A proposito dei libri del conte di Ugento Angilberto del Balzo

di Luciano Antonazzo

Alcune considerazioni su un sonetto del quale il prof. Polito ha scritto in due suoi articoli, postati su questo sito nel gennaio 2014, col titolo “Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia ”:

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (1/2)

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (2/2)

Tale poesia, come egli ci riferisce, si trova scritta su una pagina bianca dei Trionfi del Petrarca, libro posseduto da Angilberto del Balzo, conte di Ugento e primo duca di Nardò, e custodito assieme ad altri appartenuti allo stesso del Balzo, nella Bibiloteca Nazionale di Parigi. Tali volumi, assieme ad altre carte, compreso un inventario, riferiscono gli studiosi che furono confiscati dagli Aragonesi al conte dopo la sua condanna per la partecipazione alla congiura dei baroni del 1484 -6.

Il suo testo originale, con a fianco la trascrizione del professore (mutuati dal suo post) è il seguente:

duca

Egli ne fa una colta disamina concludendo che è pressoché impossibile risalire al suo autore ed al contesto in cui venne scritta. Alla nota 12 della seconda parte avanza anche l’ipotesi che la poesia, qualora per alcuni versi facesse rimando al Tasso (1544 – 95) potrebbe essere stata scritta qualche decennio dopo la morte del duca, ed è questo passaggio che mi ha portato a riflettere ed a cercare di risalire a chi potrebbe esserne stato l’autore ed al motivo che lo portò a scriverla.

Per quanto sia obiettivamente ardua l’impresa provo senza preunzione a sciogliere il dilemma, comiciando col dire che a mio avviso la sesta parola del primo verso della terza strofa, anziché firmi, come ritiene il professore, debba leggersi fiumi, così come imineo del penultimo verso non stia ad indicare il canto nuziale, ma corrisponda al nome proprio del dio delle nozze, Imeneo.

Per venire al possibile autore ho congetturato che il manoscritto potesse esser passato per le mani del poeta Antonino Lenio che visse alla corte del conte di Ugento Francesco del Balzo e del quale ho parlato in un articolo postato in questa sede nel settembre del 2015 dal titolo “Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio alla corte del conte di Ugento

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/29/unintrigante-ipotesi-sul-poeta-antonino-lenio-alla-corte-del-duca-di-ugento/.

Mi rendo conto che l’ipotesi avanzata è anacronistica in quanto la biblioteca di Angilberto del Balzo (almeno in parte), stando a quanto asseriscono gli studiosi, risulta essere stata portata in Francia verso il 1495, mentre il Lenio risulta essere giunto alla corte di Ugento attorno ai primi anni del ‘500; tuttavia ritengo valga la pena prospettarla.

Come ho già detto nella precedente occasione, il poeta per allietare le giornate della sua padrona, Antonia del Balzo, figlia del conte e della sua prima moglie, Brigida Carafa, scrisse un poema epico-cavalleresco, di ben 1.900 ottave, pubblicato a venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTE[1], pubblicato quasi integralmente a cura del compianto Mario Marti con una dottissima esegesi e un chiarissimo commento[2].

Ed è proprio in quest’opera che ho provato a cercare eventuali corrispondenze coi versi della poesia.

Non ho trovato granché ma solo alcuni rimandi, che comunque potrebbero forse avere una valenza probatoria significativa.

Il “primo motore” del primo verso della poesia trova una corrispondenza nel “Gran Motore” che ritroviamo in Oronte III, I, 391 e III, II, 688 (Gran Motor).

La qualifica di “lucido” attribuita ad Apollo nel secondo verso la si rinviene nel lib. I, canto XVI, v. 354 (Apollo lucido e nitente).

Il pronome “Collei”, incipit della terza strofa, lo si ritrova all’inizio del verso 418 del sesto canto del primo libro (“collei per chi mai simil passione”), mentre l’intera strofa ha un’eco nella descrizione di Virginia Carafa, seconda moglie del conte (I,VI, 500-512) e di Antonia del Balzo (vv. 580 -84).

A Nettuno che gli chiede conto del ritardo il fiume Sebeto risponde:

Inclito Sire,

io son tardato, e contra el mio pensiero,

né per mia colpa, anzi de dui bei lumi,

ch’hanno in sé la forza de fermar i fiumi.

 

Sebetide virginea, andando a spasso

Per le mie rive, a canto la marina,

per saper ch’era, fermai alquant’el passo;

ma lei, che gl’occhi verso me declina,

al primo sguardo me conver’in sasso;

ma udendo la parola sua divina,

mirando el fronte e quel eburneo dente,

me versò un’altra volta in rio corrente.

E proseguendo Sebeto aggiunge che si era attardato anche perché sulla riva del mare, “nel lito ogentino” (v. 536) aveva visto passeggiare Antonia che così descrive:

Questè quel bel lume

qual io, signor, per sort’ebbi a vedere

in mezzo de sue ninfe, quale Teti,

ch’al mirar sol,  fa i venti mansüeti”.

Per quanto concerne lo spagnolismo “y” dello stesso nell’intero poema non se ne trova traccia, mentre in tutta l’opera al posto dell’articolo “il” si trova immancabilmente lo spagnolo “el”.

Per quanto attiene invece la parola “ponti” del primo verso della quarta strofa, la stessa potrebbe giustificarsi in quanto fa rima col “monti” del secondo verso della strofa precedente; seppur col significato di “punte” in Oronte (II, II, 167 -178) troviamo “ e fur sì mutue l’amorose ponte / che generaro me su questo monte”.

Infine “imineo” nel poema si rinviene quattro volte: III, IV, 132 – III, V, 250 (Imeneo);

I, II, 236 – I, VI, 373 (Imeno).

Prima di passare all’analisi della poesia occorre precisare che dedicataria del poema Oronte fu la stessa Antonia, che ne fu anche l’ispiratrice. Il poeta in verità come sua musa invoca una metafisica Gesia ma questa non è altro che l’ipostasi di Antonia della quale decanta innumerevoli volte la bellezza e la progenie. Ma quello che qui più interessa è che il poeta in numerosi passi dell’opera, ed in almeno sei dei quarantacinque epigrammi in latino che chiudono il volume, dichiara il suo amore (non corrisposto) per la sua padrona[3].Valga ad esempio l’incipit del quarto epigramma:

O Gesia, perché, sottraendoti, fai disperare il tuo infelice innamorato?”.

Per venire al contesto della poesia, l’astro splendente più di Apollo mandato da Dio sulla terra potrebbe essere identificato in Antonia della quale nel poema (I, III, 25-28) il Lenio dice:

ma che novel sol è quel ch’appare

che gli occhi abbaglia per soperchia luce?

certo Gesia serà, che non ha pare;

altro lume del ciel tanto non luce”.

La seconda parte della prima strofa, in particolare l’espressione “gran disastro di lume”, potrebbe invece alludere alla condizione di Roma e della Chiesa dopo il saccheggio da parte dei Lanzichenecchi (1527)? Quel tragico evento il poeta nell’Oronte (I, VI, 125-28) così descrive:

Portò [Roma] corona et or porta la benda,

come propria cagion del proprio male;

giace ferita de le sue sagette,

talch’a sacco le dier Lanzechenette”.

Aggiungendo (II, IV, 1-8):

De Giov’è il tempio, e non tocco da foco,

quando dà Greci Troia fu brusata,

ché se rispetta ogni sacro loco;

Né fu sì mal, com’ora Roma, trattata,

che violar li tempi è stato un gioco

e li clerici andar per fil de spata,

commetter tutti esorbitanti mali,

tener prigioni e papa e cardinali”.

E concludendo (III, IV, 15-16):

burdell’e beccaria fatto han de Roma,

talché squarciato n’ha el petto e la chioma”.

Passando alla parte finale della poesia ritengo che questa debba intedersi: Ma giusto è che s’adonti [Antonia] –perché quell’ingrato e rigido Imeneo – per sposa a un fauno (la dia) prego Deo.

Mi rendo conto che questa lettura appare un controsenso, ma tale non è perché il fauno è da identificarsi con lo stesso Lenio. Che egli non fosse un Adone ma alquanto sgraziato nella figura lo testimonia un “amabile e sorridente epigramma per lui composto ed a lui dedicato dall’amico Giano Anisio, una sapida puntasecca: «Si quis te aspiciat, Leni, nil torvius, at si / inspiciat nil te lenius putet»”[4].

E deve essere stata questa sua figura sgraziata che, costituendo per lui un ostacolo per convolare a nozze, lo porta a definire Imeneo “ingiusto e rigido”.

E la sua preghiera non è rivolta a Dio, ma a Deo, vale a dire Cerere[5], la cui bellissima figlia Proserpina fu rapita da Plutone per farne la sua sposa; e Plutone, come dio degli inferi, sappiamo che non era certo un modello di bellezza.

Le preghiere del Lenio non furono ascoltate e la bella Antonia, per interessamento di Ferrante Gonzaga, duca di Mantova, andò in sposa ad Ambrogio Branciforte, marchese di Licodia e (dal 1563) Principe di Butera, nel messinese. E forse a questo matrimoni, con conseguente partenza di Antonia per la Sicilia, fa riferimento il XIII epigramma:

Tu te ne parti, e io muoio; né è strano: di questo petto – tu sola sei l’anima, o Gesia, senza la quale il corpo è un cadavere”.

Concludento: se l’ipotizzata identificazione tra l’autore della poesia ed Antonino Lenio trovasse conferma, ne conseguirebbe che la confisca della biblioteca di Angilberto del Balzo ( o di una sua residuale parte) potrebbe essere avvenuta in seguito al “tradimento” del conte Francesco del Balzo che nel 1527 si schierò col Lautrec.

 

[1] Col sottotitolo:“ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

[2] M. Marti, “ Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino)”, Ed. Milella, Lecce 1985.

[3] Il poeta, stando alla ricostruzioe del prof. Marti (Oronte …, cit., p. 15) dovrebbe esser nato tra il 1470 ed il 1475, mentre Antonia dovrebbe esser nata poco dopo il matrimonio dei genitori avvenuto verso il 1501.

[4] M. Marti, Oronte …, cit. P. 35. (Trad: Se qualcuno ti guardas esteriormente, o Lenio, niente di più torvo (di terribile aspetto), ma se ti guarda introspettivamente, niente stima più mite (gentile) di te”.

[5] Detta in greco Demetra ma anche “Deo“ dal verbo Dèo (io trovo) in riferimento ai viaggi da lei fatti in cerca della figlia Proserpina.

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3 Commenti a A proposito dei libri del conte di Ugento Angilberto del Balzo

  1. La mia “dotta” analisi impallidisce di fronte alla sua e, addirittura, arrossisce di vergogna di fronte a quel “fiumi” letto per “firmi” (oltretutto, se così fosse stato, avrebbe trovato nel successivo “immobili” una ripetizione concettuale pressoché inutile).
    Voglio partire, però, proprio dal mio errore di lettura per fare qualche riflessione, non per contestare ma, sotto certi aspetti, per corroborare la sua ipotesi attributiva e pure qualche nota interpretativa. Anche io, partendo dal Lenio (che, però, conoscevo e conosco come l’aramaico), avrei indagato, disponendone dei testi, sul suo usus scribendi e sull’eco di qualche trasfigurazione poetica.

    Le prove da lei addotte sono senz’altro suggestive, anche se, come correttamente riconosce lei stesso, non determinanti. Bisogna, infatti, fare i conti oltretutto con i tanti ricalchi, più o meno simili, che caratterizzano gran parte della produzione letteraria di quei periodo ( e non solo. Così “lucido” come appellativo di Apollo è un topos di vecchia data (senza scomodare uno scoliaste del primo libro dell’Iliade, basta digitare nel motore di ricerca “Lucido Apollo” e un numero cospicuo di ricorrenze emergerà dalla letteratura di ogni tipo (dall’aulica alla burlesca) a partire dal XIV secolo.

    Torno al mio errore: il suo emendamento fa emergere l’asindeto. Ai nostri tempi, come sappiamo, l’assenza di punteggiatura (nella fattispecie la virgola) o il suo uso improprio trovano da un lato giustificazione (magari arrampicandosi sugli specchi) negli artisti che, per definizione, possono permettersi il lusso di violare impunemente le regole, dall’altro costituiscono nell’uso comune un vero e proprio errore frutto di ignoranza. Chi ha vergato questa poesia (ne sia o no l’autore, il che aprirebbe l’ulteriore problema della cronologia della scrittura vera e propria o della citazione), dunque, mostra un notevole livello culturale e questo, paradossalmente, complica le cose perché riesce difficile attribuire ad errori di scrittura (a differenza di quanto succede nei coevi testi a stampa) quelle che a prima vista possono sembrare incongruenze.

    Passo, per esempio, alla dea Deo (sembra un gioco di parole ma, come vedremo alla fine, potrebbe veramente esserlo). La sua osservazione su di lei è molto acuta ma debbo fare una precisazione di natura filologica in rapporto alla sua nota n. 5, premettendo che non conosco nome di divinità derivato dalla prima persona singolare del presente indicativo di un verbo, nel nostro caso “δήω” (per chi ci segue: si legge “dèo” e significa “io cerco”). So, invece, che sempre in greco, la dea aveva il nome di Δηώ (sempre per chi, ancora, ci segue: si legge “deò”). Ora, al di là dell’etimologia (che il nome proprio si colleghi al verbo poco importa) e partendo da Δηώ, pur immaginando un intermediario latino “*Dèo” (lo scrivo con l’asterisco perché, a quanto ne so, sono attestati solo due derivati: il matronimico “Deòis”=figlia di Deo e l’aggettivo “Deòius/Deòia/Deòium”=sacro a Deo), il nostro, che mostra il livello culturale di cui sopra, lo scrive con l’iniziale minuscola. A complicare il tutto c’è da notare l’iniziale maiuscola (da me resa con la minuscola per il valore traslato attribuitogli in nota) di “Imineo”; niente di strano, se non fosse che pure “Ingrato” presenta l’iniziale maiuscola, mentre quella di “deo” è inequivocabilmente minuscola (che sia apposizione di “Imineo”?). Che si nasconda un volontario gioco di parole con allusione bivalente, vista la scrittura sostanzialmente corretta e, tutto sommato, scevra, proprio perché diretta, da quelle imperfezioni che i passaggi intermedi della stampa comportavano e comportano ancora oggi?

  2. Riporto da Luciano Antonazzo:

    Caro professore
    mi ha fatto piacere leggere le sue note in quanto sostanzialmente non rigettano la mia ipotesi pur muovendo degli appunti. Ed é su questi che voglio soffermarmi.
    Aldilà della questione filologica sul nome della divinità “Deo” che esula dalle mie capacità, lei si sofferma sul fatto che il nome della ipotizzata dea sia scritto in minuscolo, mentre quello di Imeneo presenta la “i” maiuscola. In realtà però la “i” maiuscola (se di maiuscola si tratta) nel sonetto la troviamo in tutte le parole che cominciano per tale vocale (in nimpha, immobil, iusto, ingrato) e talvolta in chiusura (venti, nivei), ; di contro la “a” di Apollo del secondo verso è inequivocabilmente minuscola. Ritengo pertanto che questo particolare sia frutto di una “licenza” del poeta e non rappresenti una discriminante per individuare in “deo” la romana Cerere.

    Tornando per un attimo ai riscontri che la poesia sembra avere nell’Oronte, in questo per due volte si ritrova “omei” col significato di “lamenti” (I,XV, 96; III, III, 69). Potrebbe ravvisarvisi un rimando all’incipt del quinto verso “O me ome” ? E questo potrebbe intendersi come “O mi duole” , oppure “O mi lamento”?
    Per quanto, infine, concerne l’autore della poesia, lei ha sottolineato l’elevato livello cultutale che lo stesso doveva avere. Del Lenio non è da dirsi di meno. Nel suo Oronte (lo dice M. Marti nella sua presentazione del poema) sono numerosi gli echi delle opere di Lucrezio, Luciano, Apuleio, Petrarca, Ariosto, Pulci ed altri classici. Egli stesso aveva per amici e sodali Dionisio Acquosa, Girolamo Scannapieco e Gianni Anisio che facevano parte della cerchia pontaniana di Napoli.

    Purtroppo di lui ci è pervenuto solo l’Oronte, ma egli nei suoi versi si rammarica di esser dovuto scendere di livello per compiacere la sua padroncina, affermando di aver scritto in precedenza in dolce stil novo e di aver composto (verosimilmente in latino e probabilmente interrotto per metter manon all’Oronte) una Titanomachia, o Gigantomachia.
    Un cordiale saluto
    Luciano Antonazzo

  3. Condivido le sue conclusioni sulla licenza grafica, nonostante avessi notato le incongruenze da lei rilevate, “apollo” in primis; e le sono particolarmente grato perché, forse, grazie a lei, la prossima volta sarò più attento e rigoroso nel leggere. Lo faccio subito osservando che quello che avevo trascritto come “ome” deve leggersi “omè”, esclamazione, non sostantivo (il cui plurale, invece, compare, a quanto apprendo, nel Lenio) né verbo, conformemente a quanto io stesso avevo scritto nella nota n. 7. Ricambio altrettanto cordialmente il suo saluto.

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