Paola Cazza, l’arte in mutamento

 

di Paolo Vincenti

Presso il circolo Arci Spazio Kronos di Collepasso, per l’attenta cura di Luigi Marzano e Fernanda Cataldo, è in esposizione la mostra personale di pittura “Nessuna voce” di Paola Cazza, un’artista ancora poco conosciuta nel panorama salentino, ma del tutto degna di attenzione. Nata a Sassuolo, Paola Cazza è salentina di Nardò ed ha manifestato fin da bambina una certa sensibilità artistica. Autodidatta, si è ritagliata un proprio spazio di comunicazione nell’universo sfaccettato e multiforme dell’arte visiva. Le sue opere pittoriche e scultoree sono state esposte, negli anni, in spazi pubblici di caffetterie e associazioni culturali delle diverse città italiane nelle quali ha vissuto per brevi o lunghi periodi. Paola è un’artista in mutamento, in continua trasformazione: questo mi dice presentandosi, ma questo è ciò che anch’io colgo ad un immediato approccio con la sua mostra. Paola utilizza vari linguaggi, sia quello della pittura che quello della scultura su pietra leccese.

Da una prima ispirazione paesaggistica, il suo alfabeto lirico passa a visioni più astratte, indugia sulle figure umane, vira poi sull’informale. La sua gamma cromatica non è ampia ma efficace. Non ci sono infatti toni forti e accesi nelle pitture di Paola, come il rosso, il nero, ma colori intermedi, molti chiaroscuri. Non c’è autocompiacimento in queste opere, nessuna oleografia, esse sono lontane da un certo vedutismo di maniera che ha caratterizzato altre stagioni della pittura salentina. Il paesaggio è presente ma sempre filtrato dalla sensibilità profonda dell’autrice e soffuso di una certa aerea malinconia, caratterizzato da un’atmosfera di sospensione favorita dallo sfumato dei colori. La realtà non si sfalda mai completamente ma è come se venisse rappresentata in maniera enigmatica, di essa venisse colto l’aspetto più misterioso, oscuro, il suo procedere larvato verso destinazioni non conosciute. È come se nei suoi quadri corressero delle vibrazioni impercettibili che, al tatto con la loro superficie rugosa, io ho colto.

Alcune opere trasmettono allo spettatore il desiderio di andare oltre, a fondo, di penetrare nei loro meandri, come nei recessi dell’anima dell’autrice. Molto interessante si mostra l’inserimento di elementi materici sulle tele, vecchie chiavi arrugginite, lucchetti, oggetti agricoli attaccati con dello spago sui quadri, dunque ritrovati della nostra civiltà contadina arcaica a far da contrappunto all’opera pittorica, ad iconizzare quasi un passaggio di consegne fra il vecchio ed il nuovo, a simboleggiare la continuità fra la matrice larica, archetipica della nostra cultura e la modernità. Notevole il ciclo delle madri: la fertilità femminile metafora e auspicio di fertilità della terra alla quale queste donne gravide sono congiunte: dai loro grembi viene la rigenerazione del mondo. Decisamente prevalenti i corpi femminili su quelli maschili, però essi non sono sezionati come su una tavola anatomica ma appaiono rannicchiati, raggomitolati e intrecciati fra di loro, quasi a celare profondità, gli abissi imperscrutabili della femminilità, come la natura che ama nascondersi, secondo il famoso aforisma di Eraclito. D’impatto la Crocifissione, dove sulla croce è messo un Cristo donna, con una serie di fili di spago a cingerle i fianchi e la testa. I supporti, ricavati nel legno, sono staccati dalle tele e le incorniciano senza contenerle. L’inserimento di elementi astratti nel figurativismo di base (per esempio i pesci che in alcune opere attraversano la scena), conferisce un’impronta onirica e fantastica alle rappresentazioni pittoriche. Infine, vedo alcuni esperimenti in cui le tele vengono bruciate e poi riutilizzate e ricomposte insieme, a formare quadri nei quadri o grovigli e masse informi. Queste tele, che sembra siano state brutalizzate, mi ricordano gli esperimenti di Lucio Fontana che traumatizzava le opere con buchi e tagli.

In questa mostra della Cazza, nella polisemia del suo messaggio artistico, intravedo un filo di arianna che sottotraccia ne percorre la parabola, ed è una sorta di inquietudine, un mal di vivere, che Paola, come ogni artista, si porta dietro, come un passo falso, un controcanto, un suo calco negativo, un demone interiore con cui fare i conti e al quale pagare pegno per giungere sulla tela ad eternare l’attimo.

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