La salentina cilòna (tartaruga) e qualche amenità

di Armando Polito

Testudo hermanni, Gmelin 1789 (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Testudo_hermanni#mediaviewer/File:Testudo_hermanni_hermanni_Mallorca_02.jpg)
Testudo hermanni, Gmelin 1789 (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Testudo_hermanni#mediaviewer/File:Testudo_hermanni_hermanni_Mallorca_02.jpg)

A voler essere pignoli va fatta preliminarmente una distinzione tra la tartaruga propriamente detta (l’animale acquatico, che è onnivoro) e la testuggine (quello terrestre, che è erbivoro).

Tartaruga è dal greco tardo ταρταροῦχος (leggi tartarùchos), sorta di governatore dell’Inferno, composto da Τάρταρος (leggi Tàrtaros)=Tartaro e ἔχω (leggi echo)=avere, abitare.

L’attestazione letteraria più antica che conosco è in un frammento della Commentatio in Danielem di Ippolito Romano (II-III secolo) tramandataci da Eustrazio (XI-XII secolo) nel cap. XIX di Adversus Psychopannychitas: Λέγει τοίνυν Ἰππόλυτος ὁ μάρτυς καὶ Ἐπίσκοπος Ῥώμης ἐν τῷ δευτέρῷ λόγῳ τῷ εἰς τὸν Δανιἠλ τοιαῦτα·… ἔπειτα τὰ καταχθώνια ὠνόμασαν πνεύματα ταρταρούχων ἀγγέλων … (Ippolito martire e vescovo di Roma nel secondo libro [del commento] a Daniele dice questo:  … poi diedero il nome agli spiriti degli angeli signori del Tartaro …).

La voce fa la sua comparsa epigrafica più antica, sempre a quanto ne so, in un’iscrizione bilingue (greco e latino), probabilmente del III secolo,  rinvenuta a Byzacena, nell’attuale Tunisia e pubblicata da August Audollent, Defixionum tabellae quotquot innotuerunt tam in Graecis Orientis quam in totius Occidentis partibus praeter Atticas in Corpore inscriptionum Atticarum editas, Fontemoing, Parigi, 1904, tab. 295,  p. 409 (il volume è interamente leggibile e scaricabile in https://archive.org/details/defixionumtabel00audogoog). Ne riproduco  di seguito la parte iniziale, in cui ho evidenziato in rosso la voce che ci interessa.

Il volume prima appena citato contiene insieme con la nostra molte altre defixiones, cioè formule magiche, spesso di maledizione. Alla stessa sfera appartengono anche due inni, (dei quali riporto solo il verso/i versi che ci interessa/interessano). Il primo inno, nel quale la nostra voce compare due volte,  dedicato ad Ecate  (divinità psicopompa, cioè in grado di condurre anche i vivi nel regno dei morti; per questo è raffigurata spesso con delle torce in mano; veniva anche associata ai cicli lunari a simboleggiare insieme con Artemide la luna crescente e con Selene quella calante) fu pubblicato in PGM (Papiri Graecae Magicae), Leipzig-Berlino, 1928-1932; ecco le due ricorrenze: (IV, 2242): Χαῖρε, ἱερὸν φῶς, ταρταροῦχε, φωτοπλήξ (Salve, luce sacra, signora del Tartaro, tu che colpisci con la tua luce); (IV, 2332-2333): σημεῖον ἐρῶ· χάλκεον τὸ σάνδαλον/τῆς ταρταρούχου (amo come un simbolo il sandalo di bronzo della signora del Tartaro). Del secondo inno abbiamo solo un frammento (830 Af) da una lamina bronzea trovata forse ad Ossirinco (datata al II-III secolo d. C.) e pubblicato da A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, parte II, fasc. II, Saur, Monaco e Lipsia, 2005, p. 351: κύων, δράκαινα, κλείς, κηρύκιον,/τῆς Ταρταρούχου  χάλκεον τὸ σάνδαλον (il cane, il serpente, la chiave, il caduceo, il sandalo di bronzo della signora del Tartaro).

Più tarda, invece, attribuita al VI secolo per la forma delle lettere, l’iscrizione (CIL, III, p. 961) rinvenuta nel 1869 presso Tragurio (odierna Traù, in Croazia) su una tavola di piombo (per questo comunemente nota col nome di Tabula plumbea Traguriensis), la cui scheda è visibile all’indirizzo http://arachne.uni-koeln.de/arachne/index.php?view%5blayout%5d=buchseite_item&search%5bconstraints%5d%5bbuchseite%5d%5bbuch.origFile%5d=BOOK-ZID875009.xml&view%5bpage%5d=0 (non direttamente, bisogna prima digitare nell’apposita finestra in alto a sinistra il numero di pagina che, però, nella schedatura digitale non risulta essere 961 ma 380). La riporto, comunque nella parte che ci interessa: la lamina è iscritta su entrambe le facce ed è come se il testo fosse distribuito su due pagine, delle quali riporterò solo la prima con gli adattamenti necessari per un’agevole lettura e anche per evidenziare, sottolineandola in rosso, la parola-chiave e per aggiungere la mia traduzione.

È evidente, al di là delle lacune dovute a lettere abrase, che il testo è in linea con i precedenti: lì un’esaltazione ancora pagana di Ecate/Selene, qui una sorta di diffida-maledizione già cristiana al signore del Tartaro, cioè al demonio. Nel simbolismo cristiano primitivo la tartaruga simboleggiava lo spirito del male. Per esempio nella cattedrale di Aquileia due rappresentazioni musive risalenti al IV secolo raffigurano la lotta tra un gallo (in progressione concettuale simbolo del giorno, della luce, del bene, di Cristo) e una tartaruga (nella stessa progressione simbolo delle tenebre, del male, del demonio). È evidente il collegamento con le abitudini sotterranee della testuggine (dovute al letargo) e, forse, pure con la veneranda età che certi esemplari possono raggiungere: un profumo di immortalità e, dunque, quasi una prerogativa divina, anche se di valenza negativa.

La nostra voce ricorre due volte nel vangelo apocrifo di Bartolomeo (i brani che riproduco sono dall’edizione N. Bonwetsch, Die apokryphen Fragen des Bartholomäus, Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Philol.-hist. Kl. (1897) 9- 29) risalente al III-IV secolo, una prova in più che ταρταροῦχος nasce indipendentemente dal nome dell’animale (che, come abbiamo visto, era diverso) e che solo successivamente tartaruga acquista la valenza zoonomastica.

Καὶ κατ〈ήγαγετο〉αὐτοὺς ἀπὸ τοῦ ὄρους τῶν ἐλαιῶν, καὶ ἐμβριμησάμενος τοῖς ταρταρούχοις ἀγγέλοις, ἔνευσε δὲ τὸν Μιχαὴλ σαλπίσαι ἐν τῷ ὕψει τῶν οὐρανῶν, καὶ ἐσείσθη ἡ γῆ, καὶ ἀπῆλθεν ὁ Βελίαρ κατεχόμενος ὑπὸ ἑξακοσίων ἑξήκοντα [τριῶν] 〈ἀγγέλων〉πυρίνοις ἀλύσεσιν δεδεμένος (E li  condusse giù dal monte degli Ulivi e, dopo aver rimproverato gli angeli signori del Tartaro, fece cenno a Michele di suonare la tromba nell’alto dei cieli e la terra tremò e salì Beliar tenuto  da seicentosessantatré angeli e incatenato con catene di fuoco).

Κριθεὶς δὲ ὁ Βελίαρ λέγει· Εἰ θέλεις μαθεῖν τὸ ὄνομά μου, πρῶτον ἐλεγόμην Σαταναήλ, ὃ ἑρμηνεύεται ἐξάγγελος θεοῦ· ὅτε δὲ ἀπέγνων ἀντίτυπον τοῦ θεοῦ [καὶ] ἐκλήθη τὸ ὄνομα μου Σατανᾶς, ὅ ἐστιν ἄγγελος ταρταροῦχος (Interrogato Beliar dice: – Se vuoi sapere il mio nome, prima mi chiamavo Satanaèl, che viene interpretato come angelo di Dio; quando rinnegai la figura di Dio anche il mio nome divenne Satana, il che significa angelo signore del Tartaro -).

Che, poi, le origini negative del simbolo potrebbero essere molto antiche lo mostra, per esempio, il mito di Driope come appare in Antonino Liberale (II secolo d. C.), Metamorfosi, XXXII, in cui la metamorfosi Apollo>tartaruga>serpente costituisce un’impalcatura che ha quasi dei punti di contatto con il racconto biblico della perdita dell’Eden : Ἱστορεῖ Νίκανδρος Ετεροιουμένων α’

Δρύωψ ἐγένετο Σπερχειοῦ παῖς τοῦ ποταμοῦ καὶ Πολυδὠρης μιᾶς τῶν Δαναῶν θυγατέρων. Οὗτος ἐβασίλευσε ἐν τᾕ Οἴτῃ καὶ θυγάτηρ αὐτῷ μονογενὴς ἐγένετο Δρυόπη καὶ ἐποίμαινεν αὐτᾔ τὰ πρόβατα τοῦ πατρός· ἐπεὶ δὲ αὐτὴν ἠγάπησαν ὑπερφυῶς Ἁμαδρυάδες νύμφαι καὶ ἐποιήσαντο ουμπαίκτριαν ἑαυτῶν, ἐδίδαξαν ὑμνεῖν θεοὺς καὶ χορεύειν. Ταύτην ἰδὼν Ἀπόλλων χορεύουσαν ἐπεθύμησε μιχθῆναι. Καὶ ἐγένετο πρῶτα μὲν κλεμμύς· ἐπεὶ δ’ἡ Δρυόπη γέλωτα μετὰ τῶν νυμφῶν καὶ παίγνιον ἐποιήσατο τὴν  κλεμμὺν καὶ αὐτὴν ἐνέθετο εἰς τοὺς κὁλπους, μεταβαλὼν ἀντὶ τῆς κλεμμὺος ἐγένετο δράκων. Καὶ αὐτὴν κατέλειπον αἱ νύμφαι πτοηθεῖσαι· Ἀπόλλων δὲ Δρυόπῃ μίγνυται· ἡ δὲ ᾤχετο φεύγουσα περίφοβος εἰς τὰ οἰκία τοῦ πατρός καὶ οὐδὲν ἓφρασε πρὸς τοὺς γονεῖς (Racconta Nicandro nel primo libro delle Metamorfosi: Driope era figlia del fiume Spercheio e di Polidora, una delle figlie di Danao. Spercheio regnava ad Eta,  Driope fu la sua unica figlia e da lei erano condotte al pascolo le greggi del padre. Poiché le ninfe Amadriadi la amavano oltre ogni misura ed avevano stabilito con essa un rapporto di complicità, le insegnarono a celebrare con inni gli dei ed a danzare. Apollo dopo averla vista mentre danzava desiderò di possederla. E divenne prima una tartaruga; dopo che Driope ebbe scherzato con le ninfe ed ebbe trasformato la tartaruga in trastullo e l’ebbe posta in seno, si trasformò da tartaruga in serpente. E le ninfe in preda al terrore la lasciarono sola. Apollo si congiunge con Driope e lei se ne andò fuggendo in preda alla paura alle case del padre e nulla disse ai genitori).

Il mito, come ci informa lo stesso Antonino, è tratto da Nicandro (II secolo a. C.) ed è interessante notare come l’animale è indicato con il nome di κλεμμύς (leggi clemmiùs), composto da χέλυς (leggi chelus), del quale parlerò a breve, ed ἐμύς (leggi emiùs)=tartaruga d’acqua. Sia tale voce di Nicandro o, meglio ancora, di Antonino, è chiaro che bisognerà aspettare l’avvento del Cristianesimo per la nascita di ταρταροῦχος=angelo signore del Tartaro, da cui poi il nome dell’animale dopo che esso ne era stato assunto come simbolo.

Testuggine è dal latino testùdine(m), accusativo di testùdo, a sua volta derivato da testa=tegola, guscio, cranio. La tecnica di formazione di testùdo, cioè test- (tema di testa)+un suffisso significante insieme è simile a quella di habitudo [dal cui accusativo [habitùdine(m)] è l’italiano abitudine], a sua volta composto da habit– (tema di hàbitus, a sua volta da habère=avere) +  il suffisso già ricordato.  Testudo significava testuggine, tartaruga, guscio di tartaruga, guscio del riccio, guscio dell’uovo, lira, cetra, costruzione a volta, volta, e nel linguaggio militare aveva il significato di macchina da guerra consistente in una baracca a tettoia montata su ruote che serviva da riparo ai soldati mentre spingevano l’ariete contro le mura e di formazione d’attacco dei soldati che si accostavano alle mura congiungendo gli scudi sulla testa, a m’ di tetto inclinato.

La ricostruzione della testudo in una stampa di Venceslaus Hollar (XVII secolo) custodita nell’Università di Toronto (immagine tratta da http://link.library.utoronto.ca/hollar/digobject.cfm?Idno=Hollar_k_0650&query=Hollar_k_0650&size=large&type=browse)
La ricostruzione della testudo in una stampa di Venceslaus Hollar (XVII secolo) custodita nell’Università di Toronto (immagine tratta da http://link.library.utoronto.ca/hollar/digobject.cfm?Idno=Hollar_k_0650&query=Hollar_k_0650&size=large&type=browse)

Il dialettale salentino cilòna è dal greco χελὠνη (leggi chelòne), derivato da χέλυς (leggi chèlius). La voce primitiva designa la testuggine, la derivata sia la testuggine che la tartaruga. Sempre la primitiva assume anche i significati traslati di lira fatta col guscio di testuggine2, Lira (costellazione)3, petto, torace (per la somiglianza di forma)4. Nel dialetto salentino cilòna, oltre la testuggine, designa pure il lipoma (un tumore, di natura assolutamente benigna, costituito sostanzialmente da grasso) e la voce è usata anche in senso spregiativo per indicare una donna dalle forme tozze.

La derivata assume pure i significati traslati di lira (già visto per la precedente)5, scudo per proteggere gli assedianti6, scudo per proteggere i minatori7, una moneta8.

Oggi l’uso metonimico continua nei significati, che tartaruga assume, indicando una locomotiva elettrica delle ferrovie italiane in uso negli anni ‘70 (si tratta della E444; il riferimento nativo è alla forma, quello effettivo alla velocità massima, teoricamente 200 km/h, irraggiungibile e mai raggiunta a causa delle condizioni degli altri componenti delle linee, binari e carrozze in primis),

una plafoniera ovale protetta da una rete metallica,

 

e addominali che solo l’abbonamento ad una palestra ti può consentire di esibire …; di seguito un bell’esempio nel rispetto della par condicio, partendo dall’animale.

Per le amenità annunziate nel titolo, che non sono queste di cui ho appena finito di parlare, rinvio il lettore al link http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24253. I commenti registrano ben sei interventi di Giuseppe Barbera (tutti restati desolatamente senza replica) che, dopo aver consigliato all’autrice dell’obbrobrio la lettura di alcuni testi di natura metodologica, puntualmente smonta, con esibizione di prove inoppugnabili, la sua esilarante ipotesi, una delle tante dei suoi lavori (?), in cui il delirio è l’unica coerenza ravvisabile; non mi meraviglierei se nel prossimo capolavoro si dovesse leggere l’individuazione di un collegamento tra l’onnipresente Gran Madre e un escremento umano, magari fresco fresco …

Perché il lettore possa rendersi conto di quanto simili insane suggestioni possano fare proseliti sarà sufficiente leggere i tre successivi commenti, dopo i quali, giustamente, perché sarebbe stata un’inutile perdita di tempo, Giuseppe ha desistito dall’intervenire ulteriormente; così l’ignoranza e la presunzione hanno potuto celebrare il loro trionfo, ma solo agli occhi degli incompetenti e, cosa ancor più grave, miserevolmente ingenui, nonché a scapito della credibilità dello stesso sito che li ospita.

__________

1 Riporto il testo greco dall’edizione a cura di Alberto Fabrizio, Liebezeit, Amburgo, 1716, p. 32 (http://books.google.it/books?id=e8O1qSkArFMC&pg=PR91&dq=S.+Hippolyti+episcopi+et+mart.+opera&hl=it&sa=X&ei=KrZYVL-eN5T7aqiqAg&ved=0CDcQ6AEwAw#v=onepage&q=danielem&f=false).

2 Omero, Inni, IV, 25 e 153; Saffo, 118, 1; Euripide, Alcesti, 448.

Lira ottenuta dal carapace di una tartaruga. Da Rudie (Museo Sigismondo Castromediano, Lecce). Il carapace funge da cassa di risonanza [ἠχεῖον (leggi echèion), da ἠχή (leggi echè)=eco]. Dalla cassa partono due bracci [πήχεις (leggi pècheis) o κέρατα (leggi kèrata: alla lettera corna)] che hanno il compito di reggere il sostegno trasversale [ζυγόν (leggi ziugòn)=giogo] delle corde. Si tratta di un vero e proprio strumento  musicale, non di un oggetto avente alcuna funzione evocativa o sacrale.

3 Arato, Fenomeni, 268.

4 Ippocrate, De anatome. I; Euripide, Elettra, 837.

5 Plutarco, 68 (Sulla procreazione dell’anima nel Timeo), 1030b.

6 Senofonte, Ellenikà, III, 1, 7; Cassio Dione, Storia romana,  IL, 29, 2 e 30, 1

7 Polibio, Storie, IX, 41, 1 e X, 31, 8.

8 Polluce, Onomastikòn, IX, 74: Καὶ μὴν τὸ Πελοποννησίων νόμισμα χελώνην τινὲς ἠξίουν καλεῖν ἀπὸ τοῦ τυπώματος, ὅθεν ἡ μὲν παροιμία· τὰν ἀρητὰν καὶ τὰν σοφἱαν νικᾱντι χελῶναι. Ἐν δὲ τοῖς Εὐπόλιδος Εἵλωσιν εἴρηται  ὀβὸλὸν τὸν καλλιχέλωνον (E alcuni pensarono bene di chiamare tartaruga una moneta del Peloponneso dall’immagine, da cui il proverbio: le tartarughe vincono la virtù e la saggezza. Ne I prigionieri di Eupoli un obolo è chiamato bella tartaruga).

Dopo aver sottolineato l’amara verità contenuta nel proverbio, mi rimane da aggiungere che  la tartaruga sia marina che terrestre è una costante nelle monete di Egina e il simbolo molto probabilmente ha un significato più politico-economico che religioso. Nelle immagini seguenti (tratte da http://www.wildwinds.com/coins/greece/aigina/i.html una sintetica e parziale carrellata cronologica con alcuni esemplari. Mi pare particolarmente interessante perché in esso il profilo della tartaruga sembra essersi scisso fino a dar vita a due delfini. Se non è casuale si tratterebbe di un’operazione grafica che farebbe rabbia al migliore designer dei nostri tempi; ma in questo caso farebbe ancor più rabbia  la difficoltà di cogliere il messaggio contenuto e le immancabili allusioni a fatti storici.

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3 Commenti a La salentina cilòna (tartaruga) e qualche amenità

  1. Ciao Armando,
    è da un po’ di tempo che non mi collego con te. Mi ha sollecitato la “tartaruga” che in piemontese si dice “Bissa Copera” (leggere: Bissa Cupera). In altre parole viene considerata una biscia che si porta dietro la cupola, perchè la “Copa” in piemontese è la cupola, e “copera” è l’aggettivazione “incupolata”. Voi siete più acculturati con la vostra “cilòna” noi siamo più terra terra. Un abbraccio.
    Sergio Notario

  2. Caro Sergio, non vorrei che il nostro maggior acculturamento si limitasse solo alla “cilona” e a qualche altro vocabolo e che, addirittura, qualcuno si spingesse razzisticamente a rivendicare (anzi a ribadire, perché qualcuno con la sua ignoranza lo ha già fatto …) una superiorità che secondo me non esiste. Credo che il concetto di cultura debba fare i conti con quello di civiltà (che non è altro che il diritto naturale) e sotto questo punto di vista non starei ad affannarmi sulla nostra dipendenza dal greco se a suo tempo la nostra terra non fosse stato oggetto, sostanzialmente, di conquista, una delle tante: ecco perché siamo un crogiolo sì, ma di culture, non di civiltà. La cultura (quella del vincitore, non l’indigena) è figlia della guerra, non così la civiltà. Ecco perché, da sempre, la prima ha finito per prevalere sulla seconda; e non si sottraggono a questo infame destino la nostra attuale pretesa di esportare la democrazia e quella altrui di tagliarci la testa …

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