Brigantaggio meridionale. Quintino Vènneri detto “Macchiorru”

Un pericoloso brigante che agiva nel Basso Salento tra il 1861 e il 1865

QUINTINO VENNERI

detto “Macchiorru”1

Insieme con una masnada di delinquenti depredava masserie, rapinava ricchi possidenti, irrideva le autorità che avevano accettato supinamente la monarchia dei Savoia.

di Rino Duma

Premessa

Subito dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, in quasi tutti i paesi dell’ex-Regno delle Due Sicilie, si verificarono sanguinose insurrezioni di cittadini fedeli a re Francesco II di Borbone. Nella maggior parte dei casi era il deposto monarca a sobillare e finanziare il brigantaggio per screditare il nuovo governo, rovesciarlo e riappropriarsi del potere.

Anche nel basso Salento si riscontrarono sommosse e scaramucce tra le forze militari e le bande di briganti, che tennero in scacco intere popolazioni, seminando ovunque terrore e morte per diversi anni (1861-65).

Guai a parlar bene e in luogo pubblico dei Savoia: l’imprudente di turno avrebbe corso il rischio di essere malmenato o, peggio ancora, ammazzato dai briganti. Per tale motivo nessuno osava esprimere parole di dileggio contro il vecchio regime o, ancor di più, esaltare il nuovo. Il terrore di una possibile rappresaglia era sempre sovrano e scattava inesorabilmente nei confronti di chiunque. I paesi, che nel basso Salento furono maggiormente colpiti da tali fenomeni malavitosi, erano Poggiardo, Spongano, Ortelle e Diso sul versante adriatico, mentre Melissano, Felline, Alliste, Racale e soprattutto Taviano su quello ionico. In alcuni casi i malviventi occupavano le sedi municipali, bruciavano i ritratti dei sovrani e il tricolore, abbattevano gli stemmi reali e distruggevano archivi e suppellettili di stato. Dopo ogni sortita, i briganti si rifugiavano nelle intricate macchie delle Serre salentine, dove era quasi impossibile scovarli. Per di più questi uomini godevano del pieno sostegno dei contadini, che offrivano loro rifornimenti, riparo e, soprattutto, mantenevano un silenzio omertoso. Il comandante del presidio militare di Terra d’Otranto, Marchetti, interrogato dalla commissione parlamentare sul brigantaggio, dichiarò di non aver mai ottenuto informazioni da chicchessia, neppure dietro pagamento, come se si volesse giustificare di non aver mai catturato un brigante.

un dipinto di Gioacchino Toma
un dipinto di Gioacchino Toma

Il brigante Quintino Vènneri

A parziale differenza dei banditi lucani e dell’alto Salento, che sposarono la causa brigantesca per motivi esclusivamente politici, il nostro Quintino Vènneri imbracciò lo schioppo, insieme con altri malavitosi, soprattutto per procacciarsi da vivere. Il violento personaggio faceva razzie nelle case dei signorotti di stampo chiaramente liberale, ma, alla bisogna, non mancava di colpire benestanti di credo borbonico.

Quintino Ippazio Vènneri nacque ad Alliste il 20 ottobre 1836 da Leonardo e da Raffaela Manni. Di carattere vivace ed estroverso, mal sopportava le ingiustizie e le prepotenze di certa gente; ciò nonostante era sempre rispettoso delle regole ed era un buon lavoratore. La sua condotta morale era ineccepibile, così come quella politica, sempre fedele al governo borbonico. Nel 1859 si arruolò come recluta, prendendo poi parte alla famosa e decisiva battaglia del Volturno, che segnò l’inizio della disfatta borbonica. Alla fine di quell’anno se ne tornò sbandato e molto sfiduciato nella sua Alliste, mantenendo sempre integra la condotta morale.

Con il trascorrere dei giorni si sviluppò nel Salento una reazione sempre più aspra nei confronti dei piemontesi vincitori, rei di aver completamente sovvertito ogni aspetto della vita economica e sociale. Dalla fine del 1860 in poi Quintino abbandonò l’irreprensibile stato sociale di buon cittadino, che nulla più gli assicurava, per darsi al brigantaggio insieme con altri reietti della zona e procacciarsi lo stretto necessario per sbarcare il lunario. Proseguì in questa scellerata vita banditesca sino a quando il 7 aprile 1861 venne arrestato per reiterate rapine e maltrattamenti nei confronti di alcuni possidenti della zona. Durante il periodo detentivo, molto duro e mal sopportato, Quintino giurò di vendicarsi di coloro che lo avevano accusato e di combattere con ogni mezzo l’arroganza e la sopraffazione delle famiglie più abbienti, colpevoli, secondo il suo convincimento, di aver sottratto alla povera gente ogni mezzo di sostentamento. Ritornato in libertà vigilata, l’uomo andò via dal paese per ritornarvi verso la fine del 1862.

Datosi alla macchia, il Vènneri organizzò una banda di briganti, che via via s’ingrossò sino a raggiungere ben 24 elementi, tra cui spiccavano i nomi di Vincenzo Barbaro di Villapicciotti (Alezio) detto Pipirussu, Barsonofrio Cantoro di Melissano, Ippazio Ferrari di Casarano, Ippazio Gianfreda di Alezio detto Pecuraru, Giuseppe Piccinno di Supersano detto Mangiafarina, Angelo Ferrara detto Mustazza, Antonio Sansò detto Ghetta eGiuseppe Tremolizzo (questi tre ultimi di Villapicciotti). Vènneri compì diverse azioni delittuose, la prima delle quali fu quella sferrata alla caserma della Guardia Nazionale di Ràcale, come avvertimento e dimostrazione di forza della sua banda. Seguirono altre numerose schermaglie tra i briganti, sempre più organizzati e baldanzosi, e le forze dell’ordine, che nella maggior parte dei casi subivano attacchi improvvisi e di breve durata. I malviventi, dopo ogni assalto e dopo aver fatto veloce razzia di armi, polvere da sparo e soldi, si rifugiavano precipitosamente nella sicura boscaglia, coperti dai contadini.

La più grave delle azioni delittuose della ormai famigerata banda fu senz’altro quella perpetrata in danno a don Marino Manco, sacerdote di Melissano, il quale fu impietosamente e barbaramente ammazzato in pieno centro cittadino alle due e un quarto di pomeriggio. I motivi principali che indussero i briganti ad accanirsi contro il prete erano riconducibili soprattutto a rancori personali, ma non mancavano quelli di natura politica. Infatti pare che don Marino, in occasione dell’omelia domenicale, avesse inveito aspramente contro i briganti, accusandoli di continue ruberie nel circondario. A conclusione della stessa, il sacerdote invitava i cittadini a denunciarli alle autorità, qualora fossero a conoscenza di eventuali notizie.

Leggendo gli atti processuali del tribunale, emerge chiaramente il succedersi dei fatti contestati al Vènneri.

Alle tre di notte del 24 giugno 1863, un nutrito gruppo di briganti entrò in Melissano alla spicciolata, senza farsi notare. Arrivati nei pressi della piazza, la masnada di malviventi si divise in due gruppi: il primo si attestò nei paraggi della stazione dei carabinieri, a solo scopo di sorveglianza, mentre il secondo si diresse verso la casa del sacerdote. Giuntovi, il Vènneri bussò più volte alla porta.

Apri, don Marino, sono un messo di Gallipoli e vi porto un plico del sottogovernatore” – disse il bandito con voce rassicurante.

Don Marino, data la tarda ora, rifiutò di aprire la porta.

“Perché mai un commesso dovrebbe portare un dispaccio a quest’ora di notte?… Tornatene in pace da dove sei venuto!” – gli ribatté con voce tremula il prete.

I briganti, piuttosto innervositi, iniziarono a battere con violenza con il calcio dei fucili tanto da sfondare quasi la porta.

“Apri, carogna fottuta, altrimenti farai una brutta fine!” – replicarono quelli.

Il sacerdote, per non complicare ancor di più la già grave situazione, a malincuore preferì cedere all’imposizione, nella speranza che i malviventi si sarebbero accontentati delle poche monete d’oro in suo possesso, di vestiario e di cibarie.

Dopo averlo più volte strattonato, Quintino Vènneri pretese da don Marino mille ducati in cambio della sua vita e di quella della perpetua. Non ricevendo una risposta adeguata, i briganti misero sossopra l’intera canonica, impadronendosi di 170 monete da dodici carlini l’una, di due fucili «alla fulminante», di due orologi d’argento, di tredici camicie, di dieci fazzoletti da donna, di tre rotoli di polvere da sparo, di numerose forchette e cucchiai di ferro stagnato e di alcuni candelieri.

“Brutto assassino che sei, ai carabinieri dài da mangiare a volontà e a noi non vuoi dar nulla!” – inveì duramente uno dei briganti.

Non contenti del bottino rimediato, costrinsero il prete a recarsi in casa di alcuni conoscenti per farsi dare delle piastre d’oro, tenendo in ostaggio la perpetua e scortando il prete a debita distanza.

Solo allora don Marino fu liberato, ma dietro giuramento di non denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine, pena la sua stessa vita. Come ultimo atto di prepotenza, i briganti distrussero gli stemmi italiani e i tricolori del Municipio e del Corpo di Guardia.

All’indomani, don Marino, scordandosi del giuramento, si recò alla stazione dei carabinieri di Casarano a presentare regolare denuncia, dichiarando di aver riconosciuto il bandito Barsonofrio Cantoro, che era suo compaesano.

Il poverino, però, così facendo, sottoscrisse la condanna a morte.

Le forze dell’ordine iniziarono immediatamente le indagini. A seguito di varie ispezioni, i carabinieri rinvennero in casa dei genitori del brigante, in Alliste, una consistente somma di denaro. Alla richiesta di dare spiegazioni, il fratello di Quintino rispose asserendo che si trattava del ricavato della vendita di orzo, avena e paglia. I carabinieri non credettero alle giustificazioni dell’uomo, per cui lo arrestarono conducendolo dapprima nel carcere di Ugento, per poi trasferirlo nelle prigioni del capoluogo.

Appresa da sua madre la notizia dell’arresto, Quintino Vénneri montò immediatamente in sella e con altri sei malfattori si diresse a Melissano per fare giustizia sommaria.

Don Marino, che mai avrebbe pensato ad una sortita dei briganti in pieno giorno2, usava dopo ogni pranzo fare una rigenerante passeggiata per le strade del paese. Transitando per la piazza principale, si ritrovò di fronte sette persone malintenzionate e con il volto coperto.

“Buongiorno, don Marino, siamo venuti a farti il regalo, come d’altronde t’avevamo promesso!” – sentenziò Ippazio Prete, il quale gli puntò contro il fucile, sparando per primo contro il pover’uomo. Gli altri lo seguirono in rapida successione. In seguito il cadavere fu sgozzato con la punta di una baionetta e fatto rotolare più volte nella polvere.

Il grave fatto di sangue risuonò per tutto il Salento per diverso tempo. Al Vènneri fu data caccia spietata, sin quando non fu arrestato. Ma, dopo poco tempo, riuscì ad evadere, grazie ad un carabiniere amico (?), e a nascondersi nella macchia salentina più folta. Ma non vi rimase per molto tempo, perché, riallacciati i rapporti con alcuni compagni superstiti, ritornò più che mai a delinquere.

Alla testa di un corposo gruppo di malviventi e travestito da militare, Quintino Vènneri bussò una sera al corpo della Guardia Nazionale di Ràcale, asserendo di dover consegnare due detenuti. Aperta la porta, i briganti disarmarono i militari, sequestrando polvere da sparo, tre pistole, alcune sciabole e cinque fucili, per poi darsi precipitosamente alla fuga.

Il brigante continuò per altri due anni nell’azione malavitosa, ma ormai il cerchio gli si stava stringendo attorno. Venne infatti ucciso il 24 luglio 1866 in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Gli fu trovato, stretto tra le mani, il fucile di cui andava tanto fiero. Il suo cadavere, posto su di un carro scoperto, fu fatto sfilare per le vie di Ruffano, Casarano, Melissano, Taviano ed infine Alliste, dove fu esposto in piazza per un giorno intero, come avvertimento per gli abitanti.

Furono in pochi a piangerlo, ma il suo nome vaga ancora per le vie di quegli ameni paesi del basso Salento e, se si presta attenzione, si ode ancora il suo grido: Viva Francesco II, abbasso i liberali, viva i piccinni3 nostri!.

1 “Macchiorru” – Il nome sta ad indicare Melchiorre

2 Nota – Il prete, per paura che i briganti lo cogliessero nel sonno, preferiva asserragliarsi di notte in cantina.

3 Nota – …Viva i piccinni nostri – Vuol significare “viva i nostri compagni (di lotta)”.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

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4 Commenti a Brigantaggio meridionale. Quintino Vènneri detto “Macchiorru”

  1. Fin dalle prime righe questo articolo “non si riesce a leggerlo”. Ribaltamento (ancora!) della storia! Non confondete cortesemente il brigantaggio pre-unitario a quello post-unitario … i Briganti (termine usato non a caso dai piemontesi per screditare il tutto) post-unitari, altro non furono che partigiani desiderosi di scacciare l’invasore. Non necessariamente borbonici! Carmine Crocco fu garibaldino, ma tornato dalla guerra (che fu un vero e proprio atto di invasione verso il Regno delle Due Sicilie) notò che le promesse piemontesi erano solamente menzogne. Ecco perchè i “briganti” si ribellarono! Videro la loro terra fatta a pezzi, stuprata insieme alle proprie donne, le proprie figlie, furono torturati, privati di tutto … onestamente mi sarei infervorata un tantino anche io! E la legge marziale, la famigerata Legge Pica, era piemontese! Fu Cialdini a giudicare sommariamente centinaia di cittadini del Sud con la stupida accusa di essere briganti, con la stupida accusa di aver nominato “invano” i savoia. Sono 153 anni che nascondono la verità e voi continuate l’opera … avete scelto il nome di Terra d’ Otranto, una delle province del Regno delle Due Sicilie … non usate unicamente come brand.
    Daniela

  2. visto che si è messo a raccontarci la storia del cattivo brigante “Macchiorru”,perchè ha omesso di raccontare cosa fecero al fratello del brigante ?non aveva più spazio?

  3. Il mio prozio, sacerdote e magistrato, don Marino Manco non aveva simpatie né per i Savoia né per le istituzioni borghesi. Vedeva in Garibaldi il rivoluzionario che avrebbe messo fine alla mano morta della chiesa, al latifondo, al disumano divario economico tra ricchi e poveri. Purtroppo non prestò la dovuta attenzione alle riserve di Mazzini sull’impresa dei Mille.

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