Ascoltando Vecchioni al Politeama Greco

roberto-vecchioni

di Gianni Ferraris

Ascoltando Vecchioni al Politeama Greco. E’ stato un viaggio a ritroso nel tempo, siamo tutti più vecchi, ricordo, erano gli anni ’70 quando acquistai uno dei suoi primi album, si chiamava Elisir, conteneva brani che mi sono rimasti dentro, Velasquez, A.R. (Rimbaud), Effetto notte, Figlia, Pani e pesci ed altre. Sgorgava poesia. Da allora lo seguii: Samarcanda, Luci a San Siro, e fra le più belle quelle della prima parte della scaletta del concerto di Lecce: L’ultimo spettacolo, Dentro gli occhi, Ninni. 

Strano effetto rimbalzo, le poesie erano canzoni o viceversa, le emozioni, allora, in quegli anni densi di impegno e voglia di lasciarsi andare erano le stesse, forse avrei potuto detestarlo, diceva le cose che io sentivo mie. Eppure stavo ad  ascoltare le cose che mi sarebbe piaciuto saper scrivere… era bello.

Era struggente come l’intimismo di Vecchioni, lui mettere in piazza emozioni e sensazioni, anche le mie, forse molte di una generazione intera.

Mentre suo padre finiva di giocarsi il cielo a dadi e suo fratello non arrivava più a giocare sugli argini,  lui cresceva,  io ascoltavo. Ed oggi è arrivato con quell’album, l’ultimo, e quella canzone che, ancora una volta, accidenti a lui, sento un po’ mia. Dedicata a chi non ha voglia più di crederci, ai disillusi tutti. A quelli che tuttavia non riescono a non guardare, a non osservare, a non sentirsi inadeguati di fronte a quell’irreale vero che ci circonda. Quel “io non appartengo più”  in realtà è denuncia di fortissima appartenenza, quando ci sei dentro non riesci ad uscirne, quando vuoi capire e non ci riesci non molli la presa, riprovi e riprovi ancora. In fondo si è prigionieri in qualche modo.

 

…Sono sveglio dentro un sogno di totale indifferenza,
che persino tra le gambe mi si è persa la pazienza.
Io non appartengo al tempo del delirio digitale,
del pensiero orizzontale, di democrazia totale.
Appartengo a un altro tempo scritto sopra le mie dita,
con i segni di chitarra che mi rigano la vita.
Io l’ho vista la bellezza e ce l’ho stampata in cuore,
imbranata giovinezza a ogni antico nuovo amore.
Io non appartengo più, mi fa ridere lo ammetto,
ma vi giuro non lo faccio per malinconia o dispetto…

 

Non so se gli anni in cui lo “incontrai” furono meravigliosi o meno, non so neppure se è valsa la pena, in fondo. So che erano intensi e densi, che non c’era un attimo, un momento libero e che prima di addormentarmi lasciavo scorrere emozioni e malinconia anche. “Figlia, figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro finchè ti lasciano la voce…” cantava Vecchioni, ecco forse è il riassunto di un pensiero e un comportamento lungo quanto un ’68, sempre contro fino a quando non si era gettata sabbia negli ingranaggi del mondo che girava alla rovescia, dove i poveri non potevano che impoverirsi. Il sogno americano si frantumava per tutti quanti, ne avevamo uno italiano, fatto di conquiste e di emozioni forti. Forse sogni adolescenziali, chissà. Poi la storia ci ha scavalcati, qualcuno si è seduto, qualcun altro si è lasciato andare, altri hanno proseguito a guardare le cose della vita con aria sorpresa sempre.   Gli amori rincorsi sotto le luci di San Siro si sono trasformati, sono diventati maturi… molti sono marciti. Mentre  Guccini, diceva di Eskimo “… lo porta addosso mio fratello ancora, e tu lo porteresti e non puoi più…” per i più duri e puri valevano le parole de La Locomotiva “trionfi la giustizia proletaria…” anche se sapevamo, in fondo, che ormai erano parole che stavano entrando nel mondo delle fiabe. Forse della fede, esattamente come altre fedi. Una generazione sanguigna stava mutando dopo essere stata sedotta dall’utopia e travolta dalla realtà che non aveva saputo mutare. La caduta dei partiti sotto il peso delle tangenti era dietro l’angolo. Bombe e morti sui marciapiedi erano altro dalle speranze e dai desideri.

C’erano molti giovani ad ascoltare Vecchioni, ed applaudivano. Ognuno con la rilettura delle parole secondo il proprio sentire, il vissuto personale. E’ la grandezza di chi scrive, riuscire a far vibrare  più emozioni. “Con l’occhio azzurro io ti salutavo, con quello blu io già ti rimpiangevo”… molti l’hanno vissuto, nessuno nello stesso modo, con identica intensità. Eravamo in molti ad ascoltare, ognuno immerso nelle sue sensazioni, quasi impermeabili a quel che avveniva attorno. 

 

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