Io sono greco…

je suis

di Paolo Vincenti

 

 “I am Elivis Presly / I am a macho man  / Sono Napoleone  /Io sono un’impressione  / Io sono un super deejay  /Yo soy el matador  /Yo soy marinero  /Yo soy el capitan  /I am dynamite  /I am wrong, I am right  /Sono disorientato  /I am looking for love  /I am Frank Sinatra  /I am Spiderman  /Ich bin der Kommissar  /I do the best I can”  –   La medicina    Jovanotti

 

In seguito ai fatti di cronaca internazionale di queste ultime settimane, agli attentati di Parigi e alla conseguente scomposta reazione dell’Europa di fronte all’ennesimo rigurgito di intolleranza religiosa e fanatismo omicida, abbiamo sentito sui mezzi di informazione commenti di ogni tipo, affermazioni schizofreniche e deliranti, prese di distanza, acute analisi politiche e filosofiche insieme a grossolane rivendicazioni di appartenenza.  È Il villaggio globale massmediatico, che ci rulla ogni giorno nelle orecchie. In particolare, abbiamo letto quelle sdilinquite e retoriche espressioni di solidarietà globale che, trasformate in slogans, fanno presto a diventare merchandising. E via dunque con i vari Je suis Charlie, Je suis Ahmed, ecc.  Come sovente accade, si è allestito un grande circo in cui tanti, rispolverando la teoria dello scontro di civiltà,  ballavano una pericolosa danza con i fantasmi del passato. Da “Io sono Malala”, il libro di Christina Lamb e Malala Yousafzai, sulla ragazzina pakistana vincitrice del Nobel per la Pace 2014, tutte queste espressioni di identificazione con l’altro, si rifanno alla celebre frase, “Ich bin ein Berliner”, pronunciata da J.F. Kennedy nel 1963 a Berlino che però, sebbene fosse un capolavoro di retorica, cadeva in un contesto storico completamente diverso.

Comunque, sull’onda emotiva del dibattito ideologico apertosi, anch’io ho provato a fermare su un foglio bianco una personale presa di posizione, una mia testimonianza di impegno civile, oggi che quel muro nella città in cui il Presidente Kennedy parlava cinquant’anni fa, è crollato. Ci ho rimurginato a lungo ma non mi riusciva di scrivere alcunché. “ Io sono… Io sono …”. Ho provato più volte, ma dopo il pronome personale e il verbo mi uscivano solo i puntini di sospensione.

A proposito, pare che nel linguaggio 2.0 , quello dei social network e dei telefonini, i puntini di sospensione siano i più usati fra i segni di interpunzione, anche se ne servirebbero tre ma alcuni ne mettono due e altri dieci. Tutto ciò, al netto degli acronimi e delle sigle che sono usati soprattutto dai giovanissimi e dei tantissimi strafalcioni o solecismi che ormai sono entrati nel linguaggio comune, come per esempio, la x al posto di “per”, o la k (e non sembri una facezia ricordare il noto detto “per un punto Martin perse la cappa”) al posto di “chi” o “che”. L’altro giorno ho scoperto (o dovrei dire “sgamato” per usare il gergo studentesco) mia figlia che scriveva “xké”  su “Whatsapp” (il computer mi segnala in rosso questa parola, segno che non è ancora stata acquisita). “Tuoni e fulmini!”: ho avuto una reazione incontrollata. Le ho detto: “No, questa è una pugnalata! Non me la dovevi dare! Qualsiasi cosa, ma non questo!” . La ragazza è rimasta basita e mi ha giurato sul Devoto Oli che non lo farà mai più.

Ma tornando alla mia monca professione di fede, vano è stato esercitarmici tutto il giorno, fra una pausa e l’altra del lavoro. Dopo soggetto e copula, per completare la frase, non mi sovveniva nessun pertinente nome del predicato. Provato anche in altre lingue: Je suis, j am, oppure yo soy, ma stesso risultato. La sera, tornato a casa, mollo la borsa di lavoro sulla sedia accanto alla scrivania e una vocina interiore mi sorprende. Mi guardo intorno e la voce si fa sempre più reale e mi ripete: “Tolle lege, tolle lege!”, proprio come racconta Sant’Agostino con le Lettere di San Paolo. “Prendi e leggi, prendi e leggi!”, e il mio sguardo cade su un libro impilato sulla scrivania che mi ero promesso di rileggere, scosso dalla recente scomparsa del suo autore: “Paflasmos. Il battito del Mar Egeo. Viaggio nell’anima della Grecia”, di Cesare Padovani (Diabasis Editore 2010). Ma è davvero un’illuminazione celeste, una accensione mistica, un prodigium!

Il libro tratta di un viaggio nel cuore della Grecia moderna alla ricerca però di quella passata, sulle tracce delle vestigia dell’antica civiltà classica, di quelle testimonianze della grandezza del pensiero filosofante nato proprio in quella terra, culla della civiltà occidentale. Ecco completata la frase, allora: “Io sono greco!”. Sì, finalmente ho trovato il modo di completare quanto scritto sul foglio bianco. E d’altro canto, l’ho sempre saputo. Come mai non me ne rendevo conto? Il libro di Cesare Padovani, studioso e saggista riminese, è un diario di viaggio alla ricerca della propria anima, di quello che di sé si è perduto. Un ritorno alle origini,alla sorgente vera della propria cultura, per abbeverarsi a quelle fonti da cui sgorga acqua pura e cristallina. E anche se si sa che quell’acqua non esiste più, che la si è perduta per sempre, tuttavia ci si rivolge indietro, la si cerca con la memoria, con tutto il dolore per il non ritorno, “con quella malinconia”, dice l’autore, “che già Aristotele avvertiva come sofferenza culturale, o eccesso di consapevolezza, e che certamente aveva riconosciuto nel sorriso ironico di Socrate, anche quando Socrate stava per andarsene da questo mondo. Andarsene da qualcosa che si ama è provare nostalgia ancor prima del momento del distacco. Come la vita, un viaggio del genere non può non mantenere in sé quel residuo malinconico”. Eppure, nonostante la sorgente non esista realmente, ci sgorga dentro, fluisce nelle nostre vene, la avvertiamo anche se non odiamo più il suo gorgoglio, questo basta a farci dire a noi stessi che è ancora viva.

Cesare Padovani, che mi addolora sapere scomparso, profondo conoscitore del mondo classico, sull’attualità dei miti ha condotto parecchi seminari e conferenze. E questo suo romanzo è proprio una riscoperta dei miti di cui è piena la letteratura greca, dei simboli di cui essa pullula. Paflasmós” per l’autore significa quel particolare sciabordio del mare che «accompagna il lettore tra odori, rumori, visioni e anfratti di sapienza della Grecia meno conosciuta, per scorgerne il tragico vigore antico, ma anche il pigro dormiveglia delle attese. “Paflasmós rinvia all’“andimámalo”, parola magica nella lingua greca moderna, per raffigurare l’andirivieni dolce delle onde che si spengono sulla battigia e subito tornano verso il mare». “Perché sospiri? A cosa stai pensando?” gli chiede la moglie Giovanna. “Ti sembrerà sciocco ma, lasciando questo paradiso, sto pensando al Paflasmos” E alla moglie che gli chiede cosa significhi, risponde: «Prova a ripeterlo, scandendo le tre sillabe senza però staccarle: Pa-flas-mós”. Quale immagine ti suscita? / “Pa-flas-smòs”? Non saprei, forse il “pa” e il “flas” riproducono il rumore dell’acqua che si riversa sulla riva… / Appunto, quell’onda leggera e sottile che spegne i suoi bisillabi sulla battigia e sulle fiancate delle barche…» .

Le varie tappe toccate dalla sua Periegesi della Grecia sono i pretesti per rispolverare altrettanti miti e scoprire quanto essi siano ancora attuali, quanto il pensiero dei primi filosofi greci abbia ancora validità nel mondo supertecnologico di oggi. Con la leggerezza di un volo di farfalla, come per il suo successivo e ultimo libro “Farfalle Aforismi” (Il Vicolo Editore 2011), passando da una sentenza ad una massima tratta dall’epica di Omero o dalle tragedie di Euripide, Sofocle ,Eschilo, la cultura mediterranea arcaica viene portata alla luce dell’attualità del nostro quotidiano sociale e politico.

Ed è proprio questa la mia formazione, sui classici greci e latini anch’io mi sono costruito. Ho iniziato al Liceo e non li ho più lasciati. E allora di fronte al dibattito in corso, fra cristiani e musulmani, pacifisti e guerrafondai, xenofobi ed esterofili, posso piantare anch’io un seme di appartenenza, crociare una casella, apporre una bandierina nella sconfinata terra di nessuno del deserto intorno. “Io sono greco!”.

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9 Commenti a Io sono greco…

  1. Premetto che la lettura italiana in parentesi tonde delle parole greche che userò è destinata non all’autore del post ma a quanti non conoscono tale lingua, per porli in condizione, almeno mi auguro e ammesso che ne abbiano interesse, di seguire il mio discorso. Mi dispiace sinceramente rompere l’incanto consolatorio dei reali o presunti valori di quella che è considerata la culla della civiltà occidentale. Παφλασμός (paflasmòs) è formazione moderna dal classico πάφλασμα (pàflasma), a sua volta dal verbo παφλάζω (paflazo), parola composta da due segmenti onomatopeici: πα (rumore del colpo)+un verbo *φλάζω= lacerarsi o rompere con rumore, di cui è attestato solo l’aoristo secondo ἔφλαδον. Già da queste prime note è evidente come il vocabolo in questione dia più l’idea inquietante della tempesta piuttosto che quella malinconicamente musicale della risacca. Ciò è confermato dai significati che qualsiasi vocabolario di greco antico riporta per παφλάζω [ribollire, agitarsi, erompere, sconvolgersi (riferito a cose o a persone)] e per πάφλασμα [(ribollimento, agitazione, fanfaronata (quest’ultimo con evidente slittamento metaforico)]. Insomma, il vocabolo moderno Παφλασμός nasce da πάφλασμα con l’aggiunta di un suffisso aggettivale in funzione lenitiva del significato decisamente negativo della voce di partenza. Non è la prima volta che ciò accade (e non solo in greco) e perciò sarei un ignorante, anzi uno stupido, se gridassi allo scandalo. Volevo solo dire che la poetica operazione consolatoria già condotta dai greci moderni non può essere sbandierata come sintomo di una sensibilità che certamente esiste ma che diventa estremamente pericolosa quando, consciamente o inconsciamente, in mala o in buona fede, la si ritiene più raffinata e colma di valori rispetto all’altrui. Io, perciò, pur rispettando la scelta dell’autore del post certamente originale perché è una sorta di confessione-recensione-conversione (o, piuttosto, conferma di un credo), io, quando è necessario, sputo nel piatto in cui mangio (dipende da quello che anche l’antico sa darci …) e non sono in grado di dire chi mi sento di essere. Posso, però, affermare che non mi sento greco un po’ per colpa dei contemporanei che sfruttando quella cultura nella costruzione, per esempio, di un romanzo storico, non hanno mosso un dito, favorendo il formarsi di una mistificazione dalla loro libertà creativa, quando qualcuno ha scambiato la loro opera poetica, ribadisco poetica, con un saggio che, come si sa, obbedisce più alla ragione che al cuore, più al rigore scientifico che alla libertà poetica (sotto questo punto di vista mi sarebbe piaciuto che l’autore dell’opera ricordata nel post avesse fatto in tempo a dirci, se non l’ha fatto magari nella stessa opera, in quale sperduta isola dell’Egeo avrebbe sentito il “magico” andimàmalo); e poi, come posso sentirmi greco quando penso che è impossibile conciliare l’etichetta di culla della democrazia col marchio infamante di Socrate “suicidato” per l’unica colpa di educare i giovani a pensare col proprio cervello? Ognuno, naturalmente, è libero di sentirsi quel che crede e chiedo scusa all’autore del post e a quel lettore al quale ho fatto perdere tempo esprimendo un’opinione, peraltro non richiesta.

  2. Ogni volta che leggo un tuo scritto, mi viene voglia di dire: vorrei essere Paolo, ma non lo sono.

  3. Ho letto queste righe immediatamente dopo aver (ahimè ahinoi) letto di 25 (venticinque, cinque volte cinque) immigrati, anzi, migranti, anzi, poveri cristi, morti al largo delle Libia per il freddo, questo pungente freddo che ha osato portare fiocchi di neve anche a Lecce mentre io, schiaffeggiato da una gelida tramontana, pensavo al Piemonte e respiravo odore di gelo e neve (poca però). Leggevo le righe di Paolo e pensavo che je suis… in realtà j’en sai plus quest que je suis (chissà se i ricordi del francese scritto mi accompagnano). Io sono un migrante? O sono Charlie forse, anzi no, sono un rivoluzionario, dai non scherziamo, sono un borghese piccolo, ignobilmente piccolo. Omero, Euripide, Sofocle… Ah no, in TV c’è Matteo (quale Matteo scegliete voi). Per carità uno non vale l’altro, per carità no…. Però je suis o je ne suis pas? Invidio Paolo che dice di essere greco, anch’io l’ho scritto e messo anche nell’immagine di facebook, proprio come se facebook fosse il verbo. E dicendo verbo ricordo di quel signore che, a un mio ritardo, mi disse “scripta manent” ed io risposi “etiam verba justorum”. Conoscevo poco il latino lui per nulla e feci la mia porca figura. Non sono greco, però mi piace questo greco senza cravatta (finalmente) che vuole mettere l’Europa d ifronte all’etica. Ecco, vorrei essere greco ora. Ma si sa, qui si mette la k invece del ch ed ho poco fa spezzato una lancia per il governo, scrivendo ad un giovane che usava la maledetta k che il Matteo ancora non ha tassato il ch, possiamo utilizzarlo tranquillamente senza spendere un centesimo. Au revoir.

  4. Ringrazio gli amici per l’attenta lettura del mio articolo. Ogni opinione è legittima e, sebbene non condivisibile, quando espressa ed argomentata ad alti livelli, arricchente. Ma io forse sorprenderò Armando Polito affermando che la sua opinione è per me anche condivisibile. Sì, condivido. Però (un “però” doveva esserci per giustificare questa mia risposta) potrei obbiettare, quanto alla condanna a morte di Socrate, che anche gli ebrei hanno messo a morte il Nazareno, ma questo non ci impedisce di riconoscere nella tradizione giudaico-cristiana una delle matrici (l’altra, appunto, quella greca) della nostra civiltà mediterranea. Ma queste sono cavillature da sofisti. È chiaro che ogni medaglia ha due facce, è chiaro che si può dimostrare tutto e il contrario di tutto, la veridicità di qualsivoglia tesi, proprio come facevano i Sofisti con l’eristica. Puoi dire che non sia vera la mia tesi, Polito? No, in coscienza non lo puoi dire. E io posso dire che non sia vera la tua antitesi? No, non sarei onesto, perché è verissima. Dunque, non è questo il punto. C’è qualcosa che anche ad un dotto grecista, ad uno studioso attento e severo come Polito potrebbe sfuggire, qualcosa che ha a che fare con la scrittura creativa. Qui non si scrive un saggio, uno studio scientifico completo di apparati critici. Qui, si fa per ridere. La scrittura creativa è molto istintiva, fluviale, si nutre di paradossi, esagerazioni, anche contraddizioni a volte. Nel caso specifico poi, l’intento è proprio dichiarato fin dall’inizio. Dico: non mi riconosco in nessuno, purtroppo, ma se proprio devo… Se l’adesione fosse stata spontanea, immediata, scontata, non ci avrei messo tanto a trovarla. E non avrei nemmeno scritto il pezzo, che è costruito proprio su questa difficoltà di prendere posizione, di non essere sempre, come sono e come i cinici, maledettamente cane sciolto. Infatti ad un certo punto introduco anche l’ elemento soprannaturale, la voce interiore, citando Sant’Agostino dalle Confessioni, che mi viene in soccorso. Insomma, caro Polito, ci prendiamo un po’ in giro, no?

    • Chiedo scusa se, come mi accorgo, non son riuscito ad esprimere chiaramente il mio pensiero, il che ha generato un colossale equivoco.

      Per me qualsiasi scrittura, anche quella di un ignorante, di uno stupido o di un pazzo, è sempre, magari involontariamente, creativa, per cui l’etichetta, che pure esiste, di “scrittura creativa” mi pare, francamente, una tautologia, oltre che una grossa stupidaggine. Dirò di più: secondo me se i saggi, i trattati e le lezioni accademiche adottassero gli strumenti, anche solo espressivi, della cosiddetta “scrittura creativa” (rispettando, comunque, la grammatica …), anche gli argomenti più ostici diventerebbero interessantissimi e certe conferenze (in cui, fra l’altro, il soliloquio ha fatto fuori il con- che pure entrava nella composizione della parola) produrrebbero uno stimolante coinvolgimento e non solo sbadigli reiterati.

      Nei testi del tipo appena nominato, però, la creatività dev’essere sempre illuminata dall’acribia e la brillantezza della presentazione non dev’essere mai sorella della mistificazione o della menzogna. Nella fattispecie, poi, l’autore di Plafasmòs è stato anche accademico, dunque, un intellettuale di alto livello. Questa situazione, tuttavia, per nostra fortuna, non pone nessuno al sicuro da infortuni a dir poco imbarazzanti (mi permetto di segnalare solo due tra i tanti esempi che sull’argomento ho avuto modo di proporre:

      https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/31/filologia-e-filosofiae-vero-fanno-rima-e-cosi-sia-ma-non-sempre-tra-lor-ce-simpatiae-con-la-rete-poi-mamma-miatutto-va-a-finire-in-porcheria/

      https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/27/perche-gli-olivi-patriarchi-salentini-sono-sculture-viventi/).

      La concomitanza alla quale prima accennavo è, in genere, molto pericolosa perché “il fascino della divisa” ha un grande potere di suggestione sui comuni lettori che con i tempi che corrono sono sempre più inconsapevolmente disponibili a bersi tutto quello che proviene da una fonte più o meno autorevole nel suo campo; anche quando un esperto di filosofia, per essere ancora più concreti, decide di scrivere un romanzo storico-filosofico in cui il plafasmòs, cioè il presente, è un pretesto per parlare del plàfasma (cioè del passato), confondendo in una serie di dissolvenze incrociate (operazione, comunque, legittima nel caso, che è il nostro, di scrittura creativa) i due piani temporali. Il destino, poi, ha voluto che per il popolo greco al quale va tutta la mia solidarietà (a chi l’ha governato solo il più profondo disprezzo), il plàfasmos, la risacca, si trasformasse concettualmente nell’antico plàfasma, la tempesta.

      Condivido perfettamente (poteva essere altrimenti?) l’obiezione mossami a proposito di Cristo; d’altra parte mi pare di averla preceduta confessando “non sono in grado nemmeno di dire chi penso di essere”; e per uno abituato a dire solo quello che pensa è il massimo della sincerità …

      Naturalmente tutto il mio sproloquio iniziale sulla scrittura creativa è riferito al Padovani e a quanti vogliono dare una trasfigurazione poetica alle loro conoscenze scientifiche reali o presunte, non certo al suo post e, da amante, quale sono, dell’ironia e del sarcasmo, mi trovo perfettamente d’accordo con lei nell’affermare che “qui si fa per ridere” e “prenderci un po’ in giro”.

      Proprio per questo (e chiedo scusa se ancora una volta esprimo un’opinione non richiesta) non so a lei, ma a me dà un fastidio enorme la lettura, a livello non necessariamente locale, di certe roboanti recensioni (contenessero almeno una sola critica, per quanto larvata!), anche di firme, almeno sulla carta, prestigiose, che per colpa, forse, di una scrittura un po’ troppo creativa ed esageratamente leccante sembrano solo una presa in giro di lettori sprovveduti, simili a polli da spennare, senza aspettare che almeno crescano un po’. O no?

  5. Certamente sono d’accordo. Quanto al libro di padovani, ovviamente non posso essere io a rispindere a polito ma dovrebbe essere il diretto interessato che purtroppo, come detto,ci ha lasciato qualche mese fa. Ribadisco comunque quanto il dibattito sia sempre costruttivo e mi riservo di approfondire con polito le numerose tematiche aperte dal suo post magari in altea sede. A presto

    • Capisco tutto, meno “l’altra sede”. Le assicuro che la platea di questo blog è così eterogenea che sicuramente tra chi legge c’è più di uno che sulle questioni sollevate potrebbe dire qualcosa di più profondo dei suoi e dei miei pensieri messi insieme. Aiutiamolo a vincere la timidezza! Sarà un arricchimento per tutti.

  6. ah ah… è verissimo. ho sbagliato io, volevo scrivere “in un’altra occasione”. a prestissimo allora, “prossimamente su questi schermi.”…

  7. Pur ribadendo la mia adesione alla cultura e al pensiero della Grecia, che è un’appartenenza dell’anima, come scritto nell’articolo sopra pubblicato, non voglio esimermi dal contestualizzare questa presa di posizione ideale, rispetto alle contingenze economico-politiche che oggi vive la nazione ellenica. L’enorme debito contratto dalla Grecia e il paventato default la pongono drammaticamente all’attenzione europea e mondiale perché il rischio di una catastrofe economica e finanziaria è dietro l’angolo. La classe dirigente che ha contribuito a portare la Grecia a questo punto è andata a casa e oggi governa la lista Siriza, ma il Presidente Tsipras e il ministro Vafourakis non sembrano molto propensi a trovare una via di uscita che metta d’accordo i creditori, e ciò inasprisce ancora di più il clima a Bruxelless e rende più difficile trovare un accordo al tavolo delle trattative. Nonostante però gli sbagli commessi da una classe politica arruffona e impreparata e la tendenza del popolo greco a fare debiti e vivere al di sopra delle proprie possibilità (l’evasione fiscale in Grecia ha numeri che quasi raggiungono quelli italiani), io non mi sento di dire che si possa abbandonare la Grecia al proprio destino, come alcuni analisti e intellettuali italiani vanno affermando. Ciò perché un eventuale default della Grecia comporterebbe serissime difficoltà anche per l’Italia, creditore come Francia, Germania, Olanda e Spagna. Ma tutti i 18 paesi della UE avrebbero delle ripercussioni. Fondo monetario Europeo e Banca Centrale Europea devono pensarci. L’Europa è costretta a cercare un’intesa con Atene. Premetto che non sono un europeista. Quando nei primi anni Novanta si delineava l’unione e veniva vagheggiato il sogno di una Europa simile agli Stati Uniti, dall’economia e dalla politica forti, io ero molto scettico e ripetevo ingenuamente, nella irruenza della giovane età, “andateci voi, io in Europa non ci voglio entrare!”. Nei primi anni Duemila ho vissuto l’abbandono della lira come la perdita di un parente, un caro congiunto, un lutto personale insomma. Ma quel che è fatto è fatto, purtroppo. Oggi non sono convinto che uscire dall’Europa sia la soluzione migliore per risolvere gli annosi problemi legati all’inflazione, alla crisi dell’export, alla disoccupazione in Italia. Fra le tesi che sostengono l’uscita dall’euro di alcuni “brillanti” docenti universitari che danno base teorica alla demagogia elettorale di certi politici, e le tesi di altri economisti (la stragrande maggioranza) che invece sostengono che i rimedi sarebbero ancor peggiori dei mali, io, da quello che leggo sulla materia, sono portato a credere a questi ultimi. Così per la Grecia, a meno che l’uscita dall’eurozona non avvenga gradualmente e in maniera pianificata con gli altri paesi, in primis la Germania. Dunque “salvare la Grecia”, come ribadisce il professore Forges Davanzati (su “Quotidiano” del 25 febbraio 2015) diventa l’imperativo categorico, politico e, per me, anche morale.

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