Tutto, ma proprio tutto, sul fico d’India

fichi d'india

Il munifico fico d’India

di Massimo Vaglio

Il fico d’India, è una pianta appartenente alla famiglia delle Cactacee e al genere Opuntia, caratterizzato da una moltitudine di specie, la maggior parte delle quali d’interesse ornamentale. La specie più importante dal punto di vista colturale e alimentare, è l’Opuntia ficus indica Mill., della quale si distinguono diverse cultivar in base alla colorazione della polpa del frutto (cui corrisponde in genere la colorazione della buccia) bianca, gialla, rossa.

Si conoscono, anche se poco diffuse, delle varietà a frutto senza semi (apirene) e la Burbank (Opuntia inermis), caratterizzata dall’assenza di spine. Le cultivar più diffuse nel Salento sono: quella a polpa gialla, molto produttiva; seguita a ruota dalla varietà a polpa rossa e a distanza dalla cultivar a polpa bianca.

La pianta risulta da un aggregazione di articolazioni carnose costituenti le pale o cladodi, queste, in periferia hanno consistenza succulenta e risultano tenere e appiattite, man mano, avvicinandosi alla base,  acquisiscono consistenza fibro-legnosa, ingrossano e costituiscono il fusto. Le foglie, sono appena visibili e nascono alla base di varie gemme sparse sulla superficie delle pale. Intorno alle gemme sono disposti gli aculei, o setole, più o meno lunghi e rigidi. Dalle gemme situate sui bordi delle pale si sviluppano le nuove pale e le infiorescenze che daranno luogo ai frutti.

Il fico d’India, è una pianta che si propaga per talea, interrando parzialmente, alla fine dell’inverno, un ramo o una pala di almeno due anni,  non richiede cure colturali anche se nei primi anni d’impianto è utile una potatura di formazione, onde farle opportunamente acquisire, una razionale forma a ventaglio. Le piante, non sono generalmente soggette ad attacchi parassitari tali da richiedere interventi di lotta.

Per ottenere frutti più tardivi, più conservabili, più grossi e quindi più pregiati, in alcune aree, si ricorre allo scoccolamento o scoccolatura, pratica che consiste nello staccare, nella prima decade di giugno, i frutticini della fioritura normale, cioè di quella che avviene normalmente nella seconda quindicina di maggio. In conseguenza di questa mutilazione, la pianta emette una seconda fioritura da cui si sviluppano, appunto, frutti più grossi che maturano in autunno, spesso distinti con l’appellativo di bastardoni. Anche se ormai da molto tempo la sua immagine è divenuta uno stereotipo assurto a simbolo iconografico di mediterraneità, il fico d’India ha ben poco a che fare con il Mediterraneo essendo originario del Messico da cui secondo l’ipotesi più accreditata pare sia arrivato dopo la scoperta dell’America. Invero, ancora resiste, mai del tutto confutata, anche un’altra ipotesi che lo vorrebbe approdato in Sicilia con i Saraceni al tempo dello sbarco di Mazara, di certo, ormai da un bel po’ di secoli prospera, perfettamente acclimatato, in tutte le regioni più calde del bacino del Mediterraneo ove, evidentemente, ha trovato condizioni pedo-climatiche più che favorevoli. Si ricorda,  che al tempo dei primi reportage giornalistici sui delitti di mafia in Sicilia, alcuni fotoreporter giravano con una pianta di fico d’india nel cofano dell’auto che avevano sempre cura di sistemare sulle cruente scene che andavano ad immortalare. A parte il folklore e l’indubbia piacevolezza estetica delle sue piante che valorizzano e rendono sovente a dir poco pittoreschi tratti altrimenti aridi e squallidi, il fico d’india dovrebbe essere apprezzato anche per le sue numerose e non comuni proprietà nutrizionali. Zuccheri, calcio, fosforo e vitamine sono le preziose sostanze da questo più copiosamente offerte e che in tempi meno opulenti ne hanno fatto un alimento apprezzato con cui, le famiglie di contadini residenti nelle nostre campagne integravano ampiamente, con indubbi benefici, la parca dieta. Interessanti, pure le proprietà terapeutiche degli estratti dei cladodi (le pale) che sono efficacissimi nel facilitare la diuresi, nell’eliminazione dei calcoli renali e nella riduzione dei livelli di colesterolo e di glucosio ematico. Oggi, il fico d’India, è però al centro dell’interesse dei ricercatori di varie università per i suoi componenti colorati di cui è stata accertata l’efficacia anti radicalica e antiossidante certamente utile nella prevenzione di molte malattie degenerative e di alcuni tumori. Gli antiossidanti del fico d’India, sono due sostanze dai nomi difficili, o meglio due composti betalainici: la betanina rosso porpora, naturalmente presente nei frutti a polpa rossa; e l’indicazantina gialla, con potere riducente molto spinto, presente nei frutti a polpa gialla. La loro efficacia contro i radicali d’origine chimica è superioe a quella del Trolox, l’analogo chimico della vitamina E, farmaco, attualmente maggiormente impiegato come antiossidante biologico.  Numerosi studi hanno stabilito che la betanina e l’indicazantina sono in grado di fornire marcata protezione tanto alle cellule, quanto alle lipoproteine (Ldl), contro l’ossidazione, ed essendo ormai indiscussa la relazione tra l’ossidazione di Ldl e l’insorgere di processi aterogenetici si prospettano rapidi sviluppi nelle applicazioni farmacologiche. Molto interessanti gli esperimenti condotti su un significativo panel di persone, cui pur consentendo di seguire un regime di dieta normale, sono stati fatti ingerire 500 g. polpa di fichi d’India al giorno per tre settimane. Le analisi effettuale sul sangue prima e dopo la somministrazione hanno mostrato un marcato aumento di antiossidanti plasmatici quali le vitamine C ed E nonché, una più che significativa riduzione delle sostanze prodotte dai normali processi ossidativi. Pochi frutti, inoltre, risultano incontaminati dal punto dei residui fitosanitari, come i fichi d’India, in quanto, come sopra ampiamente illustrato, almeno nel nostro Salento, alle coltivazioni non viene generalmente prestata alcuna “cura”, meno che mai trattamenti fitosanitari (peraltro non necessari) e concimazioni chimiche. Nonostante ciò, questa coltura è purtroppo in progressiva drastica diminuzione, tuttavia, chilometri di siepi e decine di migliaia di gruppetti di piante danno ancora luogo ogni estate ad una copiosa emissione di gustosi frutti, in larghissima parte biologici, che in gran parte vengono lasciati perire sulle piante. Infatti, le fastidiose spine che li costellano, costituiscono un serio  deterrente per le nuove generazioni, che figlie della società dei consumi sono abituate alla comodità del tutto pronto e subito. In effetti, la raccolta di questi frutti, non costituisce un’operazione pericolosa e nemmeno più di tanto laboriosa, infatti, dopo il primo acquazzone di fine estate, larga parte delle spine cade e sono tanti i mezzi con cui evitare le spine residue: il cosiddetto coppo, che sarebbe una sorta di bicchiere di latta fissato a 90° al vertice di un’asta; la scopetta, utile per rimuovere le spine prima di raccogliere i frutti; la pinza da insalata, e infine il mezzo più funzionale e rudimentale di tutti, che consiste in una comune busta di plastica del tipo di quelle adoperate per impacchettare la pasta che basterà indossare a mo’ di guanto per ottenere una protezione efficace per staccare in completa sicurezza i frutti dalle pale. Una volta portati a casa, sarà sufficiente porli in una vaschetta e coprirli d’acqua, operazione che neutralizza completamente le spine, onde poter procedere in completa tranquillità alla loro nettatura. Qualche ora di permanenza in frigo ne esalterà ancora di più il sapore.  In parole povere, il consumatore alla ricerca di alimenti genuini, troverà nei fichi d’India dei frutti nutrienti, sani, puliti, freschi, gustosi e ricchi di componenti utili a mantenere un buono stato di salute, e a rallentare i processi d’invecchiamento cellulare. Infine, con siepi di queste produttive e piacevoli piante, che in molte aree svolgono una preziosa opera di protezione del suolo, si potrebbero abbellire o rendere meno squallide molte aree del nostro territorio, non escluse le centinaia di aree degradate e zone industriali regolarmente invase da erbacce e rovi che con pochissima spesa e manutenzione acquisirebbero un aspetto certamente più attraente.

fichidindia

 

Bucce di fico d’India fritte

Quest’antica ricetta salentina, appartiene al novero di quelle preparazioni autarchiche figlie della fame che, come sappiamo, aguzza l’ingegno. Si scelgono le bucce di fichi d’India più mature, ma al contempo sode e carnose e si privano, a mezzo di una lama molto affilata, della pellicina esterna. Si passano nell’uovo sbattuto, quindi nella farina e si friggono in olio extravergine d’oliva ben caldo. Una volta acquisita un’invitante colorazione dorata si estraggono e si pongono su carta assorbente a perdere l’olio in eccesso, ancora ben calde si cospargono di zucchero semolato o di miele e si servono subito.

Liquore di fichi d’India

In un vaso di vetro a chiusura ermetica della capacità di due litri, ponete 500 grammi di polpa di fichi d’india gialli o rossi; 500 grammi di zucchero, e 400 grammi d’alcool a 95°. Lasciate macerare tutti gli ingredienti nel vaso di vetro per almeno un mese, agitando frequentemente. Lasciate stagionare per almeno un altro mese in cantina, quindi colate, filtrate, imbottigliate e tappate. Otterrete un delizioso liquore da circa 38-40 gradi alcolici, dall’attraente colorazione e rispettoso delle caratteristiche organolettiche dei frutti impiegati. Particolarmente adatto ad essere servito molto fresco a coronazione di un ottimo pasto, come dessert e comunque apprezzabile in qualunque momento della giornata.

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17 Commenti a Tutto, ma proprio tutto, sul fico d’India

  1. aggiungerei anche che alcuni Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo ne ricavano un olio per la cosmesi che ,molto ricercato, rappresenta per gli imprenditori locali una fonte di reddito non disprezzabile.

      • viste le date della mia osservazione, quello della richiesta di approfondimento e questa mia risposta, prevedo la continuazione nel 2023. Comunque Essendo il consumo di marmellata di fico d’india molto sviluppato nel Magreb, alcune aziende tolti i semi, inutili e fastidiosi nella marmellata, li utilizzano con semplici macchine che ne ricavano un olio cosmetico che all’utenza finale (privato o piccolo laboratorio) costa oltre 1000€/kg. Dalla data del mio primo intervento, in Sicilia ne producono di biologico, con sufficiente riscontro economico. Purtroppo la terra, che è anche la mia e parlo del Salento non mostra disponibilità imprenditoriale agricola nei settori nascenti. e vorrei tanto sbagliarmi.

  2. Lei allude allo spiacevolissimo e per certi versi terrificante inconveniente, legato al consumo eccessivo di fichi d’india (senza sputare i semi che, in presenza altrui, non è certamente un gesto elegante), magari in concomitanza con la consumazione di uva e formaggio, il che crea nell’intestino un vero e proprio tappo. E pensare che basta veramente poco: appena consumati i fichi d’India (anche più di venti) bere un semplice bicchiere d’acqua. Colgo l’occasione per ricordare che il verbo usato a Nardò per riassumere l’imbarazzante (dal punto di vista intestinale e non solo) situazione è “’mpiscare”, deformazione del francese “empêcher”=impedire, che è dal basso latino “impedicare”=mettere in lacci, impigliare, a sua volta composto dal classico “in”=dentro+”pèdica”=trappola, legame; “pedica”, infine, è da “pes/pedis”=piede (l’immagine deriva dal mondo contadino perché con la pastoia alle zampe l’animale non ha grande libertà di spostamento).

  3. OK, tutto bene, ola kalà. Non sono d’accordo, però, sul bicchiere d’acqua come preventivo di una temutissima occlusione intestinale, dovuta alla formazione di un fecaloma nell’ampolla rettale, ovvero di quel che è stato chiamato col nome di “tappo” (non vorrei che qualcuno, confidando ciecamente in questo rimedio, si abbandoni a grandi scorpacciate, con quel che ne può conseguire). Quando si verifica una simile situazione, in Sardegna si dice che si è “impitrati”, ovvero che si è impediti da un impilamento di pietre. Aggiungo anche che sempre in Sardegna il fico d’India è conosciuto col nome di “figa murisca”, giusto per rimarcare l’altra ipotesi che lo vuole importato dai saraceni.

    • personalmente questo autunno per quasi un mese di seguito ne ho mangiato300/ 400 g sbucciati un giorno sì e un giorno no e non ho avuto tutti questi problemi, e vero però che sono un tipo che abitualmente beve sia durante che dopo i pasti

  4. Le sono grato per l’invito alla prudenza nell’adottare un rimedio che con il sottoscritto e con altri che, su mio suggerimento, l’hanno adottato ha funzionato. Un organismo, però, non reagisce come un altro e, nella fattispecie, se uno soffrisse già per conto suo di stipsi, credo che sarebbe inefficace anche una damigiana d’acqua. Perciò, se qualcuno volesse provare (fra un anno ormai …), sarebbe opportuno che lo facesse aumentando il numero di fichi d’India man mano che la dose precedente, accoppiata al bicchiere d’acqua, non ha creato problemi di sorta.

  5. non avere il tappo è molto semplice . basta eliminare i semi con una semplice frullata si separano facilmente dalla polpa ed essendo molto pesanti si sepositano in fondo al bicchiere – il succo tenuto per qualche tempo nel frizer è una meravigliosa bibita –

  6. Mia suocera salentina diceva che però dopo i fichi d’india non si può bere acqua, ma solo vino o alcolici, pena il mal di pancia. Allora non è vero, si può bere acqua?

    • esattamente l’opposto. Oltre l’uva sono particolarmente controindicate le melagrane. Questo a causa dell’elevata quantità di semi dei due frutti che potrebbero ristagnare a livello del retto sino a creare un “tappo”. Le conseguenze sono ovvie

  7. Salve, sono palermitano e vivo da parecchi anni a Santo Domingo nei caraibi, qualche anno fa sono riuscito a partarmi dalla Sicilia varie pale di ficodindia le ho trapiantate secondo le istruzioni di un contadino che li coltiva in Sicilia e sono cresciuti, pero dopo circa 7 anni non hanno ancora fatto frutti, ultimamente le piante stanno diventando di un colore opaco sul biancastro…. e molte pale si deformano… che mi potete consigliare per far fare i frutti? Grazie anticipate e colplimeti per L’articolo

  8. VIVO NEL SALENTO, HO PIANTATO DELLE PALE DI FICO D’INDIA, ALCUNE SI SONO RIPRODOTTE, ALTRE NON HANNO DATO ORIGINE A NUOVE PALE, SI TROVANO NELLO STESSO FILARO, ALTRE INVECE BEN CRESCIUTE DANNO POCHISSIMI FRUTTI RISPETTO AD ALTRE DELLO STESSO FILARO

  9. desidero sapere perche il mio fico d india non fruttifera mi trovo a 100 metri livello del mare buone condizioni climatiche piante con ottimo sviluppo grazie

  10. Perché i fichi d’india di Sicilia sono belli sodi, duri duri e quelli che raccolgo a Latina nel Lazio risultano si saporiti ma molli anche se raccolti verdi? Grazie

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