Nardò e l’oleandro

di Armando Polito

Foto tratta dall’album Porto Selvaggio: ogni commento è superfluo! di Piero Barrecchia (https://www.facebook.com/photo.php?fbid=693359537457432&set=a.693339427459443.1073742016.100003501771335&type=3&theater)
Foto tratta dall’album Porto Selvaggio: ogni commento è superfluo! di Piero Barrecchia (https://www.facebook.com/photo.php?fbid=693359537457432&set=a.693339427459443.1073742016.100003501771335&type=3&theater)

Insieme con l’olivo è l’ultima vittima (purtroppo temo che non sarà l’ultima) sacrificale della xylella fastidiosa, ammesso che sia lei la responsabile (o, più probabilmente, la corresponsabile …) della ingordigia umana che nella globalizzazione sembra aver trovato il terreno fertile per completare l’opera predatoria e distruttiva delle risorse del pianeta, vittime della cecità peggiore, quella che privilegia la vita di pochi e mette in pericolo, in ultima analisi, la stessa sopravvivenza della nostra specie.

La stessa parola biodiversità, concordemente considerata da tutti una ricchezza, rischia di vedere cambiata la sua definizione e, abbandonato il principio basilare della conoscenza e del rispetto della natura, di incarnarsi nella creazione innaturale di nuove specie grazie all’ingegneria genetica che, obbedendo al principio del tutto e subito e del profitto ad ogni costo, diventa solo una bomba ad orologeria destinata ad esplodere prima o poi, con l’irreversibile impossibilità di disinnescarla.

I nostri discendenti conosceranno, così, l’olivo e l’oleandro (e non solo …) grazie a qualche immagine e a qualche riga di testo, così come noi oggi conosciamo i dinosauri attraverso ricostruzioni virtuali; bisognerà, però, avere almeno il coraggio di ricordare che, a differenza dei dinosauri estintisi per volere della natura, l’olivo e l’oleandro si estinsero per colpa esclusiva della nostra specie.

La stessa parola perderà quella carica allusiva ed evocativa che ognuna quando è in vita trasmette anche ai più superficiali, ai meno insensibili, ai meno cerebralmente reattivi (leggi sinapsi poco allenate …), seguendo in questo l’amaro destino di tutte quelle che, pur in uso, indicano qualcosa che non esiste più. Sperando di non essere stato profetico, cerco di chiarire concretamente il concetto, cominciando da ciò che, pur nella sua precisione, più arido non può apparire: la scheda botanica.

Nome scientifico: Nerium oleander L., 1753

Famiglia: Apocynaceae

Nome italiano: Oleandro, Leandro, Mazza di San Giuseppe, Ammazza l’asino, Erba da rogna

Sarà meno arido il suo commento?

Comincio dalla nomenclatura binomia di Linneo risalente al 1753 e tuttora valida. Nerium è tratto da Plinio (I secolo d. C.), Naturalis Historia, XVI, 44:  Rhododendron, ut nomine apparet, a Graecis venit. Alii nerium vocarunt, alii rhododaphnen, sempiternum fronde, rosae similitudine, caulibus fruticosum. Iumentis capriaque et ovibus venenum est. Idem homini contra serpentium venena remedio (Rododendro, come si vede dal nome1, viene dai Greci. Alcuni l’hanno chiamato nerio, altri rododafne2: non perde mai le foglie, somiglia alla rosa, è cespuglioso. È veleno per i giumenti, per le capre e per le pecore. Lo stesso all’uomo è rimedio contro il veleno dei serpenti).

Più estesa è la testimonianza, per il mondo greco, del contemporaneo  Dioscoride, De materia medica, IV, 81: Νήριον· οἱ δὲ ῥοδόδενδρον, οἱ δὲ ῥοδοδάφνη καλοῦσι. Γνώριμος θάμνος, ἀμυγδαλῆς μακρότερα καὶ παχύτερα καὶ τραχύτερα τὰ φύλλα ἔχων, τὸ δὲ ἄνθος ῥοδοειδές, καρπὸν ὡς χέρας, ἀνεῳγμένον πλήρη ἐριώδους φύσεως, ὁμοίας τοῖς ἀκανθίνοις πάπποις· ῥίζα δὲ ἄποξυς καὶ μακρά, γευσαμένῳ ἀλμυρά· φύεται ἐν παραδείσοις καὶ παραταλοσσίοις τόποις καὶ παραποταμίοις. Δύναμιν δὲ ἔχει τὸ ἄνθος καὶ τὰ φύλλα κυνῶν μὲν καὶ ὄνων καὶ ἡμιόνων καὶ τῶν πλείστων τετραπόδων φθαρτικὴν, ἀθρώπων δὲ σῳστικήν, πινόμενα σὺν οἴνῳ πρὸς θηρίων δήγματα καὶ μᾶλλον εἰ πηγάνου τι παραμίξειας. Τὰ δὲ ἀσθενέστερα τῶν ζῳων ὡς αἴγες καὶ πρόβατα, κἂν τὸ ἀπρόβρεγμα αὺτῶν πίῃ, ἀποθνῄσκει (Nerion: alcuni lo chiamano rododendro, altri rododafne. Arbusto ben  noto, che ha le foglie più grandi e più ruvide di quella del mandorlo, il fiore roseo, un frutto come un corno allungato pieno di una sostanza lanosa simile al pappo delle spine, una radice aguzza e grande, di sapore salato; nasce nei parchi4 e nei luoghi vicini al mare e ai fiumi. Il fiore e le foglie hanno effetti mortali su cani, muli e molti quadrupedi, giovano agli uomini bevute con vino contro i morsi delle bestie e di più se mischiate con ruta. I più deboli tra gli animali, come capre e pecore muoiono anche se bevono acqua in cui (fiore e foglie) sono stati immersi).

La velenosità dell’oleandro è fonte di ispirazione per il capitolo XVII di Lucius sive asinus (in greco, nonostante il titolo latino con cui viene citato), un romanzo erotico attribuito per lungo tempo a Luciano di Samosatra (II secolo d. C.) ma oggi considerato apocrifo: … τὰ δὲ ῥόδα ἐκεῖνα οὐκ ἦν ῥόδα ἀληθινά, τὰ δ᾽ ἦν ἐκ τῆς ἀγρίας δάφνης φυόμενα· ῥοδοδάφνην αὐτὰ καλοῦσιν ἄνθρωποι, κακὸν ἄριστον ὄνῳ τοῦτο παντὶ καὶ ἵππῳ · φασὶ γὰρ τὸν φαγόντα ἀποθνήισκειν αὐτίκα (Quelle rose non erano vere rose ma fiori sbocciati da un alloro selvatico; gli uomini lo chiamano rododafne, cibo cattivo, questo,  per ogni asino e cavallo; dicono infatti che quello che se ne ciba muore immediatamente). Il narrante è un asino ex-uomo alla ricerca di rose, l’unico cibo che gli consentirà di tornare uomo.

Allo Pseudo Luciano si rifà il contemporaneo Apuleio, Metamorfosi, IV, 2-3: Ergo igitur cum in isto cogitationis salo fluctuarem, aliquanto longius video frondosi nemoris convallem umbrosam, cuius inter varias herbulas et laetissima virecta fulgentium rosarum mineus color renidebat. Iamque apud mea non usquequaque ferina praecordia Veneris et Gratiarum lucum illum arbitrabar, cuius inter opaca secreta floris genialis regius nitor relucebat. Tunc invocato hilaro atque prospero Eventu cursu me concito proripio, ut hercule ipse sentirem non asinum me verum etiam equum currulem nimio velocitatis effectum. Sed agilis atque praeclarus ille conatus fortunae meae scaevitatem anteire non potuit. Iam enim loco proximus non illas rosas teneras et amoenas, madidas divini roris et nectaris, quas rubi felices beatae spinae generant, ac ne convallem quidem usquam nisi tantum ripae fluvialis marginem densis arboribus septam video. Hae arbores in lauri faciem prolixe foliatae pariunt in <odori> modum floris [inodori] porrectos caliculos modice punicantes, quos equidem fraglantis minime rurestri vocabulo vulgus indoctum rosas laureas appellant quarumque cuncto pecori cibus letalis est. (Mentre dunque fluttuavo in questo mare di pensieri vedo al quanto lontana l’ombrosa valle di un fitto bosco tra le cui svariate erbe e la foltissima vegetazione risplendeva il colore vermiglio di splendenti rose. E già nel mio intimo non ancora completamente ferino credevo che quello fosse il bosco sacro a Venere e alle Grazie, nei cui oscuri recessi splendeva il regale fulgore del fiore delle due dee. Allora, dopo aver invocato l’allegro e propizio Evento [un dio], mi lancio in una folle corsa, tanto che, per Ercole!, mi sentivo non un asino ma un cavallo da corsa lanciato a folle velocità. Ma quello sforzo agile e spettacolare non potè ovviare all’avversità del mio destino. Infatti giunto sul posto non vidi quelle rose delicate e belle, madide di divina rugiada e nettare, quelle che i rovi dalla feconda spina generano, e neppure la valle ma solo la riva di un fiume cinta di fitti alberi. Questi alberi dall’aspetto di alloro dalle lunghe foglie  generano piccoli calici rosso pallido dal fiore senza odore nonostante ne abbia l’aspetto, che il popolo ignorante con parola contadina chiama rose d’alloro3 e sono letali per il bestiame che se ne ciba).

Molto probabilmente è lo stesso albero di cui un secolo prima aveva parlato Strabone, Geographia, XV, 2, 7: Ἦν δέ τι ὅμοιον τῇδάφνῃ φυτόν, οὗτὸ γευσάμενοντῶν ὑποζυγίων ἀπέθνησκε μετὰ ἐπιληψίας καὶ ἀφροῦ (Vi [in Gedrosia, antica regione dell’India] era un albero simile all’alloro e quella bestia da soma che se ne fosse nutrita moriva di epilessia e schiuma alla bocca).

Riservando alla fine le restanti riflessioni su Nerium, passo ad Oleander. Si tratta di formazione latina moderna modellata da Linneo (uno svedese!) sull’italiano oleandro, la cui storia è piuttosto lunga. Esso, infatti, è figlio di un lorandrum attestato da Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo), Etymologiae, XVII, 56: Rhododendron, quod corrupte vulgo lorandrum vocatur, quod sit foliis lauri similibus, flore ut rosa. Arbor venenata: interficit enim animalia, et medetur serpentium vexationes (Il rododendro che con deformazione popolare è chiamato lorandro poiché nelle foglie è simile all’alloro, nel fiore è come la rosa. Albero velenoso: infatti uccide gli animali e cura i morsi dei serpenti).

Insomma la somiglianza (che io non trovo neppure tanto spinta …) delle sue foglie a quelle dell’alloro sembrerebbe aver propiziato il passaggio del primo segmento (rodo-)  di rododendro a lorandro, in cui, togliendo –andro mi rimane lor– che foneticamente è vicino al latino laurus, dal quale, poi, deriva il nostro lauro. E alloro? Paradossalmente proprio la forma più usata è frutto di un errore, nel senso che deriva dalla locuzione latina (il)la(m) lauru(m)>la lauru>l’alauru (errata concrezione della –a dell’articolo)>l’alloro>alloro.

Il nome della famiglia,  Apocynaceae, è forma aggettivale da Apocynum, a sua volta trascrizione del greco ἀπόκυνον (leggi apòchiunon)=apocino,formato da ἀπό (leggi apò) =lontano da+κύων (leggi chiùon)=cane; alla lettera: (pianta) da cui tener lontani i cani o, più probabilmente, pianta efficace contro il morso dei cani.

Passo ai nomi italiani registrati nella scheda. Di oleandro ho già detto. Leandro deriva da oleandro per aferesi, anche qui indotta con un meccanismo simile ma inverso rispetto a quello già visto per lauro/alloro: l’oleandro>lo leandro>leandro. Mazza di San Giuseppe si rifà ad un racconto dei vangeli apocrifi (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/14/la-mazza-ti-san-giseppu-ovvero-la-malvarosa-il-malvone-il-rosone/ e, per la confusione dell’oleandro con la malvarosa, ivi la nota 2). Ammazza l’asino sembra contenere il ricordo di quanto abbiamo letto negli autori precedenti e in particolare, per quanto riguarda l’asino, nello Pseudo Luciano e in Apuleio. Erba da rogna per la sua efficacia contro alcune malattie della pelle ed in particolare la rogna (per chi vuole approfondire è suffciente andare alle pp. 426-428 del libro consultabile in  https://books.google.it/books?id=pghfAAAAcAAJ&pg=PA427&dq=oleandro+scabbia&hl=it&sa=X&ei=PQVmVa3XKcy7sQHZ_oGIAQ&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=oleandro%20scabbia&f=false).

Chi non si è dimenticato del titolo mi chiederà: -E Nardò?-. Per arrivare a Nardò, però, è indispensabile fare un passo indietro (ben diverso da quello, a parole, cui ci hanno abituato i politici …), cioè tornare al nèrium di Plinio o, è lo stesso, al νήριον (leggi nèrion) di Dioscoride, voci certamente nate molto prima che i due autori, quasi contemporanei, ce le trasmettessero.

La predilezione della nostra essenza per i luoghi umidi o, comunque, vicini al mare o ai fiumi ricordata da Dioscoride accomunerebbe la voce nèrium/νήριον ad altre che secondo gli studiosi si collegherebbero con la radice preindoeuropea nar-/ner=corso d’acqua. Di seguito riporto le più significative nell’attuale forma, laddove sopravvissute, con una sinteticissima ricostruzione del loro passato:

Nera: fiume che nasce nelle Marche, scorre in Umbria ed è il principale affluente del Tevere. Nera è deformazione dal latino Nare(m), accusativo di Nar/Naris.

Narni: comune in provincia di Terni, situato su uno sperone che domina il fiume Nera. Narni è dal latino Narnia(m), accusativo di Narnia, a sua volta derivato dal precedente Nar/Naris.

Nerèo: dio marino della mitologia greca, padre delle Nereidi. Nerèo è dal greco Νηρεύς (leggi Nerèus).

Nel greco moderno acqua è νερό (leggi nerò), connessa con le voci classiche ναρός [(leggi naròs)=scorrevole, liquido] e, ancor più strettamente, con νερόν (leggi neròn)=acqua fresca, entrambe da νάω (leggi nao)=scorrere.

L’ipotesi etimologica attualmente più accreditata5 per Nardò è che anche il suo nome rientri in quest’elenco, complice una falda freatica in molti punti molto superficiale e la nota connessa, bestiale (nel senso colloquiale di bellissima …)  leggenda del toro che raspando con la zampa fece zampillare l’acqua, per cui fu lui, in pratica, a determinare dove la città doveva essere fondata.

__________

1 Composto da ῤόδον (leggi rodon)=rosa+δένδρον (leggi dendron)=albero.

2 Composto da ῤόδον (leggi rodon)=rosa+δάϕνη (leggi dafne)=alloro.

3 Corrisponde al greco ῤοδοδάϕνη (leggi rhododaphne), per cui vedi la nota precedente.

4 La traduzione dell’originale παραδείσοις (leggi paradèisois) con parchi non è una forzatura indotta dalla foto di testa … la parola ha come primo significato proprio quello di parco, poi di giardino e di frutteto e, infine, di Paradiso terrestre e di Paradiso (la derivazione di Paradiso dalla voce greca è di un’evidenza assoluta).

5 Le ipotesi prima circolanti (in cui la mancata citazione della fonte primaria che non sia un manoscritto di anonimo è la regola …) erano quelle riportate da Luigi Tasselli in Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693, p. 214 (https://books.google.it/books?id=n5YKJvt0_noC&printsec=frontcover&dq=luigi+tasselli&hl=it&sa=X&ei=MgJvVd2NLornygPNmoHABw&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=nard%C3%B2&f=false):

 

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2 Commenti a Nardò e l’oleandro

  1. E i due stemmi cittadini rendono bello pensarlo, anche se il solito pignolo dirà che si tratta di una pura coincidenza …

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