente (in parole povere, più legato all’italiano che al latino). E In tale trappola potrebbe essere caduto pure il datato “la diabete” dei testi a stampa, anche specialistici.

              • Cioè successivo al passaggio dal latino volgare agli idioletti? Interessante.
                Boccaccio, per di più, ma anche pettinessa e coppino, sono di uso comune in Daunia e in Campania, caratterizzate da adstrati e superstrati diversi, rispetto al primo.
                Gioverebbe verificare se i medesimi lemmi facciano parte del patrimonio linguistico della Basilicata (quella appartenente alla più antica e maggiormente estesa Daunia) e dell’Abruzzo transumante durante i secoli nelle plaghe del Tavoliere.
                In verità da osservazioni empiriche ho notato che un buon 70 se non 80 per cento del vocabolario salentino è pressoché identico a quello pugliese (Daunia e Terre di Bari), fatti salvi i diversi trattamenti fonetici.
                Sarebbe assai utile un saggio mirato, che ne studiasse la parentela e le differenze.
                Due esempi al volo:
                “Paccio” in Salento, “pačč” in pugliese; “zito”, identico in entrambi e presente anche in Sicilia, sempre con il medesimo significato di “pazzo” nel primo caso e “fidanzato” nel secondo.

          • A proposto di “διαβήτης”; “sapore”, sicuramente saprai che esso, prima dell’avvento delle analisi di laboratorio, era dovuto al fatto che il medico era costretto ad intingere il dito nell’urina del paziente e ravvisarne il sapore dolce o meno. Nel primo caso “le urine dolci” (glicosuria) erano segno del diabete mellito

            • Pur non essendoci nessun rapporto diretto tra “διαβήτης” e “sapore” (tanto meno con il loro genere dialettale) hai fatto bene a cogliere l’occasione per ricordare quel tipo di analisi che oggi consideremmo schifosa, ma che era senz’altro meno inquinante e pericolosa (per tutti, medico compreso) dei reagenti oggi in uso per lo stesso scopo. E ora non vorrei essere accusato di urofilia …

  2. Risposta “indiretta” all’ultimo messaggio di “golfetta” (l’editor, forse, è pure lui vittima del caldo: non mi consente di inserire una replica di retta, ad albero, ma, per fortuna, non mi inibisce il commento).

    Secondo me, però, “zzitu” (è questa la variante salentina; in italiano corrente è “zito”) non ha lo stesso etimo per i due diversi significati. Per quello di “fidanzato” ha il suo parallelo nel fiorentino “citto” (che, oltre che “ragazzino”, significa pure “fidanzato”), probabilmente di origine infantile; Per quello di “pazzo” credo che sia frutto di un imponente “dimagrimento” di “impazzito”. Aggiungo che, sempre nel dialetto salentino, “zziti” (plurale di “zzitu”; in italiano corrente “zito” o “zita”) indica un formato di pasta e probabilmente è un traslato di “zzitu” nel significato di “ragazzino” (ma non escluderei anche un rapporto col significato di “fidanzato”, ipotizzando il suo uso nei pranzi nuziali).

  3. Intrigante discussione per un non indigeno, genia della quale faccio ahimè parte. Non taccio lo stupore che mostrai la prima volta che il fruttivendolo mi disse “vuole le fiche?” mi riebbi immediatamente in quanto era già successo anni addietro, nell’entroterra ligure, di Lavagna per la precisione, quando Gianito, contadino, mi offrì una “fica” specificando: ” a l’è la mia” in dialetto stretto (è la mia). Però a ben vedere esiste una ragione, se il melo produce mele, il pero pere, perchè mai il fico dovrebbe produrre fichi? E ancora, in una sagra minore del basso Salento leccese, piccolo luogo, poca gente, signore che cucinavano e servivano solo due piatti: peperonata (pipirussi anche se verdi) e orecchiette. Feci io la coda e la signora dietro il banco, sentendo il mio accento non esattamente salentineggiante, mi chiese per la peperonata “la vuole dolce o amara?” in italiano perfetto. Non seppi che rispondere e chiesi un misto. Solo dopo qualcuno mi spiegò che amara significa piccante.
    Neppure mi stupisco più quando mi si offrono carote propinandomi rape rosse. Salento che vai, dialetto che trovi insomma, anche per i non indigeni ovviamente.

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