L’esiliato dei Pazzi: un libro di Antonio Errico

errico

di Pier Paolo Tarsi

 

Una poesia è tale quando nulla, nemmeno un silenzio, una pausa, possono essere tolte, e null’altro, non una virgola, una parola o un solo concetto possono essere aggiunti: cosa dire di ulteriore rispetto a quanto contenuto nelle pagine di questo libro senza far loro torto? Cosa, in quelle righe, potrebbe risultare superfluo o perfettibile? Per trarmi fuori da questa forma di imbarazzo che solo la letteratura autentica pone, mi limiterò a suggerire una modalità di approccio che mi auguro sia rispettosa della natura più intima di questa fatica di Antonio Errico.

Il primo elemento che suggerisco è un invito a non considerare questo libro solo un romanzo storico, come è scritto in retrocopertina, e nemmeno propriamente solo come un romanzo, come scritto invece in copertina. È certamente l’uno e l’altro, ma il libro non è affatto ricompreso in tali definizioni.

È tale, perché del romanzo storico ha tutti i tratti, la precisione del dettaglio storiografico o la verosimiglianza sia rispetto ad alcune vicende del rinascimento fiorentino sia rispetto a fatti e personaggi storici della fine del XV secolo salentino, alla vigilia cioè della presa di Otranto da parte dei turchi; del romanzo in genere ha poi una struttura narrativa, una trama che appassiona, un intreccio che crea suspense, uno svolgimento. Anzi, ne ha più d’uno: da una parte è infatti il racconto di vicende reali connesse alla celebre congiura dei Pazzi che coinvolse in prima persona il protagonista, l’io narrante, ma dall’altra è la traccia di un flusso di coscienza in divenire, la storia e la testimonianza del percorso soggettivo di sofferenza e rinascita di un uomo condannato ingiustamente all’esilio da colui che era stato suo intimo amico e signore, Lorenzo de Medici, il Nobilissimo signore a cui si rivolge l’io narrante con una formula di deferenza che apre la maggioranza dei capitoli, il destinatario per il quale il protagonista scrive.

Ma non è tutto, anzi, vorrei dire, non è nemmeno l’essenziale di questo libro ciò che quelle definizioni – romanzo, romanzo storico – colgono. Troverà infatti il lettore in queste pagine un denso breviario meditativo, un tormentato diario filosofico sul vivere, ossia la testimonianza di un dialogare interiore sull’esistenza che rievoca nello spirito le Confessioni di un Agostino o i Pensieri di un Pascal, lo svolgimento sofferto di un percorso esistenziale che l’io narrante condurrà a partire proprio dalle cose e dalle persone che incontrerà nella terra in cui si ritrova esiliato, a partire dunque dallo slancio che l’incontro con la Terra d’Otranto produrrà in questo agiato fiorentino del Quattrocento caduto in disgrazia.

E vi troverà ancora e soprattutto il lettore di questo libro uno sguardo da poeta con cui contemplare ciò che ci circonda, assaporarlo; troverà un modo non retorico per guardare a ciò che questa terra di indicibile gli mette quotidianamente sotto gli occhi assuefatti, annebbiati dalle faccende in cui siamo tutti immersi. Vi troverà gli elementi più sfuggenti e più preziosi che ancora, nonostante tutto, caratterizzano il luogo in cui viviamo, un luogo che l’Esiliato definisce efficacemente Santuario e Bordello, ossia un misterioso, paradossale e antinomico coesistere di contrari che solo qui sembra riescano a tollerarsi l’un l’altro, a convivere, inspiegabilmente: il coesistere di emozione e ragione, il coesistere di follia e senno, il coesistere dell’amarezza e della dolcezza, dell’immobilità e dello scorrere della vita, il coesistere di un corteo funebre e di un corteo carnevalesco. Vi troverà ancora tratteggiato perfettamente il silenzio impenetrabile tipico del Salento che Errico riesce a rendere con la scrittura un oggetto palpabile, sensibile, ascoltabile; vi troverà la descrizione delle sue ombre, della luce particolare che qui emana, della qualità specifica dello scorrere del tempo; vi troverà un modo di guardare con stupore al cielo, al mare, alla natura delle pietre e della terra di questo luogo. Di fronte a tutto ciò, che pure è già qui e ora sotto i suoi occhi, il lettore vi si troverà soprattutto con l’incanto della prima volta, con la meraviglia dello straniero che tutto ciò non ha mai potuto mirare prima. Ecco perché al principio di questa pagina ho scomodato la parola poesia, cioè sguardo capace di squarciare l’apparente banalità per trovarvi l’incanto, sguardo che permette di sottrarsi allo stordimento tipico del fluire della vita, quell’accecamento per cui non siamo più in grado di guardare la straordinarietà di ciò che è intorno, ciò che essendo sempre lì accanto scivola nell’invisibile. Questo libro è dunque un denso trattato poetico sull’arte del saper vivere, un manuale filosofico per imparare a cogliere il momento, ad aprirsi a questo svelamento autentico del terribile splendore delle cose che sono sempre intorno. E della poesia queste pagine non hanno solo lo sguardo, la forza più profonda, hanno anche il ritmo, la cadenza, lo spessore densissimo delle parole, ognuna scelta accuratamente e pazientemente per tessere frasi e ricamare periodi intorno a pensieri talvolta profondi come abissi, vere e proprie sentenze filosofiche a cui accostarsi necessariamente con lentezza, prendendosi cioè tutto il tempo che occorre per comprendere le cose di cui si parla, l’essenziale, come lo chiama l’Esiliato. Ecco allora l’ultimo suggerimento sul modo di accostarsi al libro: leggerlo con lentezza estrema, la struttura stessa del testo – composto di piccolissimi capitoli di due, tre, a volte persino una pagina – invita a gustare l’opera senza fretta: poche pagine al giorno, anche una soltanto, cogliendo però ognuna esattamente come dovremmo imparare a fare con gli attimi dell’esperienza che ci è dato vivere.

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