Un’architettura rurale impossibile da dimenticare: lo Scrasceta. Dalle origini ai nostri giorni (II parte)

scrasceta-buona

di Marcello Gaballo

L’ingresso della villa Scrasceta è a pianta mistilinea[1] e un recente cancello a doppia anta in ferro battuto, fissato a corpose colonne in tufo[2], isola la dimora dalla pubblica via. Il portale è caratterizzato “dai notevoli effetti chiaroscurali prodotti sia dalla aggettante cornice, sovrastante da piccole lesene che sorreggono corpose basi toriche, quasi sfiancata dalla convessa piramide calcarea, sostenenti una sfera”[3].

Alcune stanze poste a sinistra dell’ingresso rimandano ad una modesta dimora per la servitù e ad una probabile rimessa per gli animali.

All’edificio principale si accede tramite un viale di una cinquantina di metri che giunge di fronte all’ingresso. Era questo fiancheggiato da busti in carparo, dapprima rimossi dai rispettivi basamenti, poi asportati da ignoti circa 30 anni fa[4]. Dovevano essere almeno otto per lato, intervallati da identici blocchi quadrangolari della medesima pietra. Così scrive a riguardo E. Mazzarella: “…Menava all’abitazione del proprietario un famoso viale con circa, ogni cinque metri, curiose statue in tufo di uomini a metà busto in atteggiamenti buffi: un portabandiera, suonatori di strumenti musicali: trombone, chitarra, mandolino, tamburo, clarinetto; altri con una botte sulle spalle, con un fucile a tracolla, con una fetta di mellone in mano, con un uccello svolazzante nella mano elevata, con un bicchiere in una mano e un orciuolo nell’altra, con una ruota tra le mani davanti al petto, in vari modi ancora. Le statue attirarono la curiosità di moltissima gente e furono dette volgarmente li pupi ti lu Scrasceta”[5].

scrasceta2

La corruzione e l’usura della pietra non hanno purtroppo concesso di riconoscere le fattezze delle insolite figure e gli strumenti da essi tenuti tra le mani. Dalle poche foto di archivio sopravvissute[6] sembra trattarsi di figure maschili orientali, a causa dei copricapi che nella maggior parte dei casi richiamano i kefiah arabi, ricadenti sulla nuca e sulle spalle. Altrettanto arduo è poter riconoscere gli strumenti musicali a corda che alcuni di essi sembrano suonare: due di essi paiono liuti arabi (ud), con la cassa armonica a mandorla, un breve manico con la paletta terminale ricurva ad angolo retto, a quattro o cinque corde[7]; un terzo sembra suonare una sorta di oboe a forma di cono (mizmar degli arabi). Più arduo è il riconoscimento dello strumento che tiene in mano la figura con le sembianze di un cinese.

pupi1

La descrizione del caratteristico prospetto principale della nostra villa è ben riportata nella citata Relazione della Soprintendenza[8]: “… Il prospetto principale che presenta un compatto paramento, a conci di pietra locale perfettamente squadrata, è sfondato al centro da profondi effetti d’ ombra che scaturiscono dalla presenza di profondi archi sovrapposti impaginati da appena accennati riquadri smussati agli angoli. A piano terra un’ arcata a sesto ribassato, dalle accentuate modanature che si avvolgono, al di sotto delle reni, in ricche volute a fogliame smosso, producenti un piacevole effetto di instabilità statica evidenziato dalla corposa trabeazione d’ imposta sostenuta, quasi a fatica, da mensole a voluta, definisce un androne rialzato dalla quasi evanescente cortina muraria in cui i vuoti delle aperture vengono rafforzati dalle cornici mistilinee”[9].

prospetto

Nello stesso androne, in corrispondenza dell’unica porta, trova posto uno scudo, sagomato secondo il gusto settecentesco, su cui doveva essere dipinto lo stemma della famiglia, sormontato da una corona con fioroni. Le ridipinture rendono assai difficile la lettura dell’elemento araldico con i due guerrieri in lotta, tipici della nobile famiglia[10]. Sembrerebbe che a seguito della scomparsa del dipinto si sia rimediato con l’applicazione di una piccola formella scolpita con l’arme, di forma rettangolare e stridente con la bellezza dello scudo, assai più ampio.

Uno degli elementi di maggiore caratterizzazione del prospetto dell’edificio è senz’altro rappresentato dall’arco mistilineo del piano nobile con la sua imponente e raffinata balaustra, che permetteva di godere della proprietà circostante. “Sostenuta da tozze mensole e ritmata dal succedersi di volute e balaustrini scolpiti a puttini”[11], conferiva particolare eleganza all’edificio, travalicando gli aspetti prettamente funzionali del sito aziendale. Certo l’insolita iconografia, con i putti che sorreggono serti di alloro o fiori, per niente richiama al contesto agreste o bucolico in cui sorge la villa, per cui non è vano ipotizzare la provenienza di quella balaustra da altri contesti. Senza trascurare la fattura, il cui stile sembra distante da quello in auge nel Settecento, richiamando invece a sculture tardo-cinquecentesche ben note in città.

particolare del balcone trafugato
particolare del balcone trafugato

In due riprese, a distanza di pochi mesi, una trentina di anni fa la balaustra fu comunque trafugata da fini intenditori, senza che nessuno abbia mai saputo l’infelice destinazione.

Stessa triste sorte è toccata alla bellissima Immacolata lapidea, “una statua devozionale di notevole fattura”[12], che trovava collocazione in una nicchia della loggia al piano nobile, questa ancora visibile, con elegante cornice modanata che mostra nella parte superiore tre teste di cherubini ed una sontuosa corona che sovrasta il tutto. Oggi restano solo delle foto d’archivio a testimoniare la bellezza dell’edificio, la cui devastazione illustra fin dove arriva l’incuria e la sfrontatezza.

Le cornici mistilinee in stucco, secondo il gusto dell’epoca, applicate attorno allo stemma, alla porta e alle due finestre del pianterreno sono riprese in maniera omogenea anche nelle porte interne del vano centrale. Quest’ultimo, a pianta rettangolare, immette in quattro ambienti circostanti e sul giardino, come ha rilevato di recente F. Fiorito[13]. Tutte le coperture dei nove vani sono coperti a volta leccese, ad eccezione del vano adibito a cucina, un tempo coperto ad incannucciata e coppi, oggi in pessimo stato. Non è dato di sapere se nell’interno vi fossero volte e pareti affrescate o dipinte, come invece avvenne per la menzionata masseria Brusca[14]. Tutti i pavimenti interni sono di cocciopesto[15] e lastricato.

 

Nardò, la trozza di Villa Scrasceta; foto di Marcello Gaballo
Nardò, la trozza di Villa Scrasceta; foto di Marcello Gaballo

Altro elemento caratterizzante della nostra residenza è senz’altro il pozzo monumentale retrostante[16], che può ritenersi un’opera scultorea a sé e che conferma la condizione agiata e il buon gusto nel commissionare la singolare scultura, che resta tra i più importanti esempi di tal genere su tutto il territorio. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo indicazioni circa l’autore, mentre è noto l’anno di costruzione, 1746, come si rileva dall’epigrafi inferiore della vera[17].

La presenza dell’impegnativo manufatto in carparo e pietra leccese, anche perché imponente nelle dimensioni, rende convenientemente dignitoso tutto il retro della villa, lasciando supporre che fosse stato realizzato in quel posto per una precisa esigenza scenografica e non solo funzionale o di arredo, a completamento del cortile e del giardino.

F. Suppressa, nel trattare dei vari sistemi di raccolta dell’elemento vitale per l’agricoltura, lo definisce a buon motivo “straordinario esempio… inserito prospettivamente nel complesso architettonico sorto attorno alla fine del Settecento per il piacere di vivere in campagna”[18]. Lo stesso, nel riprendere E. Mazzarella[19], si sofferma sulle epigrafi: “…nel timpano sorretto da possenti colonne e avvolto da sinuose decorazioni floreali, vi è incastonata un’emblematica epigrafe in latino:

NYMPHARUM LOCUS

SITIENS BIBE

LYNPHA SALUBRIS – UBERIBUS

PULCHRAE NAIADIS

ECCE FLUIT.

Ovvero “Questo è il luogo delle Ninfe, o sitibondo, bevi. Ecco qui scorre l’acqua chiara salutifera dai seni della bella Naiade”… Al di sotto della conchiglia vi è l’epigrafe PRAESENS FONS PERENNIS INCEPTUS FUIT DIE VII MARTII DCCXXXXVI (la presente fonte sorgiva fu incerta (fino al) 7 marzo 1746) e dall’altro lato, sempre al di sotto della conchiglia, AEMANAVIT AQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI (Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746)”[20].

pozzo2

G. De Pascalis ritiene il pozzo “collocato nel retroprospetto in posizione perfettamente assiale con le aperture del piano terra e con l’asse di riferimento dei viali”[21].

Certamente la sua realizzazione comportò una riqualificazione della parte retrostante dell’edificio, nel cui piccolo giardino con pergolati ed agrumi, sottoposto rispetto al cortile, sono ancora visibili tre edicole ed un pozzo di servizio.

Dunque tanti elementi architettonici ed artistici che hanno saputo coniugare l’arte con la natura, superando la monotonia del paesaggio agricolo circostante, sino a farle assumere una propria identità culturale, purtroppo oggi solo trasmissibile e parzialmente visibile.

 

Gainsborough, la passeggiata
Gainsborough, la passeggiata

[1] Cfr. S. Politano, Portali e recinti di ville nelle campagne salentine, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., pagg. 262-273; U. Gelli, Portali, pozzi, cisterne: esperienze di rilievo architettonico, ivi, pagg. 274-285.

[2] Su questa pietra, sul carparo e la pietra leccese, con cui sono realizzate le diverse parti della villa, la bibliografia è sterminata. Si vedano almeno: G. Marciano, Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli 1855; P. Cavoti, Il carparo e la pietra leccese nelle rocce salentine, Lecce 1884; C. De Giorgi, Note e ricerche sui materiali edilizi adoperati nella Provincia di Lecce, Lecce 1901, ristampa anastatica, Galatina 1981; V. G. Colaianni, Le volte leccesi, Bari 1967; F. Zezza, Le pietre da costruzione e ornamentali della Puglia. Caratteristiche sedimentologico-petrografiche, proprietà fisico-meccaniche e problemi geologico-tecnici relativi all’attività estrattiva, in «Rassegna tecnica pugliese – Continuità», anno VIII, N. 3-4, Luglio-Dicembre 1974, Bari 1974; Id., La pietra leccese, in AA.VV., La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, pagg. 155-160; M. Stella (a cura di), Le pietre da costruzione di Puglia: il tufo calcareo e la pietra leccese, Bari 1991; M. Mainardi, L’industria del cavar pietra. Le cave nel Salento, Lecce 1998; Id., Cave e Cavamonti. Documenti per una storia sociale del lavoro della pietra nella Puglia meridionale (1810/1965), Lecce 1999; D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori. Tecniche costruttive tradizionali e Magistri muratori in Terra d’Otranto dal Medioevo all’Età Moderna, Nardò 2002.

[3] Relazione della Soprintendenza, op.cit..

[4] A tal proposito si rimanda alla denuncia fatta dal circolo culturale “Nardò Nostra”, allora presieduta da chi scrive, che nel numero 7-8 (1985) del periodico locale “La voce di Nardò” chiedeva l’immediato ripristino in loco delle statue deposte dai basamenti, staccate per essere sostituite con vasi in cemento. Poco prima lo stesso giornale aveva denunciato la scomparsa di metà della balaustra.

[5] E. Mazzarella, Nardò Sacra, op.cit., pagg. 397-400.

[6] Doveroso rimandare ancora una volta al ricco corredo fotografico di Michele Onorato nel citato volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò, figg. 193-205. Il fotografo, consapevole dell’importanza del luogo e quasi presagendo il triste destino che sarebbe toccato all’immobile, ha fotografato e fatto pubblicare il suo reportage, che resta fondamentale per la memoria visiva della nostra villa.

[7] “Nel IX secolo il giurista di Baghdad “ Miwardi ” utilizzava l’oud nel trattamento delle malattie, questa idea prese piede e perdurò fino al secolo XIX , l’oud vivifica il corpo, proprio perché agisce sugli umori corporali, rimettendoli in equilibrio. È considerato terapeutico, nella sua capacità di rinvigorire e dar riposo al cuore, veniva tradizionalmente suonato anche nei campi di battaglia” (http://www.etnoarabmusic.com/2011/03/08/oud-il-sultano-degli-strumenti-arabi/).

[8] Inviata dalla Soprintendenza di Bari al Ministero per i Beni Culturali il 17 febbraio 1981 (prot. 1478), a firma del Soprintendente Arch. Riccardo Mola, per essere sottoposta a tutela ai sensi della Legge n°1089 del 1/6/1939. Il vincolo per il bene fu rilasciato con D.M. del 12/6/1981.

[9] Relazione della Soprintendenza, op. cit.

[10] L’arme della famiglia è: spaccato di azzurro e di verde, e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di mercurio del medesimo, con ali di argento e coperto da un berretto di nero.

Il motto: et pace et bello (sia in pace e sia in guerra) (M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Nardò 1996).

[11] Relazione della Soprintendenza, op. cit.

[12] Idem.

[13] F. Fiorito – M. V. Mastrangelo, Villa Scrasceta a Nardò, una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile, in “Spicilegia Sallentina”, Rivista del Caffè Letterario di Nardò, n°7.

[14] In questa sopravvive un discreto dipinto settecentesco sulla volta raffigurante La morte di Adone, sul quale ho avuto modo di descrivere come “ il taglio orizzontale e ristretto del dipinto consente al pittore di portare in primissimo piano i protagonisti dell’episodio: Adone giace inerme, con la testa riversa, fra le braccia di una addolorata Venere. Altrettanto disperati Cupido e i due amorini, che tentano invano di ferire il cinghiale, le cui sembianze erano state prese dal geloso Ares, che ha appena azzannato il giovane. Sullo sfondo un paesaggio arcadico da ricollegare al monte Idalio, nell’attuale Libano, su cui si era recato a cacciare Adone. Il mito ricorda che Zeus esaudirà le preci di Afrodite, consentendo che il giovine trascorra solo una parte dell’anno nel Tartaro, potendo risalire alla luce per il restante tempo e così unirsi alla dea della primavera e dell’amore” (M. Gaballo, Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca…, op. cit.).

[15] “la pavimentazione con cocciopesto consisteva in un primo strato composto da tufo frantumato, tufina e calce, impastato con acqua, in un secondo strato di malta grezza e in un ultimo strato di cocciopesto. Il massetto veniva

quindi cosparso di calce liquida, battuto e lucidato con cazzuola e latte di capra” (S. Galante, Materia, forma e tecniche costruttive in Terra d’Otranto. Da esperienza locale a metodologia per la conservazione, tesi di Dottorato di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici – XVIII ciclo, Università di Napoli “Federico II”).

[16] Come scrive A. Polito, trattasi di una trozza, ad estrazione manuale, mediante secchio legato ad una fune, ma con l’ausilio di una carrucola; al lemma trozza il Rohlfs: “confronta il greco antico τροχαλία2=carrucola, τροχιά3=cerchio di ruota, latino volgare *tròchia”. Rispetto al pozzo la struttura è molto più complessa e talora con pregevolissimi esiti estetici, come testimonia, per esempio, la trozza di Villa Scrasceta a Nardò.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/03/la-ngegna-forse-figlia-di-una-radice-molto-prolifica/

[17] Notevoli ci sembrano le analogie con alcune parti del bellissimo pozzo a due “vasche” ubicato nel giardino retrostante della citata villa in contrada La Riggia. La conchiglia sulla vera, le volute e gli elementi fitomorfi, la sommità dell’architrave, se non opera del medesimo autore del pozzo dello Scrasceta, possono far ritenere coeve le due singolari opere, che meritano ancora tanta attenzione da parte degli studiosi. Anche questo pozzo è stato fotografato da M. Onorato e pubblicato nel predetto volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò (fig.211).

[18] F. Suppressa, Il paesaggio dell’Arneo attraverso i segni e i luoghi dell’acqua, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/15/il-paesaggio-dellarneo-attraverso-i-segni-e-i-luoghi-dellacqua/

[19] E. Mazzarella, Nardò Sacra, op. cit., p. 399.

[20] Il pozzo è anche descritto da P. Congedo nel suo saggio Censimento di pozzi e cisterne del territorio neretino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., pagg. 289-290.

[21] G. De Pascalis, Dai trattati alle tipologie del villino rirale: modelli e simbolismi dell’abitare nel paesaggio neritino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., p.180.

Pubblicato su Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso, Ed. Fondazione Terra d’Otranto, 2015.

 

 

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