Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce e la tarantata

di Armando Polito

C’è chi, ed io sono tra questi, rivendica anche alla poesia una capacità di conoscenza di regola attribuita solo alla scienza;  e questo, se fosse vero, sarebbe più che sufficiente  per liquidare in un attimo come insensata ogni contrapposizione tra le due culture. In particolare, sul fenomeno del tarantismo  credo di aver tentato di provarlo in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/25/anche-questanno-la-notte-della-taranta-e-andata-ma-non-rinuncio-a-dire-la-mia-il-tarantismo-ovvero-laddove-la-poesia-arrivo-prima-della-scienza/. Le testimonianze allora addotte  non vantavano la paternità di autori del nostro territorio ed erano in prosa.

Oggi sottopongo all’attenzione del lettore una poesia di un salentino doc, del quale il lettore ha già letto il nome nel titolo. Di quest’autore abbastanza prolifico mi sono già occupato per un’altra questione in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/. Ho segnalato il link non per vanitoso compiacimento ma per dare un’idea dello spessore del personaggio che può vantare un cospicuo numero di pubblicazioni, anche se in prevalenza di natura encomiastica  Di seguito l’elenco completo delle opere da lui pubblicate:

Vaticinium Tiberis ad urbem Romam de Sixto Quinto pontificem maximum, Zanetti, Roma, 1589.

De illustrissimo ac reverendissimo d. Scipione Spina Lupiensium pontifice creato Peregrini Scardini Sancaesariensis carmen, Cacchio, Napoli, 1591.

In admodum reuerendum d. Petrum Antonium De Ponte Congr. clericum regularem theologum, et concionatorem destrissimum, elogia, Guerilio, Venezia, 1599.

Oratio habita Lupiis in funere Hispaniarum, et Indiarum regis catholici Philippi II, Carlino & Pace, Napoli, Neapoli, 1599.

Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603

Discorso intorno l’antichità e sito della fedelissima città di Lecce, Pace, Bari, 1607.

Sonetti di Peregrino Scardino al molto illustre signor Gioseppe Cicala di Lecce, Gargano & Nucci, Napoli, 1609.

Del terzultimo titolo riproduco il frontespizio

e il testo della poesia (in distici elegiaci) che è a p. 107, con la mia traduzione a fronte

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Capito? – Certamente! – direte. Ma io intendevo dire (senza alcuna velleità poetica per via delle rime)  – Avete capito come il nostro salentino Pellegrino Scardino aveva capito tutto, anticipando di 359 anni Ernesto De Martino? -.

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10 Commenti a Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce e la tarantata

  1. RICERCHE “ARCHE-O-LOGICHE”. DOPO LA SIBILLA, SAN PAOLO, E I SERPENTI (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/13/dalla-sibilla-ai-carmati-di-san-paolo-e-allorto-dei-turat/ /), e IL “SERPENTE? PRESENTE!” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/13/dalla-sibilla-ai-carmati-di-san-paolo-e-allorto-dei-turat/), con la “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/31/pellegrino-scardino-san-cesario-lecce-la-tarantata/), il prof. POLITO lancia un bel filo di connessione tra la “fantasia” del poeta e i risultati della ricerca antropologica di Ernesto De Martino sulla «terra del rimorso»!

    BENE. Ben fatto, CARO ARMANDO. Ma “cum grano salis”.

    TARANTISMO, SESSUALITÀ, E IPOCRITI. A leggere con ATTENZIONE la “poesia” (degli occhi “cupidine-os”, desiderosi di Amore/Cupido, di una ragazza/Psiche, di un “un ragno [che] si nasconde sotto la veste” e, infine, di “scusare l’animale”!), ri-emerge DA UN’ALTRA ANGOLAZIONE – e a partire DA UN ALTRO “ANIMALE” (in questo caso) – una vecchia, VECCHIA, “storia” (… ancora più “brutta”), quella di “Adamo”, “Eva” e il “Ragno”, quella della «terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito»! E tutto il valore e tutta l’importanza dell’ANATOMIA DEGLI IPOCRITI di Alessandro Tommaso Arcudi di GALATINA (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/11/alessandro-tommaso-arcudi-galatina-wikipediano-ante-litteram/).

    I MIEI PIÙ VIVI COMPLIMENTI

    Federico La Sala

  2. Anche questa volta, come al solito, caro Federico, la tua rifinitura della mia saldatura (scusa la metafora metalmeccanica) è perfetta. E ancora una volta tra istinti repressi, pensieri distorti, ipocrisie ed eccessivi pudori, gli unici che non rimedino una magra figura sono il ragno (come tutte le cosiddette bestie) e, forse …, il poeta.

  3. ***ARCHE-O-LOGIA E ANTROPO-LOGIA: IL RAGNO DEL SALENTO, OGGI.*** RIPRENDENDO IL FILO DELLA DISCUSSIONE SU “IL “SERPENTE? PRESENTE!” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/), e ritenendo il testo “poetico” dello scrittore della Puglia del Seicento la PUNTA DI UN ICEBERG storico-sociale di lunga durata, che sollecita a meglio intendere il complesso fenomeno del TARANTISMO (un pensiero e una pratica popolare che tentavano di conferire senso e un orizzonte di trascendimento a quella che era la sofferenza esistenziale e sociale delle donne e delle genti salentine: http://scienzepolitiche.unipg.it/tutor/uploads/lisi_antonelli__de_martino.pdf) e la portata della ricerca di ERNESTO DE MARTINO, a ulteriore conforto dell’ ECCELLENTE LAVORO del prof. Polito, mi sia lecito mettere qui a disposizione DUE RECENSIONI di un lavoro importante sul TARANTISMO OGGI (https://www.academia.edu/11389560/Il_tarantismo_oggi._antropologia_politica_cultura).
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    Tarantismo, la riscossa delle donne ragno

    di Marino Niola (la Repubblica, 21 marzo 2015)

    Il tarantismo è finito. Anzi no. Le tarantole pizzicano ancora alla grande. Ma questa volta non mordono più le raccoglitrici di tabacco salentine, stremate dalla fatica, cresciute a fave e cicoria e rimaste impigliate negli ingranaggi di una storia inceppata, di una mobilità sociale negata. Quelle che danzavano la loro ribellione sul ritmo sfrenato della pizzica, cercando di schiacciare con il piede quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Oggi ad essere morse dall’aracne mediterranea sono le nuove generazioni che hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale.

    Una nuova patria culturale, come avrebbe detto Ernesto de Martino, fondatore dell’antropologia italiana, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Ed è proprio de Martino, all’origine di questo revival. Perché con il suo capolavoro La terra del rimorso (1961) fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, di un Sud stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Il reperto di una perturbante archeologia sociale impressa nei gesti e nei corpi, nelle ossessioni e nelle devozioni di un mondo solo apparentemente arcaico e lontano dalle grandi direttrici dello sviluppo che, in quegli anni, rivoltava il paese come un guanto. Mentre in realtà quella scheggia dionisiaca era l’altra faccia del miracolo economico. Perché Rocco e i suoi fratelli, che erano andati ad avvitare bulloni nelle fabbriche del Nord, avevano lasciato al paese le sorelle. Che continuavano a ballare in trance, come menadi disoccupate.

    Come accade ai grandi classici, il libro di de Martino da allora ha continuato a scriversi, dando origine a una nuova stagione culturale e politica che dalla metà degli anni Novanta ha rovesciato in positivo l’ombra nera del ragno. Da zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a prodotto tipico, bene culturale. Lo racconta Giovanni Pizza, antropologo dell’università di Perugia, in un bel libro in uscita da Carocci. Titolo, Il tarantismo oggi. Una sorta di making of di quella fabbrica collettiva che in questi anni ha rispolverato la tradizione della taranta ballerina facendone un’icona glocal, un brand ad alta definizione da vendere sul mercato globale delle differenze culturali. E perfino un mito politico. Non a caso il ragno è diventato il leitmotif di una produzione artistica, letteraria, cinematografica, musicale, teatrale. Nel 1994 un regista come Edoardo Winspeare gira Pizzicata, un film liberamente ispirato a La terra del rimorso. Che proprio allora viene ristampata, dopo diciotto anni di assenza in libreria, e sull’onda travolgente del neo-tarantismo diventa, per la prima volta, un bestseller. La Bibbia del tarantismo. L’editoria locale comincia a sfornare a ripetizione libri con storie di tarantolati, veri o presunti, che si vendono perfino nelle tabaccherie di paese.

    Ovviamente in questo revival la musica fa la parte del leone, con gruppi come il Canzoniere Grecanico-Salentino e i Sud Sound System, che traducono il mood della pizzica in world music. Anche perché sin dai tempi antichi la cura del morso, l’antidotum tarantulae, è fatta di ritmo e di danza. Sono secoli che il frenetico ballo delle donne possedute dal ragno — quello che Paracelso, il grande medico e filosofo rinascimentale, chiamava Lasciva Chorea, cioè ballo licenzioso — è un topos dell’immaginario colto di tutta Europa. Tanto che un personaggio come Giovanbattista Marino, simbolo della letteratura barocca, dedica sonetti da antropologo ante litteram alle crisi frenetiche dei tarantolati. E un altro grande secentista, il funambolico Giacomo Lubrano, nel poemetto Stravaganza velenosa della tarantola descrive con precisione da etnografo il doppio pizzico del ragno, che è il vero algoritmo del tarantismo. Il primo morso, che provoca la crisi iniziatica e poi il rimorso, che arriva puntuale ogni anno il 29 giugno, giorno di san Paolo, che delle tarantole è considerato il signore e padrone, il mandante e il guaritore.

    Ma il primo in assoluto a fare dell’aracnide il logo della Puglia è il grande Cesare Ripa, a fine Cinquecento, quando nella sua Iconologia — uno dei libri più venduti e influenti del tempo — raffigura il tacco d’Italia come una bella donna che danza, vestita di «un sottil velo» costellato di tarantole e ha ai suoi piedi un tamburello, insieme ad altri strumenti che oggi chiameremmo musicoterapici. In fondo questo grande costruttore di immagini e di immaginari inaugura quella “tarantolizzazione” dell’identità pugliese che oggi i politici e gli amministratori locali trasformano in uno strumento di marketing territoriale. Simbolo del riscatto di un Sud che non vuole diventare la brutta copia del Nord e che sceglie di guardare dentro di sé per cercare nuovi cammini. E la Notte della taranta, il festival musicale che ogni anno richiama centinaia di migliaia di appassionati a Melpignano e in altri paesi salentini, è la sintesi esemplare di questa fitta rete di strategie economiche, di narrazioni identitarie, di processi di patrimonializzazione che nascono ancora una volta da quel morso.

    Un’inversione della tradizione, che sta facendo del Salento una delle aree più interessanti e innovative d’Italia. A riprova del fatto che il cantiere d’idee aperto da de Martino, ed esplorato ora da Giovanni Pizza, continua a essere un laboratorio culturale anche visto da fuori. Come dire che siamo tutti tarantolati.

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    Il ragno del Salento

    Saggi. «Il tarantismo oggi» di Giovanni Pizza, edito da Carrocci. Un’indagine a tutto campo della costruzione di un’identità e del suo uso, a partire da Ernesto De Martino

    di Claudio Corvino (il manifesto, 02.06.2015)

    Nel 1959 Ernesto De Martino giunse in Salento per la nota spedizione etnografica sul tarantismo (La terra del rimorso, 1961), un complesso mitico-rituale la cui storia e il cui significato ha interessato fin dal Medioevo medici, studiosi e autorità religiose. Secondo la tradizione salentina dell’epoca, un profondo malessere colpiva le donne, ma anche gli uomini, che erano stati morsi da un ragno. A farli uscire da questa sorta di «disordine» mentale era un rituale basato soprattutto sulla musica suonata da alcuni specialisti che avrebbero provato vari ritmi e melodie fino ad individuare quello giusto, quello che avrebbe permesso alla «posseduta» di ritornare alla normalità.

    Non conosciamo esattamente il momento in cui avvenne, ma è certo che il cattolicesimo individuò san Paolo (29 giugno) come eroe liberatore da questo particolare male, visto il potere del santo di guarire dai morsi dei serpenti velenosi, capacità da lui trasmessa ai membri della sua «famiglia», conosciuti come sanpaolari.

    Dopo le analisi di De Martino e della sua equipe il tarantismo non fu più visto come un semplice disordine mentale, ma come un ordine simbolico: un pensiero e una pratica popolare che tentavano di conferire senso e un orizzonte di trascendimento a quella che era la sofferenza esistenziale e sociale delle donne e delle genti salentine.

    Da quel 1959, dalla «spedizione salentina», prende le mosse l’ultimo lavoro di Giovanni Pizza Il tarantismo oggi (Carocci, 2015, euro 26), uno studio che va molto oltre l’oggetto dichiarato nel titolo e che racconta dei modi e delle forme in cui il tarantismo (e l’intera antropologia di De Martino) sia penetrato nelle dinamiche identitarie e culturali salentine divenendo così un nuovo terreno di ricerca di un’antropologia definita politica, o pubblica.

    Il volume racconta di un complesso processo in cui il campo etnografico si è esteso fino ad inglobare e coincidere con il processo intellettuale, storico e soprattutto politico che ha impegnato il Salento dalla pubblicazione del capolavoro di De Martino e fino ai giorni nostri. Soprattutto dagli anni Settanta, quando altri antropologi e studiosi locali hanno cominciato quel lungo processo di risignificazione del tarantismo che ha portato quasi a ribaltare i risultati teorici de La terra del rimorso. Il Salento infatti, oltre al suo più noto e accattivante soundscape possiede anche un poderoso bookscape che ha segnato e a sua volta alimentato il cambiamento. I vari discorsi che si sono succeduti sul tarantismo (quello medico, storico, folklorico, poetico, politico…) sono sempre stati accompagnati da una retorica di costruzione e di negoziazione dell’immagine del Salento, una sentita ricerca di identità e affermazione, anche quando questa sia stata negata, esaltata o derisa.

    A partire da una rivisitazione delle teorie di De Martino operate da Gilbert Rouget (Musica e trance, 1980) e poi George Lapassade (Intervista sul tarantismo, 1994) si è sviluppata localmente – e il saggio di Pizza lo analizza con rigorosa puntualità – una visione del tarantismo che, capovolgendo quella demartiniana, allontana il rituale coreutico-musicale da ogni legame con la sofferenza sociale ed esistenziale e lo fa assurgere a tratto identitario positivo, a corollario di una «gioiosa catarsi estatica», a forte valore estetico, grazie anche alle sue naturali potenzialità spettacolari (ma quale rituale in fondo ne è totalmente privo?).

    Così, in un continuo gioco di specchi tra «antropologia, politica, cultura», come recita il sottotitolo del volume, vediamo come la reinterpretazione locale del tarantismo, la riattivazione della sua memoria antropologica sia stata in grado di rilanciare il Salento come un «prodotto tipico»: da terra del rimorso a terra di «rinascita», dove il mito del ragno, cambiando di segno, ha voluto far esplodere tutte le potenzialità mediterranee, comprese quelle turistiche e commerciali, che aveva nella sua simbolica rete. Così, proprio negli anni in cui il Salento veniva «rapinato» della sua cultura etnografica, dei suoi olivi secolari, negli anni in cui i suoi particolarissimi muretti a secco difensivi e i suoi trulli cadevano o venivano dismessi per mancanza di una capace manodopera, le amministrazioni locali «inventavano» un altro aracnide che sarebbe riuscito a liberarle dal male attraverso lo sviluppo economico, turistico e culturale. È in quegli anni che nascerà la Notte della Taranta, il noto festival musicale estivo che coinvolge Melpignano e una ragnatela di altri centri salentini.

    Il volume di Pizza, nelle tre parti in cui è diviso, non osserva solo il fenomeno del tarantismo, ma indaga anche lo stesso «sguardo» dell’etnografo De Martino, evidenziando sia i suoi legami con Antonio Gramsci sia quegli aspetti dei due intellettuali che ne fanno ora più che mai due casi «buoni da ripensare» per l’antropologia. Fu infatti con la lettura di Gramsci che De Martino «maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica culturale gramsciana potesse coincidere con le forme del ‘viaggio’, dell’’etnografia’: la ’prassi’ della ricerca antropologica» e, inoltre, interpretò etnograficamente il progetto gramsciano di un’antropologia degli intellettuali. Convinzione che divenne anche una espressa condanna agli studiosi di folklore e di tradizioni popolari che, nelle loro analisi avessero separato una dimensione e una cultura colta e egemone da una popolare e subalterna.

    Attraverso l’analisi del più grande antropologo italiano, dei suoi legami con la filosofia e la cultura gramsciana, della sua epocale spedizione salentina, Il tarantismo oggi mostra in maniera esemplare le dinamiche che sottendono la costruzione di un’identità, di una cultura, perché – come scrive l’autore – «la cultura è sempre una produzione, una ’invenzione’, e l’identità come essenza intima semplicemente non esiste». Con buona pace di quanti, soprattutto oggi, cavalcando l’onda di mitologici principi identitari, vorrebbero credere e far credere che «la tradizione» sia un bene immutabile ereditato da lontani antenati e che abbiamo il dovere di conservare intatto, nonostante la mutevolezza del mondo circostante. Perché la cultura «non (è) come qualcosa che si ha, si eredita, fissato in un’arcaica quanto indefinita ’tradizione’, ma (è) come un patrimonio che costruiamo tutti insieme come bene collettivo. L’identità quindi non è un dato fisso, una ’essenza’, ma un preciso progetto politico condiviso»

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    ANCORA COMPLIMENTI, CARO ARMANDO.

    BUON LAVORO!!!

    Federico La Sala

  4. DOC. :

    MARIA DI NARDÒ (cfr.: Ernesto De Martino, “La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud”, Il Saggiatore, Miakno, p. 73):

    Maria era una raccoglitrice di tabacco e una spigolatrice, sposata da nove anni ad un contadino. Rimasta a 13 anni orfana di padre, al quale era particolarmente legata fu accolta con la madre, dopo la disgrazia, nella casa di uno zio successivamente in quella di una zia: essa aveva trascorso gli anni dell’adolescenza angustie d’ogni sorta. A 18 anni si era innamorata di un giovane, ma per ragioni economiche la famiglia di lui si era opposta al matrimonio, e il giovane l’aveva lasciata. Maria soffrì molto per quest’abbandono, poiché era al suo primo amore: ed ecco che «una domenica a mezzogiorno»fu morsa dalla taranta mentre era alla finestra, e fu costretta a ballare. Intanto su di lei aveva messo gli occhi una donna che aveva un figlio da sposare; Maria le sembrava una moglie possibile, anche se tarantata. Madre e figlio accompagnavano talora Maria alla cappella di Galatina, per rendere omaggio al Santo, e in una di quelle occasioni la madre le chiese se avrebbe accolto il figlio per marito. Maria, che aveva ancora nel cuore il suo primo amore, non si pronunziò. Madre e figlio non si dettero per vinti, e continuarono a sollecitare la ragazza: intanto entrò in scena un nuovo personaggio, S. Paolo, che apparve a Maria e le comandò di non sposarsi, chiamandola a mistiche nozze con lui. Un giorno per far precipitare la situazione Maria fu condotta fuori paese, in una masseria, dove i due la attendevano: le proposero di ricorrere al solito mezzo in uso da queste parti per affrettare il matrimonio, cioè di scappare da casa e di convivere per qualche tempo “more uxorio”. Di mala voglia cedette alle insistenze e restò nella masseria. Qualche mattina dopo Maria si alzò fiacca e disappetente, poco disposta a sbrigare le faccende di casa: il concubino le ordinò con modi un po’ bruschi di stirargli la biancheria, e ne nacque una piccola lite. Mentre si recava a casa di una vicina per restituire il ferro da stiro, incontrò per via i SS.Pietro e Paolo che le dissero: «Lascia stare il ferro e vieni con noi.» «E mio marito a chi lo lascio?» «Non ti preoccupare di tuo marito» fu la risposta. Era di domenica, a mezzogiorno, proprio nello stesso giorno e nella stessa ora in cui fu per la prima volta pizzicata dalla taranta ed ebbe la prima chiamata da S. Paolo. Maria, dopo aver vagato per tre giorni per i campi fece ritorno presso i suoi: S. Paolo, scontento di lei perché aveva contravvenuto al suo ordine di non sposarsi, la lasciò pizzicare una seconda volta, costringendola a ballare per nove giorni. Il conflitto giunse ad un compromesso: Maria consentì alle nozze col nuovo pretendente — cioè con l’attuale marito —, ma al tempo stesso mantenne il suo rapporto stagionale con la taranta e col Santo, rinnovando crisi e ballo ogni anno (con l’intento di scoraggiare i due, giacché queste crisi sono “costose”), con spiccata elettività per i mesi caldi, per il periodo catameniale e per l’approssimarsi della festa di Galatina.

  5. DOC.:

    LA “TARANTA” DI PELLEGRINO SCARDINO E LA “TARANTELLA” DELLA RI-FEUDALIZZAZIONE ITALIANA (1628): LA “POESIA” DEL SUD (1603), E “IL ROMANZO” DEL NORD (1628), “CUM GRANO SALIS”!!!

    VENTICINQUE ANNI DOPO (1628):

    – Santissima Vergine! – esclamò Lucia: – chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! – E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore [1]; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: SCOMMETTIAMO. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: VEDREMO, VEDREMO. – Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito…
    – A chi hai raccontato? – domandò Agnese, andando incontro, non senza un po’ di sdegno, al nome del confidente preferito.
    – Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – rispose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura…
    Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
    Lucia aveva avute due buone ragioni: l’una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima (ALESSANDRO MANZONI, I Promessi Sposi, cap. III)

    ***

    […] De Masi et al. (2004) hanno recentemente ipotizzato che le manifestazioni delle tarantate fossero dovute a traumi subiti in passato, non solo quindi considerando lo stress dell’ambiente povero e le condizioni economiche disagiate ma prendendo in considerazione anche la possibilità che ci fossero delle violenze (sessuali e non) nella storia personale dei soggetti tarantati.
    In quest’ottica, la sintomatologia ed il trattamento coreutico-musicale che la comunità riservava agli individui che ne erano affetti ne rappresenterebbero una ripetizione e una ritualizzazione altamente teatralizzata, si potrebbe dire “isterizzata”.
    Ci sono, poi, diverse caratteristiche del tarantismo che potrebbero avvalorare l’ipotesi che la sua insorgenza si possa rintracciare effettivamente in un evento traumatico di tipo sessuale: il suo presentarsi durante la stagione estiva, in cui uomini, donne e bambini trascorrevano giorno e notte nei campi; la sua maggiore prevalenza in donne in periodo puberale; la sua possibilità di ricorrenza; l’alta simbologia di tipo sessuale che caratterizzava la crisi ed i rituali propri dell’esorcismo, con l’utilizzo di canti a contenuto erotico, lo stato dissociato della coscienza entro cui avveniva la crisi […] (cfr. Paola Marangio, Il tarantismo: esorcismo musicale: http://www.psicoterapia.it/rubriche/print.asp?cod=11856).

    Federico La Sala

  6. “E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso… non dobbiamo già esserci stati un’altra volta?” Nietzsche nel suo “Zaratustra” parla del ragno e della stupidità cartesiana che non si avvede che Il “Cogito ergo sum” ci consegna mani e piedi legati, alla nostra tela di ragno, nella quale possiamo prendere solo quello che la nostra tela di ragno ci fa catturare, impedendoci di vedere che le cose sono annodate saldamente l’una all’altra e ritornano eternamente. E qual è la nostra condizione attuale rispetto alla percezione del nostro statuto ontologico? In questo segmento di esistenza siamo legati a macchine “intelligenti” la cui vita e la cui logica sono sostenute dai microchips di silicio che costituiscono la proiezione dell’elemento terra. Da questa “nuova” terra pervasa dalla vibrazione elettronica, traggono origine le nuove ampie ragnatele (web wide wordl) che assumono le dimensioni planetarie dell’enorme ragno del Big Data. Il topo (mouse) ci prende per mano e c’introduce nelle gallerie underground del tempo infinito precludendoci forse in maniera definitiva la percezione del nostro girare all’infinito. Forse dovremmo stare attenti a che queste macchine non ci inchiodino in un nuovo aracnideo “cogito”.

  7. WWW (World Wide Web: https://it.wikipedia.org/wiki/World_Wide_Web)! TENENDO FERMO IL PUNTO DI PARTENZA (il testo “poetico” di Pellegrino Scardino – 1603) e, ricordando che già Francesco Bacone, in Inghilterra, comincia a muoversi in un immaginario di violenza nei confronti della natura-donna (del 1602 è un suo lavoro intitolato “Il Parto maschio del Tempo”) e accogliendo l’indicazione della formidabile nota di GAETANO MIRABELLA, condivido e ritengo più che pertinente il richiamo a CARTESIO (la sua grande “pensata” risale al 1618, in un Europa già in preda alla guerra dei famosi “trent’anni”, e ha al suo fondamento una equivoca fantasia già “tarantata” da un Genio Maligno, contrabbandato come Dio).

    Agli inizi del Settecento, da Napoli, quasi un urlo da parte di GIAMBATTISTA VICO contro la “modernità” di Cartesio: “RICREDIAMOCI” (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5618). Ma nessuno lo ascolta, nemmeno Croce che della sua “Scienza Nuova” se ne farà solo una scala per il suo successo (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5737).

    È da dire con forza che l’ombra di Cartesio (l’aracnideo “cogito”) segna ancora OGGI i “parti” della “fantasia” della maggioranza dei poeti e degli scienziati, come delle poetesse e delle scienziate.

    BENE HA FATTO IL PROF. POLITO, all’inizio del suo intervento (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/31/pellegrino-scardino-san-cesario-lecce-la-tarantata), a dichiarare con chiarezza e fermezza che “rivendica anche alla poesia una capacità di conoscenza di regola attribuita solo alla scienza” e che liquida “come insensata ogni contrapposizione tra le due culture”!

    DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. A ben vedere e a ben ri-pensare (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/). In gioco c’è l’uscita da interi millenni di labirinto (NIETZSCHE), o, se si vuole, da una “rete di grandezza mondiale” di un im-mondo Ragno – un “grande fratello”, camuffato da “padre nostro”.

    Federico La Sala

  8. DOC.:

    ***** Studente italiano crea un violino fatto di seta di ragno *****

    *****Ha vinto il premio per l’innovazione di Londra *

    LONDRA. Uno studente italiano che ha inventato un violino fatto di seta di ragno ha vinto il premio per lo studente internazionale più innovativo di Londra organizzato da London & Partners, la società di promozione ufficiale della capitale. Si tratta di Luca Alessandrini, un trentenne di Urbino che si è laureato in Italia ed ha conseguito un doppio master all’Imperial College di Londra. Il giovane ha battuto centinaia di concorrenti provenienti da 49 paesi con la sua creazione, uno strumento musicale composto da seta di ragno e resina.

    Quando viene suonato, la seta fa vibrare la cassa emettendo un suono che può essere modificato variando in modo esatto la fusione dei due materiali. La combinazione della seta e della resina infatti produce un unico tono che può venir alterato modificando le quantità dei due componenti originali. Luca, che con questa invenzione si è aggiudicato il primo premio di 10mila sterline, ha spiegato che il nuovo materiale consente di personalizzare l’acustica degli strumenti con un grado di controllo molto difficile da raggiungere con altri materiali moderni come, ad esempio, la fibra di carbonio.

    * Redazione ANSA 04 novembre 2016 09:58 (http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2016/11/03/studente-italiano-crea-un-violino-fatto-di-seta-di-ragno_4d41bd22-e505-441c-80d8-83a53b2dc620.html)

    • DOC.: IL “TARANTOLISMO” NEGLI STUDI MANDURIANI (di Giuseppe Pio Capogrosso) *

      Colgo l’occasione di una dichiarazione comparsa qualche anno addietro sulla stampa, con la quale l’allora Presidente della nota Fondazione della Notte della Taranta ebbe a motivare le sue dimissioni dalla carica, per soffermarmi sull’apporto dato da alcuni autori locali allo studio ed alla conoscenza del fenomeno del tarantismo nel Salento.

      La dichiarazione, che trascrivo solo per la parte che interessa il presente contributo, è la seguente: «…è che questo progetto [n.d.a.: quello della Fondazione] possa essere sminuito nelle sue ambizioni alte, smettendo di esistere al servizio del recupero e la diffusione della musica e della cultura tradizionale salentina per servire più misere ambizioni.
      Porto un esempio, semplice ma eclatante: quest’anno è [n.d.a.: 2015] ricorrevano i cinquant’anni della scomparsa di Ernesto De Martino. Non si è ritenuto di organizzare non dico un convegno ma neanche un ricordo. Non ho ascoltato una citazione in nemmeno una delle innumerevoli interviste ai vertici della Fondazione.» (1).

      Il riferimento, come si può ben vedere, è ad Ernesto de Martino (Napoli, 1 Dicembre 1908 – Roma, 6 Maggio 1965) celebre etnologo, filosofo e storico ed alla sua opera “La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud” (edito a Milano da Il Saggiatore, nel 1961), sintesi di ricerche effettuate nella penisola salentina con una squadra composta da varie figure specialistiche (medico, psicologo, psichiatra, antropologo, etnomusicologo e, infine, un documentarista cinematografico) per lo studio del tarantismo.

      Lo studio comprendeva anche dei filmati girati in provincia di Lecce (fra Copertino, Nardò e Galatina).

      Nella dichiarazione appena trascritta si lamentava appunto l’assenza, nella ormai famosa kermesse estiva salentina, di iniziative volte a ricordare la figura e l’opera dello studioso, al quale tanto dobbiamo per la conoscenza del fenomeno.

      Ma la riflessione su queste parole, mi ha indotto a considerare il parallelismo esistente tra il citato autore ed un altro, questa volta salentino e manduriano, al quale certamente non dobbiamo meno, essendo stato tra i primi ad occuparsi del fenomeno del tarantismo in uno studio a carattere etnografico che, come dirò in seguito, ebbe, all’epoca, ampia diffusione nazionale ed internazionale.

      Anch’egli è accomunato al primo dalla scarsa attenzione riservata alla sua opera ed alla sua memoria.

      Anzi, sembra che agli organizzatori e ai promotori della manifestazione musicale (e relativa fondazione), che così poco hanno sempre dedicato al nostro territorio ed all’alto salento in genere, sia addirittura sconosciuto.

      Il personaggio a cui mi riferisco é, come molti avranno già capito, lo scrittore mandurino Giuseppe Gigli (Manduria, 14 Aprile 1862 – 7 Novembre 1921), brillante figura di scrittore, poeta e storico, a cui ho già accennato in un mio contributo dedicato all’epidemia di colera del 1887 a Manduria (pubblicato sulla testata online “Manduria Oggi”), nel quale ho evidenziato come egli si sia distinto per l’attività di soccorso, prestata volontariamente a favore della popolazione colpita dal morbo.

      Lo studio che egli, da vero e proprio precursore, dedicò al tarantismo con approccio scientifico ed ampiamente utilizzato dal de Martino, è contenuto nel suo libro Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, edito a Firenze nel 1893, ed occupa l’intero capitolo XII, intitolato Il ballo della tarantola.

      Del carattere pionieristico del suo studio (e di altri contenuti nella sua pubblicazione) era consapevole lo stesso autore laddove, nella prefazione, scriveva (2):

      «Nessuno, ch’io sappia, studiò fin ora il popolo di terra d’Otranto, nella sua vita intima, nelle sue abitudini, nelle sue credenze».

      Dopo una premessa dedicata alle supposte cause del male, presto liquidata dichiarando di voler omettere indagini di tipo medico, l’esposizione si snoda con il racconto delle modalità attraverso cui il ballo, ritenuto terapeutico, si svolgeva a Manduria.

      A tal proposito l’autore riferiva: «Curioso è il modo di spiegare dinanzi al ballerino o alla ballerina molti fazzoletti di colore, che i disgraziati guardano fissamente, finché non trovino quello che nel colore stesso rassomigli alla tarantola».

      Proseguiva poi, rilevando che diversi sono i tipi di ballo ed i luoghi in cui esso è praticato: «Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa; altri seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti o simili adornamenti femminili; altri reggendo pesanti arnesi della casa.

      Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle».

      Era, quest’ultimo, il cosiddetto “tarantismo umido” (contrapposto a quello “secco”) descritto anche da Janet Ross durante il viaggio che, nella Settimana santa del 1888, intraprese dalle nostre parti (J.Ross, The Land of Manfred, prince of Tarentum and king of Sicily).

      La scrittrice inglese così lo descriveva: «Pel tarantismo umido, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua…Pare che il tarantismo umido sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga fino a settantadue ore […]». (3)

      L’accompagnamento musicale, continuava il Gigli, è costituito immancabilmente «dal monotono e cadenzato suono di un violino, e dal rullo ineguale di un tamburello colle nacchere, suono e cadenza che si approssimano all’altro della pizzica-pizzica, ch’è il ballo più antico e veramente popolare, tutto proprio del nostro popolo, la cui tradizione si spegne nei secoli più lontani.

      Il violino è suonato da un uomo, e il tamburello da una donna, la quale intuona di tanto in tanto un lamentevole canto»
      […]

      * PER PROSEGUIRE NELLA LETTURA, CFR. IL “NUOVO MONITORE NAPOLETANO” 15 settembre 2017 – http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2241:il-tarantolismo-negli-studi-manduriani&catid=38:storia-miscellanea&Itemid=28.

      Federico La Sala

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