Il Carro di Sant’Elena a Galatone

5 maggio 2011 2 037 (2)

di Giuseppe Resta

Il Carro di Sant’Elena a Galatone
(Origini, storia, ritualità, cultura, evoluzione, spettacolarizzazione e tentativi di corruzione di un rito di pietà popolare)

Tanto è stato detto sul Carro – per ogni galatonese “Lu Carru” tout court – perché tanta è la connotazione identitaria che questo evento riveste nella galatonesità e tanto antica è la sua origine.
Ma proprio questa “popolarizzazione” ha permesso che le radici originali del Carro, i motivi che hanno portato alla sua realizzazione, si perdessero tra leggende, credenze, imprecisioni, inutili polemiche prive di fondamento o basate non su di un insieme di fattori – come sempre succede nelle cose umane – ma cercando di isolare questi da quelli, secondo l’impostazione del polemista di turno.
Forse è il caso di mettere finalmente ordine.
A partire molto da lontano, non possiamo dimenticare che i primi giorni di maggio erano i giorni nei quali in tutta l’Europa si celebrava il trionfo della primavera e la ripresa della piena attività agricola fin da epoche arcaiche. Dalle lotte rituali tra Inverno e Primavera nacquero persino le giostre dei tornei medievali.
Fin dal 238 avanti cristo, tra il 28 aprile e il 3 di maggio a Roma si celebrava una festa in onore di Flora, protettrice degli alberi durante la fioritura, Dai classici sappiamo che queste feste si chiamavano Floralia.

Protagoniste di queste feste erano le prostitute scelte come simbolo di sessualità primigenia ed energia fecondatrice. Da questi riti nasce il Calendimaggio, festa corale non meno importante del Carnevale.

Nicola Cusano, capace di conciliare paganesimo e cristianesimo, nel suo trattato “La Dotta Ignoranza” afferma : << Questa è stata dunque la differenze tra tutte le genti, che tutte avevano una fede nell’unico Dio massimo… però alcuni, come i Giudei e gli Esseni, lo adoravano nella sua unità semplicissima, quale complicazione di tutte le cose, altri invece lo veneravano in quelle cose ove trovavano un’esplicazione della divinità, accogliendo quanto ci è noto ai sensi come uno strumento per ricondursi alla causa ed al principio>>.
Tralasciando tutta una nutrita serie di eventi folkloristici legati a queste feste arcaiche di maggio, nel caso specifico ci si deve meglio riferire alla “Croci di Maggio”.

Nel vecchio calendario romano al 3 di Maggio si celebrava l’Inventio Sanctae Crucis, il ritrovamento della Croce di Gesù, scoperta da Elena, madre di Costantino il 14 settembre del 326 e poi trafugata nel 614 dal re persiano Cosroe Parviz dopo la conquista di Gerusalemme e restituita nel 628 all’imperatore Bizantino Eraclio (Esaltazione della Croce). ( Vedi le Storie della Vera Croce, ciclo di episodi affrescato da Piero della Francesca nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo, databile al 1458-1466).
Secondo l’Enciclopedia Cattolica la data del 14 settembre assunse il nome ufficiale di Trionfo della Croce nel 1963, commemorando la conquista della Croce tolta ai Persiani, e la data del 3 di maggio fu mantenuta come Ritrovamento della Santa Croce, comunemente detta Invenzione della Croce.
La croce alla quale venne crocifisso Gesù sarebbe stata trovata insieme a quelle dei due ladroni scavando il terreno del Golgota. Si racconta che venne riconosciuta miracolosamente: accostando le tre croci a una malata, questa sarebbe stata guarita all’esposizione della terza. La “Vera Croce” rimase esposta a Gerusalemme; sottratta dai Persiani nel VII secolo, venne recuperata dall’imperatore bizantino Eraclio I. Nel 1187 venne portata dai Crociati sul campo di battaglia di Hattin, perché assicurasse loro la vittoria contro il Saladino; la battaglia invece fu perduta e della croce si persero le tracce per sempre.

Tuttavia nei secoli precedenti ne erano stati prelevati numerosi frammenti che sono tuttora conservati in molte chiese. Erasmo da Rotterdam ironicamente affermava che ne circolavano così tanti che con quel legno si sarebbe potuta costruire una nave.

Una recente ricerca stima invece che i frammenti oggi esistenti, messi insieme, costituiscano solo circa un decimo del volume della croce di Elena. Tuttavia la sproporzionata quantità di reliquie della Croce che vi era nei tempi passati era tanto esagerata che si trovarono diverse spiegazioni. San Paolino ne propose una miracolosa, ovvero il fenomeno “della reintegrazione della Croce”: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma, a fronte di qualunque prelievo di legno, la croce restava sempre integra [The Catholic Encyclopaedia, Vol. 4, p. 524].

Nel centro-sud dell’Italia la festa delle Croci era particolarmente sentita perché cadeva quando stava per maturare il grano. Per questo si facevano grandi processioni portando una grande croce. Altre croci costruite di canne o ramoscelli venivano piantate nel mezzo di campi di frumento.
Ad Accettura, in provincia di Matera, la sagra del Maggio è una festa popolare che si tiene ogni anno in occasione dei festeggiamenti per il patrono San Giuliano. Si tratta di un antico rito nuziale e propiziatorio in cui il Maggio, un albero di alto fusto, viene unito ad un agrifoglio, la Cima, rappresentando i tradizionali culti arborei molto diffusi soprattutto nelle aree interne della Basilicata e della Calabria.

Secondo gli antropologi, queste celebrazioni sono fedeli ad uno schema presente negli antichissimi riti pagani agrari ed arborei tipici delle popolazioni contadine di molti Paesi europei e mirano a portare nel proprio paese e nella propria casa lo spirito fecondatore della natura, risvegliatosi con la primavera; rappresentano pertanto l’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione.
Un retaggio dell’importanza rituale e stagionale delle due feste cattoliche riferite all’Inventio e all’Esaltazione della Croce è racchiusa nel detto galateo “ Da Croce a Croce”, cioè dal 3 di maggio al 14 di Settembre, quindi dalla festa del Crocifisso a quella di Cristo di Tabelle (cappella sita nel comune di Galatina in confine con quello di Galatone, molto frequentata dai galatonesi.). Con questa limitazione temporale determinata si scandiva il periodo dell’affitto dei fondi rustici, o della villeggiatura, o, più comunemente, del riposo pomeridiano.
La conservazione di usi, costumi, riti, credenze che risalgono a parecchi secoli, alcuni di millenni (i cosiddetti “Rottami di antichità” di Giambattista Vico), riveste grande importanza, dal momento che l’attuale perdurare di antiche forme di vita e cultura, testimonianze di un passato assai remoto, riveste il fenomeno di un significato e di un valore veramente notevoli.
È infatti acquisizione ormai certa e incontrovertibile il fatto che diversi culti cristiani si siano innestati nel corso dei secoli su culti pagani che risultano perduranti tuttora nel mezzogiorno d’Italia.
Il paganesimo è stato una religione politeista prevalentemente a carattere misterico e soteriologico, basato sul rapporto tra singolo e il dio. Il termine “pagano” designa colui che non ha aderito al cristianesimo ed è rimasto fedele all’antica religione. L’origine del vocabolo è stata spiegata in vari modi. Per la maggior parte degli studiosi, “paganus” equivale a “rustico”: i pagi (villaggi), infatti, sarebbero stati l’ultima roccaforte e baluardo del paganesimo. I culti popolari sono sopravvissuti per millenni, passando dalle religioni antiche a quelle moderne. Tale continuità è da identificarsi nel mantenimento della struttura sociale caratteristica delle società contadine, nonostante alcuni mutamenti, i quali non hanno intaccato tuttora il tipo di rapporto tra la comunità e le sue divinità. Le permanenze cultuali del passato sono particolarmente evidenti nei culti popolari (processioni, feste, manifestazioni carnevalesche, ecc.), nei quali spesso i motivi cristiani si sono sovrapposti a motivi di religioni preesistenti a carattere popolare.
In molte delle manifestazioni di religiosità popolare è, difatti, spesso riconoscibile un sottofondo pagano che la Chiesa, quando non è riuscita a estirpare, ha saputo trasformare e adottare, dando ad esso un nuovo significato. Con un reciproco effetto: alcuni riti pagani si sono cristianizzati ma al contempo il cristianesimo si è anche paganizzato.
A prescindere da queste considerazioni bisogna entrare nel quadro culturale e cultuale del periodo di nascita del Carro. É probabile e non escludibile che nei primi anni del 1700 a Galatone ci fossero ancora in uso riti agrari propiziatori del tipo suesposto.

Ma di certo il primo Carro di Sant’Elena di cui si ha certa notizia si riscontra negli anni tra il 1718 ed il 1719 nel libro degli Esiti del Santuario del Santissimo Crocifisso  – terminato nel 1696 e poi consacrato nel 1711. E’ anche lecito pensare, ma non abbiamo nessuna prova, che il carro di Sant’Elena sia una delle tante cristianizzazioni di culti pagani. È però certo che di carri barocchi come il nostro in quel periodo se ne facevano tanti. Vedi quello per la Madonna della Bruna che ancora si fa a Matera.

Siamo nei primi anni del 1700, appena fuori dallo sforzo normalizzatore post tridentino, così difficile da far attecchire nell’estremo sud della penisola. Si edifica il nuovo santuario come un reliquiario di pietra del Crocefisso, quindi della Croce. Tutto il santuario, consacrato nel 1711, è concepito come una teologia di pietra per esaltare la Croce, dall’ Invenzione all’Esaltazione.

Lo stesso altare maggiore, che poggia sulle quattro Virtù Cardinali, effigiate secondo la canonizzata iconologia di Cesare Ripa, è un continuo rimando al mistero ed alla teologia della Croce. Al centro è custodita l’icona del SS. Crocifisso della Pietà affiancata dalle statue di san Francesco Saverio e san Francesco di Sales, difensori della fede e custodi della Croce. In alto una teoria di quattro angeli con gli attrezzi della passione e al centro la Madonna Addolorata, fra le pie donne e gli angeli del Giudizio, in alto la Veronica. A destra e sinistra del finto tendaggio che sormonta la Veronica, due pitture del Letizia che raffigurano rispettivamente una il ritrovamento da parte di Elena, madre di Costantino, della Croce sul luogo della crocifissione e l’altra la restituzione ad Eraclio I della Croce sottratta a Gerusalemme dai Persiani.
Negli stessi anni, precisamente nel 1716, ma commissionati l’anno precedente, arrivano da Napoli l’ostensorio d’argento con la figura a tutto tondo di San’Elena che regge la Croce e il reliquiario d’argento del frammento della S. Croce, con l’immagine a bassorilievo della Veronica.
In quegli anni (1716) nasceva lo stesso O. Amorosi, che a quanto risulta fu lo sviluppatore del carro, (e non l’inventore, ameno ché a due o tre anni non fosse già prodigiosamente attivo) che scrisse una grande Sacra Rappresentazione “L’Invenzione delle Croce”, musicata da Don Domenico Lillo. Lo Stesso Amorosi teneva delle adunanze nello stesso santuario del Crocifisso disquisendo di Verità cattoliche e sulla stessa devozione locale per il Crocifisso.
In questo clima non è difficile immaginare che sia nato coscientemente il Carro, per celebrare degnamente l’invenzione della Croce, se mai incanalando anche precedenti manifestazioni, ma sicuramente con una connotazione cattolica controriformista e legata alle mode dell’epoca.
La manifestazione non rappresentava certo il passaggio da Galatone di Sant’Elena con la Croce (Croce che dopo la scoperta era peraltro rimasta a Gerusalemme, e questa è storia!) da queste lande (in ogni caso, anche sbarcando a Otranto, avrebbe percorso la Traiana salentina Orientale – o via Calabra, valorizzata proprio in epoca costantiniana – fino alla via Appia, e non certamente la Traiana occidentale).
Né vale nemmeno la pena discutere su presunte origini messapiche, legate a culti di fecondità per niente presenti in questa zona del mediterraneo. Così non vale nemmeno la pena di sprecare del tempo per confutare presunti legami di toponomastica di vecchie vie rurali. La Storia è fatta di documenti certi, parallelismi inequivocabili. Le supposizioni, le intuizioni, le strane combinazioni, le coincidenza, gli indizi, insomma, senza prove non fanno parte della Storia, ma servono a creare storie, leggende, favole, letteratura. Tutte cose belle e valide, ma diverse dalla Storia. Almeno questo è il metodo scientifico di approccio alla materia valido, quello che insegnano nelle università di tutto il mondo. D’altronde le ipotesi sono un buon stimolo di ricerca, ma se poi non si arriva a dimostrarle rimangono ipotesi. Senza contare che spesso si dimentica che la storia del Salento ha una cesura di circa duecento anni tra la fine disastrosa delle guerre gotiche che portò allo spopolamento quasi totale del Salento romanizzato e i primi ripopolamenti bizantini. In questi casi spariscono intere città, si inselvatichiscono intere regioni, pensare che possano rimanere toponimi senza popoli che li tramandino è fantasia.
Perciò la rappresentazione era e dovrebbe essere nient’altro che la riproposizione della rappresentazione del Trionfo di Elena, di ritorno da Gerusalemme dopo aver ritrovato la vera Croce, che riportava i Tre Chiodi Sacri a Roma. (Per approfondire si consiglia una lettura della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.)
I Tre Sacri Chiodi (due per le mani e uno per i piedi inchiodati insieme), trovati ancora attaccati alla Sacra Croce, sarebbero stati portati da Elena negli anni tra il secondo e terzo decennio del IV° secolo al figlio Costantino.

Secondo la leggenda uno di essi venne montato sul suo elmo da battaglia, da un altro invece fu ricavato un morso per il suo cavallo. Il terzo chiodo, secondo la tradizione, è conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Il “Sacro Morso” invece, si trova nel Duomo di Milano, dove due volte l’anno viene mostrato ai fedeli.

Del chiodo montato sull’elmo si sono perse le tracce; secondo una tradizione si trova oggi nella Corona Ferrea, conservata nel Duomo di Monza (che, secondo alcuni storici, è proprio il diadema dell’elmo di Costantino), ma anche altre città e santuari ne hanno rivendicato il possesso. Ma tutto si perde nella leggenda, tanto più che il ferro della Corona Ferrea si è dimostrato, in anni recenti, essere invece d’argento.

Il Trionfo era un’Istituzione prettamente romana. Costituiva il più alto onore riconosciuto a un comandante che, in possesso dell’”imperium maius”, avesse riportato un’importante vittoria su un nemico. L’aspetto originario del Trionfo era religioso: il suo scopo consisteva nel recarsi al tempio di Giove Capitolino per sciogliere i voti fatti all’inizio della spedizione. Con il tempo il prevalere dell’aspetto politico-militare rese il trionfo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
Il corteo si formava fuori del pomerio, dove i militari si accampavano nel Campo Marzio, entrava in città attraverso la Porta Triumphalis, passava per il Circo Massimo e, presa la Via Sacra, ascendeva per il Clivo Capitolino giungendo al tempio di Giove. E’ chiaro che nei secoli il percorso della Via Sacra ha subito diverse modifiche ed il punto di arrivo nel tempo è stato spostato più volte mseguendo le trasformazioni urbane ed edilizie. In testa al corteo erano i senatori e i magistrati, seguiti dagli animali sacrificali votati al dio, dall’apparato sacerdotale e dalle spoglie dei vinti: il bottino trainato su carri, i prigionieri di alto rango e infine la massa dei prigionieri più umili. Al centro del corteo era il gruppo del trionfatore: preceduto da littori e musici, il vincitore della campagna, abbigliato come Giove Capitolino e con il viso dipinto dal sacrale colore rosso, avanzava su un carro trionfale trainato da quattro cavalli bianchi, accompagnato da figli e parenti. Dietro il trionfatore, la coda del corteo era dedicata ai combattenti: preceduti dagli ufficiali superiori dei vari reparti (legati e tribuni) sfilavano gli ufficiali inferiori e le truppe, in ordine militare e con le loro decorazioni. A Giove Capitolino il trionfatore offriva il lauro e quindi compiva il sacrificio.

Quindi è questo il solo vero significato del Carro di Sant’Elena.
Dobbiamo ricordare che i Trionfi romani avevano avuto una grande fortuna artistica iconografica sia in epoca medievale che rinascimentale, quando gli artisti copiavano i bassorilievi dei ruderi romani o gli encausti che si andavano scoprendo. In letteratura sono notissimi I Trionfi scritti da Francesco Petrarca. Un poemetto allegorico in volgare italiano; opera iniziata nel 1351 e terminata nel 1374, che grande fortuna ebbe durante il rinascimento ed il manierismo, ritrovando interesse nel periodo barocco.
Il Trionfo Allegorico di Giovanni Granai Castriota che sormonta il portale cinquecentesco della chiesa di San Sebastiano a Galatone, che allegoricamente si ripropone come comandante vittorioso al ritorno delle guerre contro gli infedeli nei Balcani, è copiato da originali romani, copiati e ricopiati fin nel periodo Barocco e poi Neoclassico. Tant’è che Claude-Joseph Vernet, nel 1789, con il “ trionfo di Emilio Paolo” del 1789 ancora ripropone fedelmente lo stesso schema iconografico di quello galateo. (Spero che a nessuno venga in mente di dire che Vernet lo copiò da Galatone!!! Ma potrebbe anche essere che qualche storico-creativo lo possa anche dire. Ormai…).

Da notare proprio come il bassorilievo di San Sebastiano riporti in bassorilievo la Porta Trionfale da una parte e il Circo Massimo dall’altra.
I Galatei quindi, nel bassorilievo di foggia romana della facciata di San Sebastiano avevano fin dal 1500 un modello. Modello che è stato di supporto anche negli anni settanta del secolo scorso quando, con il professore De Mitri e Don Gino Leante, si è cercato di sfrondare il carro da improbabili incrostazioni pacchiane per ridare una certa plausibilità storica e spendibilità turistica all’evento.
Date queste premesse cultuali, teologiche, artistiche e storiche è assolutamente impensabile spostare la manifestazione dalla sua propria collocazione temporale a ridosso della festa del’Invenzione della Croce. Né appaiono fondate e giustificabili le istanze volte a portare la manifestazione nel giorno dedicato a Sant’Elena – 18 agosto – solo per cercare di trasformare una manifestazione che ha precise origini sacre in un semplice richiamo turistico di massa. Sarebbe un vero scippo prosaico ad una manifestazione religiosa connotante. Sempre che non si voglia artatamente trasformare anche questa tradizione cattolica e popolare in un trionfale e sfarzoso spettacolo propagandistico. Proprio come il trionfo ai tempi di Roma imperiale.
Così non è condivisibile che si tenti di laicizzare una manifestazione che invece nasce nel Santuario del Crocifisso, ispirata da questo, legata a questo e che ha sempre rappresentato un momento spettacolare di evangelizzazione sui valori della Croce per tutti i fedeli.
Pertanto mi auguro rimanga il rientro della Sant’Elena in chiesa al grido di –Ave Augusta, Ave Crux, Milites Vos Salutant!-. l’accoglimento del cappellano e la benedizione della Croce e della folla.
Anche se siamo tutti debitori agli organizzatori dell’ultima rappresentazione – la migliore, certamente, di sempre – plaudendo doverosamente per l’encomiabile entusiasmo, lo sforzo sovrumano, la incrollabile dedizione, il tanto sacrificio, sarebbe meglio esimerci dal commentare, poi, l’inopportuna messinscena con l’”assalto al Carro”.

Detto “assalto” sembrerebbe perpetrato da presunti “saraceni” col turbante, che sarebbero già musulmani nientepopodimenoche quasi duecentocinquanta anni prima della nascita di Maometto (se è vero come è vero che il ritrovamento della Croce risale agli anni intorno al 320 d.C. e che Maometto è nato alla Mecca tra il 570 e il 580 d. C. ); e che questi non ben identificati predoni in turbante non romanizzati avrebbero dovuto poi assaltare il Carro Trionfale nel suo rituale percorso sulla Via Sacra in pieno centro di Roma imperiale per depredarlo di una reliquia (che non c’era) di una religione ancora non pienamente diffusa.
Anche a leggere una sceneggiatura teatrale metaforica, allegorica, riproponendo un’angoscia per l’attuale attacco del Sultanato all’Occidente cattolico, rimane a mio personale parere, stante quanto sin qua detto e argomentato, un malriuscito tentativo di spettacolarizzazione lontano da verità storiche e dalla tradizione consolidata; uno straniante cortocircuito spazio temporale, poco plausibile. Personalmente mi auguro che più non si ripeta.
Le fonti bibliografiche che si sono consultate per redigere questo scritto sono a disposizione di tutti. Se si vuol fare e fare bene, alla storia, alla tradizione, al culto, alla verità si dovrebbe leggere e studiare – o di chiedere a chi ha già approfondito – prima di decidere e fare.
Non penso che sia proficuo volgere tutto in spettacolo, in fanta e meta storia per ottenere solo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
In questo caso dovrebbe essere l’identità comunitaria dei galatonesi, se vogliono e sanno, e se soprattutto c’è, opporsi ai primi segnali di stravolgimento di una tradizione consolidata antica di trecento anni per riportarla nei giusti canoni, farla progredire, rifinirla bene, organizzarla meglio e renderla sempre di più elemento corale connotante e qualificante della nostra comunità. Si dovrebbe riuscire a lavorare tutti d’accordo e concordemente su rispettose basi storiche per la buona riuscita e la conservazione di una così preziosa e rara tradizione connotante. La spendibilità turistica si può avere solo portandola a livelli qualitativi alti, in linea con la concorrenza di tanti altri cortei storici.
Ognuno faccia il suo, secondo le proprie competenze e vocazioni. Solo insieme si può riuscire a fare cose buone.

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Un commento a Il Carro di Sant’Elena a Galatone

  1. Complimenti all’autore non solo per l’inoppugnabile excursus storico ma soprattutto per le parole chiare espresse contro le raccapriccianti e sotto certi aspetti ridicole superfetazioni che, pur ricorrenti nella storia passata, oggi più che mai si mostrano asservite al bieco profitto spesso camuffato da promozione culturale e sponsorizzato, non di rado con denaro pubblico, come tale. La Notte della taranta, ormai, fa scuola …

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