Aspettando la Notte della Taranta (4/4): “Malinconicu cantu, e allegru mai”: da Manduria a Parigi, da qui al deserto africano; e poi …?

di Armando Polito

Sono solo canzonette cantava sarcasticamente Edoardo Bennato nel brano di chiusura dell’omonimo album uscito nel 1980. Con lo stesso sarcasmo dico che è solo una canzonetta quella di cui mi occuperò oggi e per dimostrarlo comincio scomodando il n. 9765 del 22/11/1910 del quotidiano parigino Le Matin ( le relative immagini sono state tratte dall’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k569620g/f1.zoom.r=manduria.langEN).

Questa è la prima pagina.

Segue la quarta con  evidenziato in rosso lo scritto del quale mi occuperò oggi.

È un racconto dal titolo La lampe (La lampada)  inserito nella rubrica Contes des mille et un matins (Racconti di mille e un mattino) e reca la firma di Franz Toussaint (per ora basti il nome). Di seguito ho riportato il testo in formato immagine, tratto, adattato ed opportunamente assemblato dall’originale, cui di mio ho aggiunto la  traduzione a fronte e qualche nota esplicativa.

È giunto il momento di spendere su Franz Toussaint qualche parola per delineare la sua figura  al lettore che probabilmente su di lui ne sa quanto ne sapevo io prima di leggere il suo racconto.

Nato nel 1879, morto nel 1955, fu, oltre che scrittore, traduttore, orientalista e sceneggiatore di films muti (di uno,  Inch’Allah, eseguì anche le riprese nel 1922).

In questo racconto accanto alla dissimulata citazione dantesca vi è quella, imprecisa, di una canzone popolare di Manduria; ho detto imprecisa perché il verso riportato è l’ultimo si, ma, come vedremo, della prima strofa. Credo che questo sia dovuto al fatto che la citazione, secondo me è non diretta ma, per così dire, di seconda mano, cioè presa da Paul Bourget, Sensations d’Italie. Toscane, Ombrie, Grande-Grèce, Lemerre, Parigi, 1891, pagg. 278-279, cui appartiene l’immagine che segue (tratta da https://archive.org/stream/sensationsdital01bourgoog#page/n286/mode/2up) alla quale ho aggiunto, giuro che non lo dirò più …, la mia traduzione e qualche nota.

Nella nota 10 il viaggiatore Bourget parla di compagnon. Si tratta, però  di un compagno di viaggio assolutamente virtuale e che si concretizza nella parole che poco prima (pag. 275)  concludono  un racconto riportato, sempre popolare:

Le battute del dialogo, dunque, sono state trascritte dalla brochure del signor Gigli. Questo fantomatico signor Gigli è Giuseppe Gigli (1862-1921), letterato sostanzialmente autodidatta, nato a Manduria, autore di Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto con un’aggiunta di fiabe e canti popolari, Barbera, Firenze, 1893. Tale libro, tenendo conto dell’anno della sua pubblicazione (1893) e di quello dell’opera del Bourget (1891), non può essere la brochure di cui l’autore francese parla, anche perché esso consta di ben 280 pagine. La brochure, perciò, sarà una sorta di edizione ridotta che precedette quella maggiore o più precisamente quel  documento stampato in un numero limitato di esemplari di cui lo stesso Gigli parla nella prefazione:

Nella lettura, inviata presumibilmente anche al Bourget, compariva probabilmente solo la prima strofa (che poi l’autore francese trascrisse) della canzone, il cui testo completo comparirà, nel citato lavoro del Gigli uscito nel 1893, inserito nel capitolo che reca il titolo Il ballo della tarantola , capitolo che occupa le pagg. 66-71; qui, però, per brevità riprodurrò questa sezione fino al testo della nostra canzone, cioè le pagine 66-68) tratte, come la prefazione, dal link dove l’opera può essere letta integralmente (https://archive.org/details/superstizionipr00giglgoog):

Riassumiamo ora cronologicamente i fatti:

Fine 1888: Giuseppe Gigli raccoglie le testimonianze popolari che esporrà in una conferenza il 18 gennaio 1889. Di lì a poco stanperà la lettura e la invierà a molti dotti folkloristi d’Italia, di Francia (tra questi quasi sicuramente il Bourget) e d’Inghilterra.

1891: Il Bourget pubblica il suo lavoro e riproduce la prima strofa.

1893: Il Gigli pubblica il suo lavoro con il testo definitivo della canzone. Da notare che la prima strofa presenta varianti rispetto al testo riportato dal Bourget. Credo che siano errori di trascrizione di quest’ultimo: cacciati per càcciami; ai per aìa.

22/11/1910: Su Le Matin viene pubblicato il racconto La lampe di Franz Toussaint che fa un figurone quando, a proposito di  Ai nu cori e lu donai a ti!, non esita a dire che è  l’ultimo verso della malinconica canzone di Manduria. Il lettore noterà che il verso appare con le varianti segnalate nel Bourget.

Conclusione: Franz Toussaint avrà nella circostanza (che potrebbe anche essere parzialmente autobiografica visto che svolse il servizio militare in Marocco) fatto un figurone ma, essendo il testo del Gigli uscito ben diciassette anni prima, mostra di non essere aggiornato (questione di rete? …). A tal proposito si potrebbe discutere per secoli sulla libertà e sull’innocenza dell’artista, al quale, si dice, tutto va perdonato, compresi certi dettagli che eventualmente affliggano i suoi ricalchi, anche quando essi potrebbero apparire come citazioni infedeli …

Non sarà questo, comunque, l’ultimo ricordo della canzone di Manduria, perché Ernesto De Martino in La terra del rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 165 così scrive: In questa trasfigurazione dei patimenti d’amore, la donna tormentatrice diventa corega di una vicenda musicale in cui gli strumenti e le loro parti sono il corpo e l’anima dell’amante tormentato: un tema particolarmente adatto a far da orizzonte ai contenuti critici assunti di volta in volta nel rituale coreutico-musicale del tarantismo. In un canto della Terra d’Otranto raccolto verso il 1889 dal Gigli in Manduria, l’eros precluso si esprime in una lirica lavorata col noto tema popolare del distacco dell’amata per una partenza forzata.1

Segue il testo della canzone in cui, rispetto a quello del Gigli si notano queste varianti: v. 1: allegro per allegru;  v. 2; cacciàti per càcciami; v. 4: donai per dunai; tia per te; v. 5: arrivederci per arrividerci; addio per addiu; v. 6: non per nu; di per ti;  v. 7: non per nu; mio per miu; v. 8: mentre per mentri; sorte per sorti;  lontano per luntanu; v. 10: fama per fiama; v. 11: e per ma; v. 12: io per iu; l’ama per t’ama.2

La nota 97 rinvia a G. Gigli, Superstizioni, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, Lecce, 1889, pp. 23 sgg. Questo fa pensare che la lettura a stampa forse conteneva l’intera canzone ma, essendo il De Martino nato nel 1908, non può essere stato uno dei destinatari di quella lettura., anche se da quella deve aver tratto la sua citazione. Insomma anche lui, come Franz Toussaint, si mostra, con tutto il rispetto, filologicamente non aggiornato, peccato più grave per un etnologo che per un narratore, anche se a quei tempi non c’era il formidabile supporto della rete …

E ora, di fronte a  Malinconicu cantu, e allegru mai, chi avrebbe il coraggio di dire, non sarcasticamente, che si tratta solo di una canzonetta? Eppure essa non compare (questione di aggiornamento in rete?) tra i 250 titoli citati in http://www.laterradelrimorso.it/elencocanti e neppure sul sito dell’Archivio sonoro della Puglia (http://www.archiviosonoro.org/puglia/archivio/archivio-sonoro-della-puglia/fondo-accademia-nazionale-santa-cecilia.html ); a questo punto non mi meraviglierei neppure se la canzone non fosse stata registrata nemmeno una volta da qualche gruppo e, per farla completa, non fosse stata mai eseguita in nessuna edizione de La notte della taranta.

Si sa, se ne vanno sempre i migliori …

per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/25/aspettando-la-notte-della-taranta-14-aracne/

per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/30/aspettando-la-notte-della-taranta-24-spettacolare-taranta/

per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/07/aspettando-la-notte-della-taranta-34-da-taranto-a-napoli-e-da-napoli-a-parigi/

_____________

1 Sul topos della partenza e della commistione amore e morte propongo solo due esempi (il primo di Palermo, il secondo di Salaparuta) tratti da Giuseppe Pitrè, Canti popolari siciliani, Pedone-Lauriel, Palermo, 1871, pagg. 324 e 331:

Sta partenza pi mia è ‘na cosa amara,/nun m’aspittannu mai stu gran turmentu;/cci ha curpatu la sorti micirara,/a ch’ha vulutu lu nostru turmentu./Nun ti scurdari a mia,  Rusidda cara,/a costu di qualunqui mancamentu:/ca mortu stissu supra di la vara/nun mi scordu di tia sempri in eternu./

Sta partenza pi mia fu troppu amara,/mi livasti li spassi e gusti ancora,/senti la vuci mia chi ti dichiara,/chi t’amirò in eternu fina chi mora./- Si mori, o bella, addiu amanti cara:/vuja a ‘na sepurtura ora pr’ora;/iu gridu e gridiroggiu a vuci chiara:/-Binchì cinniri sugnu iu t’amu ancora-.

2 Di seguito il prospetto in base al quale sarà più agevole seguire il mio tentativo di ricostruire, confrontando  i singoli versi corrispondenti,  la sofferta vicenda della tradizione testuale della canzone che, probabilmente, dopo la sua rozza raccolta è stata oggetto di ripensamento:

Primo verso: l’allegro di b per l’allegru di a e c secondo me è un errore di lettura o di stampa.

Secondo verso: il càcciami (imperativo singolare) di c appare grammaticalmente più corretto del plurale cacciati  poiché uno solo è il complemento di vocazione (malinconicu cantu, e allegru mai) cui esso si riferisce.

Terzo verso: è identico in a, b e c.

Quarto verso: l’aìa comune a b e a c mi fa pensare che l’ai di a sia un errore di lettura o di stampa. Da notare, poi, in ossequio al vocalismo salentino il dunai di c che subentra al donai di a e b. Più complessa e difficile da definire la questione di ti di a che diventa tia in b e te in c: la forma metricamente più corretta è ti (e tii sarebbe stato ancora più corretta, ma le forme salentine in uso sono tu, tie, tia e te); tia di b potrebbe essere errore di lettura (o adattamento arbitrario?) del ti di a, mentre il te di c mostra di essere una soluzione intermedia tra ti e tia.

Quinto verso: da questo verso in poi manca la possibilità del confronto con a e in assenza di questo aiuto tutto diventa possibile:  arrivederci di b per arrividerci di c potrebbe avere la stessa genesi di allegro per allegru ma anche essere figlio della stessa italianizzazione di donai di a e b rispetto a dunai di c.

Sesto verso: a proposito di non di b per nu di c e a proposito di di di b per ti di c vale quanto detto per l’arrivederci del verso precedente.

Settimo verso: per non/nu vedi quanto detto per il verso precedente

Ottavo verso: tutte le parole di b (ad eccezione di mi chiama) sono italianizzazione di quelle di c.

Nono verso: è assolutamente identico (so di c per so’ di b è da intendersi come scelta grafica di rappresentazione o meno dell’apocope) in b e c.

Decimo verso: a proposito di fiama di c per fama di b vale quanto detto a proposito di arrividerci di c per arrivederci di b nel quinto verso.

Undicesimo verso: Ma in c per e di b.

Dodicesimo verso: io di b per iu di c potrebbe essere un altro caso di quegli italianismi di cui il Gigli parlava nella prefazione, non mantenuto nella stesura finale. L’ama di b per t’ama di c dev’essere senz’altro un errore di lettura, anche per la traduzione del tutto arbitraria che il De Martino ne fornisce: ti custodisce il mio cuore amante.

 

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4 Commenti a Aspettando la Notte della Taranta (4/4): “Malinconicu cantu, e allegru mai”: da Manduria a Parigi, da qui al deserto africano; e poi …?

  1. Caro Armando
    a proprosito di “sono solo canzonette” il nostro più noto “chansonnier” piemontese, Gipo Farassino, morto a dicembre dell’anno scorso, quasi ottantenne, aveva raccolto i testi delle sue canzoni in una bella edizione del 2002, curata dalla nostra associazioe “Ca dë Studi Piemontèis” Centro Studi Piemontesi, proprio con il titolo “A SON PEUI MACH CANSON” “SONO SOLO CANZONI”, quando in realtà, non tutte, ma molte sono delle vere e splendide poesie musicate. È certamente un vezzo, un falso senso di modestia.

    Sergio

    • Sì, perciò ho scritto “cantava sarcasticamente”; tuttavia credo che il sarcasmo, soprattutto l’autosarcasmo, esercitato da un artista (quello vero …), lungi dall’essere un “falso senso di modestia” (che, comunque lo si rigiri, sfocerebbe nell’ipocrisia e, in ultima analisi nella presunzione), sia un atto di “consapevolezza educativa” nel lanciare un messaggio, sia pure attraverso lo sberleffo e, se è necessario, una “parolaccia”.

  2. Hai perfettamente ragione. Farassino, col quale tra l’altro ho collaborato attraverso il Teatro Stabile di Torino, era un personaggio eccezionale, un vero artista sia nel campo musicale che nel campo teatrale. per noi è stata una grossa perdita.

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