La friseddra ppoppitara

frise-frontback
ph Angelo Arcobelli
di Angelo Micello

La friseddra ppoppitara si distingue dalla frisa salentina in quanto consumata esclusivamente da popolazione indigena di etnia ppoppitara. Mentre la frisa salentina vive e viene consumata da bauscia milanesi e altre popolazioni esogene in interminabili eppiaurs spizziccata da pulitissime unghie laccate, la friseddra ppoppitara compie la sua vita solo pochi secondi, il tempo giusto di compiere il suo destino, quello di sfamare. A differenza della variante geneticamente modificata, la frisa, prodotta da spregiudicate industrie turistico-commerciali, la friseddra non ha bisogno di guide e corsi per essere consumata. Non servono specifici attrezzi di ammollamento, non serve consultare rinomati forum di cultura salentina per sapere come spargerci sopra l’olio e il sale, non serve sapere quale tipo di sottopiatto abbinare. La friseddra ppoppitara non ha mai avuto affianco a sè sul tavolo una lista di vini o di aperitivi. A essere pignoli, l’archetipo ppoppitaro non si è mai posato su un piatto ma direttamente su una banca, più spesso sul solo palmo della mano.

frisa

Nata appunto per sfamare nei campi e sul lavoro, la friseddra ppoppitara, vede la luce nella sua vita solo per pochi secondi: dal buio dei forni, al buio dei capasoni al buio di una bocca, tutto molto riservato, nessuno fino ad ora è mai riuscito a fotografarla o a stamparla su un cartello pubblicitario. Dicevamo che il consumo della frisa salentina, come per altre pietanze salentine, richiede una lunga preparazione pseudo-culturale del consumatore. In genere si parte da storie di popoli nomadi, passando per soldati crociati e si finisce col ricordo del nonno appeso alla parete. Il bauscia va rassicurato perchè il dubbio che gli si stia facendo mangiare pane raffermo bagnato vecchio di due settimane è insito in queste operose genti italiche. Invero in questi ultimi anni, l’attività della propaganda salentina ha forgiato intere popolazioni europee alla convivenza pacifica coi gechi in camera da letto e a comprarsi il nostro vino a un prezzo quintuplo rispetto a quello di dieci anni fa. La cultura salentina in questo decennio, alimentata da svegli commercianti, scaltri operatori turistici e immobiari e rimbambiti settantenni salentini, estranei a qualunque corrente culturale ppoppitara di origine, ha fatto miracoli. Sopravvivono, comunque, in questo estremo lembo di Puglia molte enclavi di etnia ppoppitara che perseverano le loro abitudini tra cui il consumo della friseddra e l’uso del termine scajone. Perchè non restino dubbi al lettore, ma non sia assolutamente una guida anch’essa, in quanto il consumo della friseddra non richiede guide, ne tanto meno il ppoppitaro ne conosce l’uso e il bisogno di un manuale, ricordiamo brevemente i tre sottotipi di friseddre ppoppitare: la friseddra de ccumpagnamentu, la friseddra a ssula e la friseddra ntru latte. Trattandosi di cultura ppoppitara per gente ppoppitara, e quindi letta in futuro lontano da solo pochi studiosi di antropologia culturale la trattazione sarà in ppoppitaro stretto. Friseddra de ccumpagnamentu: Spicciatu u pane friscu te tocca alla friseddra! La moddri a ru cappa cappa, a spatti su a banca culla faci a frissuli. Li suppi ntru brudinu de pummidori siccati e ta manci. Friseddra a ssula: No ssa mancia ciuveddri, meju li spranci susu nu pummidoru. La moddri, fuscennu fuscennu spranci susu do pummidori, oju, sale e prima te sponsa ntra manu e cu te cade tuttu nterra, ta ngnutti a tre uccuni. Friseddra ntru latte: La moddri, la spatti su a banca o la spranci ntra manu, la scoppi ntra coppa du latte e te spicci cu giunci u zzuccuru prima ca a friseddra se suca tuttu u latte.

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