Osce vo ti pressa (Oggi vado di fretta)

di Armando Polito

Però, mentre inizio a scrivere, non garantisco che il post avrà quella durata che, pure, il titolo potrebbe far presagire e che avrà fatto esclamare a qualche lettore salentino al quale sto antipatico: – Ringrazziamu Ddiu, era ora! – Tuttavia, come l’appetito vien mangiando (ma quando il piatto iniziale fa schifo dubito che si possa continuare …), così le idee vengono scrivendo . E poi, io sono uno che si mette nei guai da solo e, di fronte ad un problema comparso inaspettatamente, non mi comporto come il politico-macchietta inventato da Antonio Albanese che, di fronte alle domande stringenti alle quali non sapeva o gli era scomodo rispondere, se ne usciva immancabilmente con un S’è fatto tardi ...

Anzitutto osservo che il nesso in questione con la semplice sostituzione della preposizione ti con di non è estraneo all’italiano dei secoli passati: Io già l’avea capita; or vo di pressa, via (dalla commedia di Giuseppe Colomba, Lo Scavamento, s. n., Napoli, 1810, p. 43). E, se la rete mi ha dato solo questa ricorrenza dell’intero nesso, vale la pena ricordare che vo (per vado) e pressa nel senso di fretta (na anche di calca) sono ancora oggi (per il passato il numero di citazioni sarebbe sterminato) considerate forme letterarie sì, ma non obsolete.

Se, dunque, l’espressione dialettale ha, per quanto ho appena finito di dire, una sua nobiltà, pressa mi permette di fare alcune digressioni che in un’epoca di dilagante anglofilia hanno per le mie metaforiche papille gustative un sapore particolarmente amaro. Oggi in italiano pressa è comunemente usato nel significato (riporto la definizione dal De Mauro, edizione 2000) di macchina atta a esercitare una forte pressione per comprimere, deformare, spianare, ecc. un materiale cedevole o plastico posto tra due elementi di cui almeno uno mobile e in quelli specialistici di torchio usato in tipografia per spianare i fogli dei libri, imprimere fregi, ecc. ed in quello di dispositivo usato in cinematografia per congiungere le pellicole. A distanza di 16 anni, però, queste due ultime definizioni si riferiscono a tecnologie ampiamente superate nella nostra era digitale dall’avvento del laser e degli strumenti informatici. Fa, perciò, quasi tenerezza e, probabilmente, in qualcuno suscita anche stupore la dicitura Da’ torchi ricorrente in testi del passato, come nel frontespizio in basso riprodotto.

L’immagine che segue (tratta da Symphorien Champier, Cribratio, lima et annotamenta in Galeni, Avicennae et Consiliatoris operaè, Bade, Paris, 1516, è emblematica della strada percorsa fino ai nostri giorni dalla stampa a partire dal torchio, mediato dalla sua primitiva applicazione, quella della spremitura.

Da notare Prelum Ascensianum, che, scritto come appare su una targhetta, parrebbe una sorta di marchio di fabbrica ante litteram, naturalmente in latino.. Prelum i Romani chiamavano proprio il torchio utilizzato per la spremitura delle uve e delle olive, mentre Ascensianum è forma aggettivale da Jodocus Badius Ascensius (1462-1535), un pioniere dell’arte tipografica, il cui monogramma  è visibile in basso al centro. Perciò quello che inizialmente poteva sembrare un marchio di fabbrica è, in realtà, una marca editoriale.

Quello di pressione è il concetto che sta alla base della nostra vita fisica (se non ci fosse quella atmosferica galleggeremmo in continuazione a mezza altezza come gli astronauti in assenza di gravità e quando quella sanguigna non è nei giusti valori rischiamo un collasso o un colpo apoplettico). Della spremitura di uve ed olive ho già detto, ma come faccio, ora che l’estate si avvicina, a non ricordare le spremute di frutta, anche se in quelle commerciali già la percentuale di succo  dichiarata in etichetta è irrisoria?  E, giacché ci sono, un’altra domanda altrettanto, se non più angosciante:  con l’olio e col vino comprato possiamo stare sicuri come lo saremmo se fosse una nostra produzione (nostra manco nel senso di italiana, ma di nostra nostra …)?

Ma la pressione è alla base anche della nostra vita spirituale se pensiamo al significato già ricordato di pressa (coincidente con quello di torchio da stampa) e a quello di tante parole o nessi che a quel concetto si collegano, anche etimologicamente: premura (non tanto nel senso di fretta per il quale coincide con pressa del titolo, quanto come sinonimo di cura, sollecitudine verso qualcuno)  e la forma riflessiva mi preme fare, dire, etc. etc. , senza contare i composti esprimere, comprimere, deprimere, imprimere, opprimerereprimere e sopprimere (se me ne sono scordato qualcuno chi vuole può darci l’integrazione in un suo, sempre graditissimo, commento).

Non farà piacere ora a chi ha fatto dell’anglofilia linguistica la bandiera del suo modernismo e della sua cultura quanto sto per dire. Il verbo premere in latino ha il seguente paradigma: premo/premis/pressi/pressum /prèmere; per chi non conosce il latino: sono, nell’ordine, la prima e seconda persona singolare dell’indicativo presente, la prima dell’indicativo perfetto, il supino e l’infinito presente. Anche un bambino riconoscerebbe le forme in comune con l’italiano (premo e premere). C’è in latino un fenomeno per cui dal tema del supino di un verbo delle terza coniugazione (e prèmere lo è) si forma spesso un verbo della prima che rispetto all’originale assume una leggera sfumatura o conativa o iterativa. Così dal supino captum del verbo capio/capis/cepi/captum /càpere, che significa prendere, afferrare,  è nato capto/captas/captavi/captatum/captare, che significa  tentare di prendere (anche qui un bambino riconoscerebbe facilmente l’origine delle voci italiane capto e captare). Prèmere non poteva essere da meno ; e così dal supino pressum è nato presso/pressas/pressare. A questo punto il bambino di prima,diventato nel frattempo ancora più sveglio, dopo aver individuato le voci in comune con l’italiano mi chiederebbe senz’altro perché quest’ultimo paradigma presenta due voci in meno, cioé il perfetto ed il supino. Coglierei, allora, l’occasione per chiedergli come si aspettato le forme mancanti  e molto probabilmente sentirei pronunziare pressavi e pressatum. A questo punto, dopo essermi complimentato con lui per la corretta applicazione del principio analogico, gli spiegargli le differenze tra il latino letterario (quello del quale ci sono rimaste testimonianze scritte) e quello parlato, di cui sopravvive qualche forma concreta e diretta (cioé immediatamente visibile, se qualcuno non vi sovrappone la firma della sua idiozia …) nei graffiti pompeiani  e indiretta nell’italiano di oggi. Nella fattispecie il nostro pressai non esisterebbe se non fosse esistito un latino volgare *pressavi, il perfetto mancante nell’ultimo paradigma. Non è finita: non esisterebbe nemmeno la voce soppressata (lo so che per i vegani è una bestemmia …), composta dal segmento so– che è dal latino sub=sotto+pressare.

L’ormai famigerato bambino, a questo punto sarebbe in grado di individuare facilmente l’etimo di parole inglesi come press e composte come press agent (per fortuna addetto stampa sembra ancora difendersi, nonostante la locuzione inglese sia più vicino al latino: press è inutile che dica da dove deriva, agent  ha lo stesso etimo del nostro agente [dal latino agente(m), a sua volta da àgere=fare, agire, condurre]; invece in addetto stampa, mentre addetto è dal latino addictu(m), da addìcere=assegnare, stampa è deverbale da stampare, a sua volta dal germanico *stampjan o dal francone *stampon, entrambi col significato di pestare. Alla radice di queste due ultime voci,sec ondo me, si collegano tampone e tappo, ma l’ascendente più antico potrebbe essere, nonostante il differente vocalismo, ancora il greco e, in particolare, la serie di voci messe in campo a suo tempo per il salentino stumpare. Per chi ancora ne avesse voglia segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/28/stumpisciare-calpestare/.

A questo punto non dovrebbe essere difficile individuare l’etimo, ancora, degli inglesi print (verbo e sostantivo), sapendo che originano dal participio passato del francese medioevale preindre=pressare, alterazione da prembre, a sua volta dal latino prèmere.

E voglio chiudere con una sorta di pubblicità poi non tanto occulta, anche se attualmente non sta imperversando (non credo, però, che dipenda dal fatto che si è abbassato il costo delle cartucce originali per stampanti a getto d’inchiostro …): PRINK, nato dal matrimonio tra PRINT e INK.

Insomma, tutto questo per dire, alla fine, che pressa è deverbale di pressare. E menu male ca scia ti pressa (e meno male che andavo di fretta) …

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