Dipingere il traffico per esorcizzare il caos. Intervista a Stefano Bergamo

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di Gianluca Fedele

 

L’arte mi appassiona perché sa ancora farmi sorprendere laddove tutto il resto delle cose mi annoia e delude. Le opere di Stefano Bergamo incarnano molto bene questa filosofia poiché “incrociandole” si può avere, è proprio il caso di dirlo, come un piacevole trasalimento. Le prime immagini da lui prodotte le ho osservate sorseggiando un Mojito nel bar della piazza principale di Leverano (LE). Qualche tempo più tardi, chiedendo un po’ di informazioni ad amici, siamo giunti a fissare l’appuntamento per questa intervista.

Raggiungo l’artista all’interno del cortile di un altro bar dove attualmente è impegnato nella realizzazione di un grande murales nel quale viene rappresentato un tamponamento a catena di veicoli anni ’40 e ’50, tipici del suo stile.

Stefano è molto loquace; un paio di caffè e stiamo già chiacchierando.

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D.:

È la prima volta che incontro uno “Street artist” e devo ammettere che l’allegria  è la prima travolgente sensazione. Mi sorprendono a questo punto i tuoi studi universitari che, per quanto mi è dato di sapere, sottintenderebbero ben altre vocazioni: come hai conciliato la laure in economia con l’arte urbana?

R.:

Intanto vorrei precisare che la mia specializzazione post laurea riguarda la “Gestione, Conservazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico”, questo la dice lunga sulla vera e forte inclinazione artistica. Teoricamente quindi sarei un manager culturale ma nella realtà dei fatti ho lasciato che fossero altre passioni a prendere il sopravvento nella vita.

L’attrattiva per il disegno l’ho sempre avuta ma sicuramente coltivata durante le scuole superiori, quando frequentavo l’Istituto Tecnico Industriale; anche qui, a dispetto delle nozioni di geometria studiate, la grafica con la quale attualmente rappresento le auto nel mio traffico è totalmente sganciata da canoni assonometrici e regole prospettiche.

Il master nel ramo del merchandising, invece, mi è stato indispensabile per studiare le criticità di questo atipico mercato e concepire un genere di linguaggio più consono anche alla fruizione del pubblico.

È importante infatti che alcuni messaggi arrivino diretti all’obbiettivo.

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D.:

Quali aspetti della comunicazione massiva si presterebbero alla delicatezza dell’arte?

R.:

Fondamentalmente sono attratto in maniera viscerale dalla pubblicità e da tutto ciò che è comunicazione visiva. L’uomo del nostro tempo è a dir poco dominato dagli spot che lo bombardano da ogni direzione; in tutto ciò l’aspetto che da sempre mi incuriosisce è il modo in cui una frase, un’immagine, un suono possano condizionare il consumatore tanto da indurlo all’acquisto del prodotto.

Poi, come è noto, ci sono delle indecenze anche tra le réclame ma io resto concentrato su quelle piccole opere d’arte che dal tempo del Carosello hanno affinato tecniche e modi di comunicare utilizzando colore, gestualità e soprattutto psicologia.

 

D.:

Possiamo dire che combatti il consumismo con le sue stesse armi?

R.:

Certamente mi avvalgo delle mie conoscenze in materia per evidenziare le gravi criticità di quest’epoca e del mondo caotico che ci circonda dove la televisione, con i suoi programmi di scarsa qualità, abbassano il livello medio culturale.

In questo scenario fatto di modelli precari, di personaggi “usa e getta” e di sentimenti a buon mercato, il paradosso sta nel fatto che alcuni stacchi pubblicitari siano talvolta più “impegnati” e interessanti rispetto al programma televisivo stesso che sponsorizzano. Oltre che indispensabili al commercio e alla libera concorrenza.

L’opera che mi prefiggo è quella di provocare nella mente dell’osservatore, tramite le raffigurazioni, pensieri di rottura rispetto allo standard e alla massificazione dilagante.

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D.:

Anche se qualcuno colloca le tue opere in un contesto di postmodernismo io viceversa trovo lo stile più da Pop art. Tu in quale corrente ti rivedi?

R.:

Il mio stile trae indiscutibilmente linfa dai favolosi anni ’70 e lo possiamo leggere non solo nei vivaci colori ma anche nella scelta non casuale dei modelli di veicoli utilizzati in questi ingorghi urbani: dalla autoctona Fiat 500 fino al Maggiolone Volkswagen, passando per la Citroën 2CV e il furgoncino Transporter. Quest’ultimo veicolo in particolare ricorre spesso quale simbolo degli hippie e conseguentemente anche dello storico concerto di Woodstock del 1969.

Negli incidenti che dipingo qualcuno ci ha visto dei presagi funesti ma in realtà sono tutt’altro che sinistri: la rottura che intendo concepire è simbolica e catartica rispetto al caos quasi claustrofobico che ci circonda quotidianamente. L’idea è quella di frantumare l’ingorgo per creare nuovi spazi di manovra intorno a noi ma anche e soprattutto dentro di noi.

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D.:

Quell’ingorgo di cui parli è legato anche alla crisi della creatività?

R.:

Indubbiamente la crisi economica che stiamo attraversando si riflette su moltissimi altri aspetti e quello creativo è uno di questi. Oggi persino i designer dei grandi marchi – dall’arredamento alla moda – si ritrovano a scandagliare i mercatini dell’antiquariato con l’aspettativa di individuare oggetti del passato dai quali trarre ispirazione o addirittura per rivisitarli con materiali contemporanei e tecnologie al passo coi tempi. Non meraviglia quindi che siano proprio gli articoli degli anni ’60 e ’70 ad affascinare creativi e non. Tra tanti esempi mi vengono in mente i frigoriferi bombati, da qualche anno riscoperti, oppure aziende automobilistiche che per ritornare in auge, e ad avere quindi successo nelle vendite, hanno dovuto riesumare vecchi stereotipi a discapito di un “moderno” nato vecchio. In fondo ciò che ha contraddistinto quel periodo è stato proprio il desiderio di libertà e la sensazione che da quel momento in poi tutto ciò che di bello poteva essere immaginato poteva anche essere realizzato. Un ottimismo che persino il mondo della musica ha saputo registrare sia con le note ché con la grafica di certe copertine.

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D.:

Ti piacerebbe cimentarti nella realizzazione dell’immagine di copertina di un album musicale ?

R.:

Senza dubbio, si! Sono letteralmente folgorato dalla psichedelia delle copertine dei grandi gruppi storici come Pink Floyd, Genesis, e King Crimson. Oggi la ritrovo, in particolare, in quelle dei Radiohead.

Quelle raffigurazioni sono dei piccoli capolavori, formato tascabile, che non rimangono confinati a se stessi ma possono essere fruiti da chiunque. E poi c’è l’aspetto importante dell’interazione tra musica e grafica che, se vogliamo, permette di percepire il suono anche con la vista.

 

D.:

Come si potrebbe rigenerare la creatività?

R.:

Sono convinto che alla base del cambiamento ci siano sempre i bambini e loro soltanto, con la totale e innocente assenza di inibizioni, posseggono la chiave per percepire il mondo in maniera più giusta.

Durante un lavoro svolto in una scuola ho avuto modo di valutare personalmente, tramite disegni e colori, come la creatività dei più piccoli sia veramente libera. Col tempo, purtroppo, in molti casi questa dote innata va scemando. Già negli istituti dell’infanzia noi adulti gli tarpiamo le ali della libera creatività omologandoli, indottrinandoli a uso e consumo della società cosiddetta “civilizzata”, formando piccoli moralisti che crescendo contribuiranno solo a rendere più grigio il luogo in cui vivranno.

Adoro i bimbi e li prediligo a chiunque altro come osservatori della mia arte; le reazioni spontanee che hanno di fronte alle opere sono ciò che più si avvicina al mio obiettivo.

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D.:

A questo proposito ho visto delle tue installazioni in cui hai utilizzato anche delle macchinine giocattolo. I bambini con quali occhi le guardano?

R.:

Quando realizzo gli incroci miniaturizzati i bambini sono presenti con tutta la curiosità che posseggono e mi ronzano attorno nell’attesa che il lavoro sia terminato in modo da poter usufruire di quelle piste che ai loro occhi altro non sono che semplici giochi per socializzare. Siamo noi adulti che lo abbiamo scordato nell’attimo in cui ci hanno interrogati dicendo: “non cresci mai?”.

Talvolta, tra le confluenze d’auto, introduco persino animali che possono essere da cortile ma anche di bosco o addirittura improbabili dinosauri e mi diverto così a osservare le reazioni degli spettatori.

Questo genere è nato all’interno di un concorso d’arte a Rieti – dove si trova la galleria che si occupa delle mie opere – giocando, appunto, con la differente accezione del termine incrocio. Quest’ultimo viene inteso non solo come intersezione stradale ma anche come contaminazione di vite umane o gruppi di persone che attraversandosi devono necessariamente scambiarsi giudizi, opinioni e concetti.

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D.:

Perché proprio Rieti?

R.:

Ho partecipato ad eventi organizzati da diverse gallerie in giro per l’Italia ma con Studio7 Arte Contemporanea e la sua responsabile, Barbara Pavan, ho intrapreso un rapporto differente sia per la stima reciproca sia per il luogo geografico in cui si trova. Il parco naturale della Sabina, infatti, avendo una storia particolare fatta di razzie e innumerevoli scorribande, viene ancora oggi difeso dai suoi abitanti dall’eccessivo flusso turistico proveniente dalla capitale.

Questo particolare aspetto, che si ripercuote nello sviluppo economico e sociale, e conseguentemente sul mondo dell’arte, ha indotto la gallerista ha sviluppare nuove strategie di comunicazione per far si che fossero gli interessati a muoversi verso le opere e verso gli artisti e non il contrario. Ho subito abbracciato la causa.

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D.:

Sono utili i servizi delle gallerie per promuovere gli artisti?

R.:

Per quella che è la mia esperienza posso ritenermi fortunato poiché molte pinacoteche gettonate oggi puntano poco sugli artisti emergenti e non è certamente un bene. Inoltre si diffonde sempre più l’utilizzo dell’arte come mezzo di ostentazione di un fasullo stato sociale; nasce così la pratica dell’affitto di capolavori dei grandi maestri al fine di sfoggiarli all’occorrenza, e solo durante affollati ricevimenti.

 

D.:

Quali sono i maestri dell’arte ai quali ti senti più vicino?

R.:

Sono tanti gli artisti dai quali ho cercato di carpire qualcosa e per ognuno vi è un aspetto differente ma a Jean Michel Basquiat ho riservato un posto speciale non solo per la sua travagliata vicenda umana ma soprattutto per quel suo stile inconfondibile, al limite del graffitismo primitivo. Tra gli artisti della Pop art che preferisco figurano Andy Warhol e Keith Haring ma più di tutti Mario Schifano che nella Roma degli anni ’60 aveva creato una pagina di storia importate insieme ai compagni della Scuola di piazza del Popolo. E poi adoro quasi tutti i grandi espressionisti del passato: da Pollock per la gestualità e la forza a Mark Rothko per quelle grandi campiture di colore con le quali sperimentava non tanto le forme quanto agli stati d’animo.

Tra gli artisti contemporanei, invece, non si può non considerare Banksy.

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D.:

Quanto conta per te la sperimentazione?

R.:

La sperimentazione conta molto! Intanto perché mi permette di non limitarmi nell’uso della materia, sia come supporto che come strumenti di realizzazione. Da qualche tempo mi riesce difficile creare le mie opere su degli spazi particolarmente limitati quali possono essere le tele e per questa ragione mi trovo costretto a ricercare perlopiù grandi pareti per esprimermi.

Qui mi riallaccio all’aspetto dell’osservazione delle reazioni di fronte all’opera, che vale per i bambini ma vale ancora di più per gli adulti; mi piace infatti pregustare il momento in cui l’occhio del recettore, non ancora preparato, si ritrova in pochi attimi a contatto con un disegno realistico.

L’esperimento è talvolta esilarante.

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D.:

Come giudichi i ragazzi che imbrattano muri privati o gli edifici storici?

R.:

I ragazzi, a giusta ragione, hanno sempre qualche messaggio da urlare per difendere la libertà di espressione e il loro futuro ma è un controsenso che a pagarne le conseguenze siano proprio i luoghi che simboleggiano il territorio in cui vivono. Vediamo ad esempio le mura di Lecce tempestate di stencil riportanti la scritta “No Tap” che, per quanto condivisibile sia il proposito, questo genere di protesta è al limite dell’inciviltà.

Invidio invece la capacità di certi Street artist di decorare intere facciate di palazzi ma quello è un altro discorso estraneo al vandalismo e che può avvenire soltanto in sinergia coi privati o con le amministrazioni.

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D.:

In che modo si potrebbero migliorare le città con la Street art?

R.:

Una sola parola: colore!

La politica spesso pecca di distrazione mantenendo in stato di abbandono luoghi pubblici che ingrigendo rattristiscono anche il decoro urbano, quando invece si potrebbero tranquillamente affidare a giovani artisti gli spazi verdi e le strutture in disuso per rivalutarle e offrire così doppio servizio alla collettività. E ai ragazzi, se bene indirizzati, non manca certo l’inventiva.

Il Salento poi non è fatto di grandi metropoli ma di città e borghi che sono già “a dimensione d’uomo”. Dovremmo uscire da questo caos colorato nel quale ci siamo imbottigliati e ricominciare a guardare i fiori.

 

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