Nardò, via Belisario Acquaviva

di Armando Polito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spesso mi chiedo se abbia un senso intitolare una via, e il discorso vale per qualsiasi nucleo abitato, dalla frazione alla metropoli,  ad un personaggio che in qualche modo abbia avuto un rapporto con essa, quando la grafia stessa del nome suscita non poche perplessità: emblematico, per restare in casa, per Lecce il caso di via a. da taranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/06/archita-da-taranto/) e, per restare ancora più in casa …, per Nardò quello di via Scapigliari (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/). E se per a. da taranto  c’è forse l’alibi dei troppi secoli trascorsi e per Scapigliari un’idiota esigenza di nobilitazione, per personaggi più recenti come, faccio un solo esempio, Foscolo, avanza l’alibi dell’ignoranza (da non escludere a priori, anzi da sommare a quello del tempo trascorso nei casi appena ricordati …), che assume aspetti macroscopici quando il personaggio in questione ha una duplice fama, nazionale, per così dire, e locale.

In fondo, forse, è meglio così: la lettura sulla targhetta viaria di via Ugo Foscolo non evocherà, distraendolo,  al pedone o all’automobilista il carme Dei sepolcri, propiziando, nel caso in cui l’uno o l’altro passi con il rosso di propria competenza, quel funerale che di regola precede la tumulazione …

Continueremo, così, a dare con gli stessi inconvenienti procedurali un nome alle nuove vie anche con i nomi nuovi che la storia fatalmente ci proporrà, con la stessa logica, in fondo, delle giornate, la cui celebrazione (ormai con soli 365 giorni a disposizione, restano, credo, pochi giorni da dedicare, per cui saremo costretti nel giro di qualche anno ad attribuire due o tre dediche alla stessa giornata …) non è servita certo, almeno fino ad ora, a ridimensionare sensibilmente i problemi connessi con il tema volta per volta celebrato; con la stessa logica delle altre feste che avremmo il dovere di sopprimere  in un empito di responsabile coerenza.

E quanto vale, ritornando al Foscolo, per tante città d’Italia, perché lo stesso non dovrebbe valere per Nardò a proposito di Belisario Acquaviva con la via che reca il suo nome?

Ma io in questo momento sto in casa, comodamente seduto e, perciò, posso permettermi senza correre rischi la distrazione che sto per sottoporre alla vostra attenzione. Spero solo che non mi leggiate mentre guidate o attraversate …

Debbo notare che la lunghezza della via (credo sia la più lunga di Nardò) è congrua al personaggio che, per cominciare con i titoli, fu duca di Nardò dal 1516 al 1528. Di lui mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/25/ho-scritto-un-libro-ma-non-trovo-il-prefatore/ e quanto sto per dire può essere considerato integrazione di quel post.

Non capita a tutti di essere celebrati quando si è ancora in vita e questo anche ai tempi del nostro Belisario era riservato a personaggi veramente eccezionali, tanto più quando l’autore della celebrazione era, a sua volta, famoso.  E la stessa celebrazione, quand’era in versi1, assumeva, com’è facile intuire, un rilievo tutto particolare. All’esame delle più significative è dedicato questo post.

Camillo Querna, De bello Neapolitano, Sultzbach, Napoli, 1529: Non Aquivivus abest Belisarius, optima pandens/virtutis monimenta suae. Fidissima magni/corda gerens Caroli titulis, discedere numquam/Partenope voluit, tanta est constantia fortis/,et virtus animi, nullo sub tempore pallens (Non manca Belisario Acquaviva, che mostra ottime testimonianze del suo valore. Mostrando fedelissimo affetto alla corona di Carlo mai volle andar via da Napoli, tanto grandi sono la costanza e il coraggio del forte animo, che non impallidiscono in nessuna circostanza). 

Girolamo Carbone (1465-dopo il 1527) in due versi (18-19; li cito dall’edizione dei Carmina curata da P. de Montera, Ricciardi, Napoli, 1935= di un’elegia (carme XXX) indirizzata ad Agostino Nifo: Namque videre iuvat duplici sua tempora fronde,/et Phebi, et Martis, Dux Aquavive, premi (E infatti, duca d’Acquaviva, piace vedere che le sue tempie sono premute da una duplice fronda e di Febo e di Marte).

Giovanni Matteo Toscano, Peplus Italiae, Morelli, Parigi, 1578, p. 42: Quam non Marte minus Musae sint principe dignae,/gentis Aquivivae gloria bina docet./Frater uterque suis cumularunt sceptra tropheis,/

ornavit libris frater uterque suis./Nunc calamo est gravis, ense manus nunc rite colore/tingitur hic rubro, tingitur ille nigro./Classica nunc animos stimulans, nunc barbita mulcent:/quodque caput cassis, mox sua serta tegunt./Duplex ergo tuum gemini decus Adria fratres/nobilitantque sago, nobilitantque toga (Quanto le muse siano degne di Marte non meno che di un principe, lo insegna la duplice gloria della famiglia Acquaviva. Entrambi i fratelli con i loro trofei accrebbero il potere, entrambi i fratelli lo adornarono con i loro libri. Ora la mano è affaticata per la  penna,  ora per la spada e si tinge in questo caso di colore rosso, nell’altro di nero. Ora c’è la tromba che stimola gli animi, ora la cetra che li accarezza: quella testa che gli altri coprono con vari oggetti, subito la  ricoprono le loro corone. Dunque i due fratelli, o Atri, nobilitano il tuo duplice decoro con il sago, lo nobilitano con la toga).

Pietro Gravina (1452/1454-1528 circa) celebrò il valore militare e letterario di Belisario in un epigramma in distici elegiaci tramandatoci da Giammaria Mazzucchelli in Gli scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1753, volume I, parte I, p. 121: Qui populis dare iura suis non destitit umquam/qui Patriae toties profuit ore potens,/non minus aeratas ductando in proelia turmas, /fortiter austerum Martis obivit opus,/Palladis amplexus Numen veniente senecta,/ipse docet, quales convenit esse Duces (Colui che mai desistette dal dare diritti alle sue genti, che con la forza della sua voce giovò tante volte alla patria, non di meno guidando nei combattimenti le schiere armate con forza andò incontro alle severe fatiche di Marte, dopo avere abbracciato al sopraggiungere della vecchiaia la divinità di Pallade, proprio lui  insegna quali condottieri conviene essere).

Jacopo Sannazzaro (1457-1530), Epigrammi, II, XXXVIII:

De lauro ad Neritonorum ducem

Illa Deum laetis olim gestata triumphis,/claraque Phoebaeae laurus honore comae,/iampridem male culta, novos emittere ramos,/iampridem baccas edere desierat./Nunc lacrimis adiuta tuis revirescit; et omne/frondiferum spirans implet odore nemus./Sed nec eam lacrimae tantum iuvere perennes;/quantum mansuro carmine quod colitur./Hoc debent, Aquivive, Duces tibi debet et ipse Phoebus; nam per te laurea silva viret  

(Intorno all’alloro al duca di Nardò

Quell’alloro un tempo recato ai trionfi lieti degli dei e famoso per l’onore della chioma di Febo, già da prima mal coltivato aveva smesso di emettere nuovi rami, già da tempo di produrre bacche. Ora aiutato dalle tue lacrime rinverdisce e respirando riempie di  profumo ogni frondoso bosco. Ma ad esso non giovarono tanto le perenni lacrime quanto ciò che viene onorato da un canto destinato a rimanere. Questo ti devono, o Acquaviva, i condottieri  e lo stesso Febo; infatti grazie a te verdeggia la selva d’alloro).

Ecco cosa scrive Giovanni Bernardino Tafuri in Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, v. II, pp. 53-54: Il celebre Belisario Acquaviva, uno degli assidui, e dotti Accademici dell’Accademia del Pontano nel 1506, ne fondò una in Nardò sotto il titolo del Lauro, la quale, e per gl’insigni Personaggi, che la componevano, e per la condizione de’ versi, e degli eruditi Ragionamenti, co’ quali era coltivata, si rendè chiara, e rinomata in quella Stagione, onde Jacopo Sannazzaro ebbe co’ seguenti versi a lodare l’Acquaviva fondatore della medesima …  

Osservo che, seguendo pedissequamente il Tafuri, la storiografia successiva ha attribuito a Belisario la fondazione delle neretina Accademia del lauro. Appare, però, strano  che di un’accademia presumibilmente vissuta fino alla morte del suo fondatore, dunque per ben ventidue anni, non resti cenno alcuno nei contemporanei (a parte quello,  presunto, del Sannazzaro), mentre minore peso avrebbe senz’altro il fatto che nessuna testimonianza esista né manoscritta, né a stampa (per quest’ultima, però, con uno sponsor come Belisario quale ostacolo economico sarebbe stato invalicabile? …), di una produzione, anche in versi, che, secondo l’affermazione del Tafuri, sarebbe stata ragguardevole?

E la dedica del Sannazzaro, allora? A nessuno è venuto il dubbio che il lauro, che compare fin dal titolo, non contenga riferimento  alcuno ad un’accademia, ma sia proprio l’albero in radici, rami, tronco e foglie (se fosse stato un animale avrei detto in carne ed ossa …) da sempre simbolo della poesia? E che, dunque, il Sannazzaro celebri Belisario non come fondatore di un’accademia ma come ispiratore di poesia (scritta da altri) con le sue gesta militari e pure con i suoi trattati?

E con questo ennesimo dubbio suscitato dalla storiografia tafuriana quando essa, come troppe volte succede, non è suffragata da uno straccio di fonte o, come nel nostro caso, è supportata da una discutibilissima interpretazione dell’unica esistente (per non parlare di quelle truffaldinamente  inventate …), chiudo con via Belisario Acquaviva ma lascio aperto un sentiero, sia pur debolmente tracciato, per chi vorrà approfondire …

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1 Per quanto riguarda, invece la prosa, oltre a quanto riportato nel post citato all’inizio, mi sembra doveroso informare il lettore che Antonio De Ferrariis detto il Galateo gli dedicò l’opera Argonautica de Hierosolymitana peregrinatione dichiarando espressamente all’inizio: Nos somniamus quotidie Argonautica. Tu Dux nostre eris Iason … (Noi sogniamo ogni giorno le Argonautiche. Tu, nostra guida, sarai Giasone …).

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