Una “Malafemmena”, forse tarantina, ante litteram

di Armando Polito

Chi non conosce la celeberrima canzone di Totò citata nel titolo? Il tema, come può essere quello dell’amore non corrisposto o, come nel nostro caso, tradito,  è antico quanto l’umanità e, per non scomodare i lirici greci, basterà ricordare l’immortale distico di Catullo: Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris./Nescio, se fieri sentio et excrucior (Odio ed amo. Forse tu mi chiedi perché lo faccia. Non lo so, ma sento che succede e me ne tormento).

Se in Catullo il risentimento non assume le forme violente e spesso esiziali con cui il torto subito,  reale o presunto, oggi trova spesso lo sfogo che la cronaca quotidianamente registra, e la sua è, tutto sommato, una pacifica resa ad uno dei tanti tormenti della vita, nella canzone di Totò la rabbia della vendetta viene edulcorata nel periodo ipotetico (lo chiamerei dell’impossibilità consolatoria …) iniziale: Si avisse fatto a n’ato/chello ch’e fatto a mme,/st’ommo t’avesse acciso … Questa è già una confessione di debolezza per certi machi dei nostri tempi che ancora scontano (forse geneticamente, ma con questo avverbio non intendo giustificare alcunché …,) un tipo di educazione in cui il potere, compreso quello sessuale, era loro appannaggio esclusivo. Rinunziare al potere non è facile per nessuno (tanto meno per i politici che rischierebbero serie lesioni al deretano che hanno provveduto, ad elezione avvenuta, a splalmare di adesivo per restare attaccati alla poltrona; corre voce che qualcuno per occuparne più di una si sia fatto montare uno o più paia di chiappe supplementari) e così il binomio eros e thanatos (amore e morte) trova la sua rappresentazione, insieme con altre manifestazioni di violenza, nelle strade come tra le mura domestiche. Ma la sublime debolezza dell’umanità e del genio di Totò (qui non è un ossimoro …) continuano con l’eco dell’odi et amo catulliano (te voglio bene e t’odio) e del suo excrucior (nun te pozzo scurdà).

La bellezza del testo di questa canzone è tutta nella sua semplicità, che la rende universale, cioè attuale, fuori dal tempo, capace di coinvolgere, almeno finchè l’uomo avrà il coraggio di vivere da uomo, cioè amando e soffrendo ed elaborando da uomo la sua sofferenza.

Ogni poesia, comunque, è figlia del suo tempo, ma riesce ad appianare, quand’è veramente poesia, le cicatrici dei condizionamenti contingenti. Non sempre è stato così. Basti pensare, senza scomodare tanti autori contemporanei  ammiccanti più o meno spudoratamente al gusto del momento e troppo condizionati dalla temperie culturale della loro epoca, alla poesia stilnovista (peggio ancora a quella stilnovistica …). Sarebbe bello, per esempio, chiedere alla compagna (quella di turno, altrimenti si scoprono gli altarini …) di Guido Guinizelli, di Guido Cavalcanti (qualcuno dopo aver letto quanto sto per dire dirà che il cognome era tutto un programma …all’incontrario), di Lapo Gianni  (stesso rischio di prima) e di Gianni Alfani (il rischio si ripeterebbe, forse, con un occhio al presente, se il cognome fosse al singolare, ma, in fondo, neppure quello del secondo Guido lo era …), nonché del primo Dante, se veramente, intendo dire nella vita reale, era gratificante per loro essere considerate più madonne che donne, portatrici di quella contraddizione, tutta religiosa, che ancora oggi non si è completamente sanata, di una creatura (ricordo che la parola etimologicamente nasce in latino come participio futuro, tutto femminile, del verbo creare e che alla lettera significa destinata a creare) che dà la vita ma nello stesso tempo è considerata fonte di tentazione e strumento del demonio.

Lo stesso dico, e per non farla troppo lunga, ne metto in campo uno solo, di colui che era considerato il bastian contrario della corrente stilnovista: Cecco Angiolieri. Altro che donna-angelo! Sentite cosa dice della sua Becchina  nel sonetto che seguirà,  – Per forza – dirà il solito fissato con i nomi  e che crede nel detto latino omina nomina (i nomi sono presagi) pensando ad una versione femminile di quello che è da tutti considerato un ingrato mestiere o, forse peggio ancora, alla versione, sempre femminile, del cornuto, per quanto modesto, dato il diminutivo . in realtà sull’identità di questa donna , della quale si sa solo, secondo l’informazione dataci dallo stesso Cecco in un suo sonetto, che era figlia di un cuoiaio, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Cito solo le opinioni più accreditate, una volta tanto senza riferimenti bibliografici per non appesantire ulteriormente il tutto: 1) forma ipocoristica, cioè vezzeggiativa di Domenica; 2) con allusione al mestiere paterno essa sarebbe  dura pelle di becco, metafora della sua presunta durezza a concedersi; 3) scomodando sempre il becco, ma di più la beccheria, sarebbe metafora della donna che concede o, peggio, vende ad altri la sua carne; 4) sulla scorta di alcuni passi romanzi in cui becco è sinonimo di bocca qualcuno è giunto perfino ad alludere, ma senza dirlo chiaramente, ad una particolare abilità nella fellatio.

A nessuno, però, dico a nessuno, è venuto in mente che Becchina potrebbe essere nativamente diminutivo di Rebecca e che solo casualmente, ma successivamente, poteva prestarsi a qualsiasi adattamento metaforico, non escluso quello di porsi come contraltare rispetto alla Beatrice dantesca, con la quale divide i due fonemi iniziali.

È tempo ora di passare al nostro poeta tarantino (o presunto tale) ma questa lunga premessa era necessaria per anticipare che egli si colloca tra i due modelli (Stilnovisti e Cecco Angiolieri), anticipando il Petrarca, purtroppo solo nella trattazione del tema, non certo nella scioltezza, raffinatezza e  e scorrevolezza, sicché l’esito poetico ne è lontano anni luce. Seguirò lo stesso schema adottato di recente per Gugliemotto di Otranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/02/23/quel-verso-un-tantino-galeottodellotrantino-forse-guglielmotto/)

Come per quest’ultimo, il sonetto che ora esamineremo  è l’unico che ci resta e l’unico manoscritto che, fino ad ora, ce lo ha tramandato è quello più antico tra quelli citati per l’otrantino, cioè il Vaticano Barberiniano latino 3953. Seguirò la stessa procedura.

Ecco cosa si legge nella rubrica all’inizio del manoscritto:

                                   Guezolo Avocato da Taranto. 176

Come ho gia fatto per Guglielmotto, prima di passare alla poesia, riporto gli autori nei quali compare qualche notizia; il lettore noterà che sono gli stessi  che pochissimo ci hanno tramandato sull’otrantino e, lo anticipo, meno ancora sul nostro.

Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, pp. 458-459:

Leone Allacci, Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca vaticana, e Barberina, Sebastiano D’Alecci, Napoli, 1661, p. 372:

Nicolò Toppi, Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 1678, p. 191:

Giovanni Mario Crescimbeni, Comentari intorno all’istoria della volgar poesia, De’ Rossi, Roma, 1702, v. I, p. 92:

Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Agnelli, Milano, 1741, v. II, pp. 166-167:

Ecco, dalla carta 176, il sonetto con la mia lettura e a fronte le discordanze con quella dell’Allcci (A) e del Crescimbeni (C):

Su vendeta non in rima con setta tornerò alla fine. Per ora ecco la mia trascrizione in italiano più o meno corrente:

Lascio al lettore giudicare quanto sia fedele la lettura dell’Allacci rispetto all’originale e quella del Crescimbeni rispetto a quella dell’Allacci, anche se bisogna tener conto di probabili errori di composizione di stampa. Entrambi, però, secondo me, avrebbero fatto bene a riprodurre fedelmente ciò che il manoscritto offre (insomma quella che si dice edizione diplomatica), anche perché il testo ai loro tempo (e questo vale pure per il nostro) non presentava di fficoltà alcuna di traslitterazione nel linguaggio corrente, come ho dimostrato perfino io nella trascrizione che avete appena finito di leggere. Eppure a p. 70 del volume nelle avvertenze al lettore l’editore pubblicò questo stralcio di una lettera inviatagli dall’Allacci il 30 luglio 1660: Chi l’ha copiati, l’ha copiati con l’istesso tenore del parlare, l’istessa ortografia, l’istessa articolazione e per non moltiplicar parole le ha disegnati, non scritti.

Se dubbi erano rimasti circa la salentinità di Guglielmotto da alcuni sbandierata con troppa sicurezza come s’è detto nel post a lui dedicato, Guezolo mi offre l’occasione di rilevare le conclusioni cui giunse circa la sua identità ed origine Gino Lega in Il canzoniere Vaticano Barberino latino 3953, Bologna, Romagnoli-Dell’Acqua, 1905. Di seguito, da p. 206 la sua lettura del sonetto:

A p. XLII, n. 4 scrive:

Oggetto del contendere è lo scioglimento dell’abbreviazione 

che l’Allacci sciolse in Taranto, condizionato forse anche dal Guezolo Avocato da Taranto della rubrica. Io non metto in dubbio che Tar. (o Ter.) sia abbreviazione notarile di Tarvisium o Tervisium, ma questo non spiega la presenza del trattino orizzontale, che per me è una n sovrascritta, sulla r.

Che l’autore sia pugliese o veneto, interessante è la struttura del sonetto che presenta la variante (quasi anticipazione in questo del sonetto caudato del secolo XIV) del distico finale a rima baciata, mentre le quartine presentano schema AB AB AB AB e le terzine CDD DCC. Da notare vendeta non in rima con fetta, già prima notato; questo sì può essere dovuto  all’entourage veneto cui appartennero, attribuzione da tutti ora condivisa, gli amanuensi che compilarono il manoscritto e che furono almeno tre.

E se non mi è possibile congedarmi con prove inoppugnabili (ma non potevo certo esibirle io) della salentinità di Guezolo, voglio chiudere, comunque, con la stessa nota leggera con cui ho aperto sottolinendo che, in fondo, i due, Totò nei primi tre versi (Si avisse fatto a n’ato/chello ch’e fatto a mme/st’ommo t’avesse acciso), Guezolo negli ultimi due (di plu d’un milion faria vendeta/che tu ay morti per tua mala setta), affidano, rispettivamente, ad un si e ad un cum, la loro sostanziale mitezza e rendono protagonisti della loro rabbia, in una sorta di comodo esorcismo o di furbesca rimozione con successiva proiezione, un  st’ommo t’avesse acciso (ma il soggetto è un finto singolare, come il tu generico) Totò,  un di plu d’un milion faria vendeta Guezolo. Totò, tutto sommato, perdona, Guerzolo, se potesse e volesse, sarebbe il vendicatore di sè stesso  e degli altri cornuti. Ma Totò era un principe (non alludo solo al titolo …)e un poeta, Guezolo, con tutto il rispetto per la categoria, un avvocato, anche se come poeta, con tutto il rispetto per Francesco Saverio Quadrio manon per la sua opinione, non mi sento di considerarlo incolto e barbaro rimatore. E l’avrei fatto anche se ci fosse stata la certezza che Guezolo non era salentino …

 

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