Nostalgie salentine: li chiamavamo curumusciuli

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di Rocco Boccadamo

Dopo le impreviste e non propriamente piacevoli traversie famigliari marzoline, nei giorni scorsi, al fine di cercare di rinfrancarmi lo spirito su lunghezze d’onda, diciamo così, più leggere, mi sono determinato a fare su e giù da Marittima, precisamente dalla mia Pasturizza e dalla Marina ‘u tinente.

Da solo, con l’ausilio di zappetta, forbice e decespugliatore, oppure in supporto a un paio di compaesani contadini/giardinieri, ho così dato un’aggiustatina alle aiuole della villetta, in vista del rituale rinnovo delle piante da fiori, e ai terrazzamenti scoscesi della citata Marina ‘u tinente, situati nei pressi della scogliera demaniale e popolati da centoquattro giovani ulivi.

Ma, grazie all’eccezionalità vegetativa del corrente periodo stagionale, ho specialmente avuto agio di vivere un’autentica immersione nella rigogliosa coperta di verde, fiorito e non, che, adesso, arriva a sormontare gli affioramenti rocciosi: pressappoco, una sorta di variopinto scendiletto rispetto alla distesa d’onde, a portata di mano, del tratto di costa segnante il connubio tra Adriatico e Ionio.

Immersione, abbinata a uno stato di silente apnea, fra stupore e stordimento per via delle astanti, prodigiose e meravigliose, manifestazioni della natura.

In siffatto clima visivo e, insieme, di suggestione interiore, senza accorgermene, ho compiuto con la mente un viaggio a ritroso verso i sentieri dell’infanzia e della fanciullezza, quando le campagne e le marine, in aprile, di per sé, si presentavano sostanzialmente come oggigiorno, mentre, parallelamente e in senso metaforico, correvano ben altre levate e declinazioni della luna; in altre parole, restando con i piedi per terra, in giro si respirava un’aria completamente differente.

Ad ogni modo, è stato come rivedermi scolaro o agli inizi delle medie, intento alle frequenti scampagnate nelle marine, in genere la domenica o durante i pomeriggi feriali, in un’atmosfera mite e colorata dal sole già quasi caldo.

Quant’era diverso, a quei tempi, il porsi e il comportamento del ragazzo di ieri, come pure, ovviamente, degli amici che lo accompagnavano, nei confronti degli elementi naturali! Si badi, a disposizione di dette creature, in termini di svaghi e giochi preconfezionati, non esisteva quasi niente e, per ciò, era normale che dovessero aguzzare il cervello sino a escogitare di loro iniziativa qualche moto, o azione, piacevole, avvincente, dilettevole e, magari, pure utile.

Sia come sia, alle marine, si passavano parentesi in allegria, giocando con naturalezza e semplicità: o cercando qua e là piccole e leggerissime palline rosse di bauxite (uddhrìe),   oppure tentando di sorprendere nell’erba innocenti grilletti, per quindi «catturarli» e divertirsi assistendo ai loro improvvisi e un tantino goffi saltelli. Inoltre, poiché, all’epoca non c’erano, nemmeno nella fantasia, biscottini o caramelle o gomme da masticare, si era soliti andare alla ricerca di piante di curumusciuli e dopo di che piluccarne i piccoli baccelli, poi mangiati a volo senza dischiuderli.

Ma cosa sono i curumusciuli, oggi, invero, quasi scomparsi? Danno l’idea dei piselli freschi, però di più ridotte dimensioni. In botanica (da Wikipedia), trattasi del ginestrino (Lotus corniculatus), una pianta appartenente alla famiglia delle Fabacee (o Leguminose). È comune dappertutto nei luoghi erbosi ed è buona foraggera.

È un’erba perenne a fusto pieno e ricurvo alla base, alta da 10 a 30 cm. Le foglie, composte, sono divise in tre foglioline romboidali. I fiori, gialli, sono riuniti in ombrellette di 2-6 elementi (maggio-agosto). I legumi, sottili e cilindrici, sono di colorito brunastro.

E se, fra un’attività e l’altra, veniva sete, manco l’ombra, va da sé, della bottiglietta d’acqua minerale che oggi si porta in borsa o in mano o in tasca e, tuttavia, il problema era risolto brillantemente, anzi di più.

Le basse rocce affioranti dai terrazzamenti recavano, così è anche tuttora, diffuse buchette di varie dimensioni, in dialetto conche, che, in determinati periodi raccoglievano e conservavano residui delle piogge.

Bastava attingere con il palmo della mano a tali provvidenziali contenitori e, quindi, portare direttamente in bocca il dissetante liquido.

Quell’acqua caduta dall’alto e ritenuta pura e sicura (siamo a sogni lontanissimi), aveva il pregio non solamente di riuscire a eliminare la sete e l’arsura in gola, ma anche d’emanare un singolare miracolo a livello degli occhi, della mente e degli stimoli interiori.

Noi piccoli, socchiudendo le palpebre, registravamo per incanto come delle visioni, immaginavamo segni d’antiche civiltà, sul mare vicino ci pareva di scorgere la sequenza dei legni capitanati dall’eroe troiano Enea che, com’è noto, a conclusione della sua fuga da Ilio distrutta, si suppone possa essere sbarcato e approdato in Italia giusto sulla costa orientale del Sud Salento.

O le galee degli ottomani che, a più riprese, nel quindicesimo e sedicesimo secolo, hanno attaccato e saccheggiato le nostre terre, con distruzioni ed eccidi, in primis il sacrificio degli ottocento martiri otrantini recentemente proclamati santi.

O, su orizzonti più prossimi, le nostre anziane nonne e/o compaesane in genere, le quali si dedicavano alla “cura” e alla produzione, di contrabbando, del sale marino, mediante frequenti integrazioni, con otri d’acqua piovana e dolce raccolta nelle cisterne, del liquido salato presente nelle conche sulla scogliera demaniale.

Non c’è che dire, in conclusione, talvolta può rivelarsi benefico, rilassante e appagante, a me personalmente accade, lasciarsi avvolgere in un ideale canovaccio fra le esperienze e i ricordi di ieri e la realtà del presente.

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