Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode

di Marino Caringella

 

 

Lecce, Chiesa di Sant'Irene, Giovan Bernardo Azzolino, Angelo Custode, olio su tela (cm.280x160), foto Sovrintendenza B.S.A.E. di Puglia
Lecce, Chiesa di Sant’Irene, Giovan Bernardo Azzolino, Angelo Custode, olio su tela (cm.280×160), foto Sovrintendenza B.S.A.E. di Puglia

Tra i culti approvati dalla Chiesa della Controriforma quello dell’Angelo Custode vide la propria ufficializzazione nel 1608, con l’autorizzazione da parte della Congregazione dei Riti alla diffusione dell’ Officium Angeli custodis dei cardinali Roberto Bellarmino e Ludovico De Torres, e l’introduzione di uffici e messe dedicate al divino compagno e confidente. Quattro anni dopo, le prediche del gesuita Francesco Maria Albertini “fatte nella Chiesa della Casa professa di Napoli” confluivano nel Trattato dell’Angelo Custode, in cui si sviluppavano le raccomandazioni a venerare gli angeli e ad affidarsi al loro sostegno nelle faccende spirituali e secolari[1]. Tali concetti erano già stati espressi da Francesco di Sales nell’Introduction à la vie dévote (1608), in cui il santo vescovo di Ginevra ricordava, tra le altre cose, come il gesuita Petrus Faber, percorrendo “le rudi montagne savoiarde” in cui aveva attecchito il protestantesimo, fosse “quasi fisicamente” protetto dagli angeli negli “attacchi degli eretici”, e che le celesti creature lo aiutassero “a fecondare molte anime dalla dottrina della salvezza”. Ben si comprende, dunque, come il dilemma del fanciullino sperduto “come il giovane Tobia, quando s’incamminò a Rages”, diventi il simbolo dell’anima incerta nella scelta tra cielo e inferno, e che l’iconografia dell’Arcangelo Raffaele che indica la via del paradiso possa essere letta in chiave di ammonimento a seguire, lungo il sentiero della vita, l’ortodossia degli insegnamenti della Chiesa cattolica e a rifuggire ogni pericolosa tentazione protestante.

Sebbene inizialmente diffuso in ambito gesuita, il culto non poteva rimanere estraneo all’ordine dei Chierici Regolari Teatini, fondato assieme a san Gaetano di Thiene da quel Gian Piero Carafa che, salito al soglio di Pietro col nome di Paolo IV, avrebbe imposto il suo programma di riforma e lotta contro gli eretici. Si giustifica così la presenza dei due dipinti gemelli dell’Angelo Custode issati nelle chiese teatine di Napoli (Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone) e di Lecce (Sant’Irene), entrambi opera di Giovan Bernardino Azzolino (Cefalù, 1582? – Napoli, 1645) e databili al terzo decennio del Seicento[2].

Il tema dell’Angelo Custode sarà più volte ripreso dal pittore siciliano anche per la committenza francescana, per esempio in uno degli elementi del polittico di Manfredonia[3] e, come parte di un insieme più complesso, nell’inedita Madonna delle Grazie rinvenuta da chi scrive nella chiesa dei santi Martino e Lucia di Apricena, ma proveniente dalla locale chiesa dei Cappuccini, dove era addossata “sulla parete, in fondo, della più grande delle due navate”[4]. La tela rappresenta una commistione di temi iconografici, primo fra tutti quello della Virgo lactans, il cui latte è di ristoro per le anime dei purganti e fonte della grazia che ricade sui santi che si affollano ai suoi piedi[5]. A questo tema principale si uniscono quelli della Regina Angelorum, cui allude il turbinio di angioletti che circondano la Vergine incoronata, e della Immacolata, cui si riferiscono la palma, il ramoscello d’olivo, il serto di rose e gigli che recano i due angeli maggiori[6].

La parte mediana della tela è invece occupata dai difensori delle anime contro le insidie diaboliche: i due arcangeli, Michele, titolare dell’omonima Provincia Minoritica in cui insiste il convento apricenese, ritratto come guerriero e psicopompo, e, per l’appunto, Raffaele, nelle vesti dell’Angelo Custode che indica al fanciullo la via del cielo.

In posizione leggermente più rilevata è la figura del san Giuseppe il cui culto, diffuso tra i Francescani da Pietro d’Alcantara, fu sancito definitivamente da papa Gregorio XV nel 1623. Qui è raffigurato come un vegliardo che con una mano regge il bastone fiorito, simbolo di verginità, con l’altra indica in basso, ritratti di tre quarti, i santi Francesco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, in abito cappuccino, mozzetta cardinalizia e libro in mano, e Maria Maddalena, coi capelli sciolti e il vasetto dell’unguento, suo principale attributo iconografico. Sullo sfondo, un breve lacerto di paesaggio montano che verso l’alto lascia il posto ai densi nimbi su cui poggia il gruppo della Vergine col Bambino, circondato da un affastellamento di putti e testine cherubiche.

L’opera, che per le traversie cui andò incontro l’edificio primigenio da cui proviene è databile alla metà degli anni trenta del Seicento, è stata restituita dalla scheda della Soprintendenza a un generico ambito meridionale (OA 1600036159) e da Di Iorio alla cerchia di Andrea Vaccaro[7], quando invece rappresenta una crestomazia di temi ed elementi formali riferibili all’ Azzolino. Vi si rinvengono entrambi i filoni sottesi alla sua poetica: quello devozionale e controriformato, di marca prettamente manieristica, con le sue immagini commoventi e bamboleggianti[8], e quello naturalistico che si esplica attraverso una predilezione per i fondi scuri, gli effetti luministici e la diligente resa anatomica dei modelli rappresentati[9]. Tanti i confronti che si potrebbero istaurare con altre opere del siciliano, per esempio la Madonna e Santi della parrocchiale di Montefalcone del Sannio[10] o la Madonna del Carmine e Santi, a quanto mi risulta inedita, nella chiesa di Sant’Onofrio a Casacalenda[11]. Con entrambe il quadro apricenese condivide l’impostazione della parte superiore della tela, le fisionomie di alcuni angeli e santi, e alcune soluzioni compositive come quella dei cherubini reggicorona e delle testine angeliche ritratte a lume di candela.

Ritornando all’iconografia dell’Angelo Custode, alla quale attinge l’artista siciliano per il quadro ai Teatini di Lecce e per il particolare di quello apricenese, essa è quella ben collaudata ai piedi del Vesuvio tanto nell’ambito della scultura – si pensi alla molteplicità di Angeli Custodi usciti in quegli anni dalla bottega di Stellato e sparsi nelle chiese del Viceregno[12] – tanto in quello della pittura, con alcuni pregevoli numeri di Borghese, Sellitto, Vitale e Pacecco De Rosa. Ma è al pittore di Montemurro e al suo chiaroscurare “che tornisce le forme e vi infonde consistenza plastica” che si dovrà guardare, nonostante sia oramai superata la soglia degli anni ’30, per trovare un riferimento stilistico dei due quadri. Sulla scia di quanto già opinato dal Pugliese, è possibile, infatti, istaurare confronti tra i due fanciulli azzoliniani col putto della Santa Cecilia di Capodimonte, o col Tobiolo (o animula, che dir si voglia) nell’Angelo Custode di ubicazione ignota[13], sebbene il quadro salentino abbandoni i catramosi fondi sellittiani “che corrodono i contorni e risucchiano intere parti di figure”[14] a favore di un ampio paesaggio di sfondo, in un avvicinamento alla tendenza classicista, “quasi accademizzante”, solo accennata nella Santa Cecilia di Sellitto e che è invece più convinta nell’Azzolino più maturo[15], tanto da lambire “le correnti del purismo secentesco che fanno capo al Sassoferrato e al primo Cozza”[16]. Tale avvicinamento, che farà spesso confondere i testi più avanzati del siciliano con oleografie ottocentesche[17], è forse il motivo per cui una non sufficientemente aggiornata scheda ministeriale (OA 1600117773) dati ancora il dipinto leccese al XIX secolo, restituendolo a un non meglio precisato ambito salentino.

Pubblcato su “Il defino e la mezzaluna” n°2


[1] P. Pirri, voce Albertini Francesco Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani I, Roma 1968, pp. 725-726.

[2] V. Pugliese Pittura napoletana in Puglia I, in Seicento napoletano. Arte, costume e ambiente, a cura di R. Pane, Milano 1984, p. 214; P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 318 nota 42.

 

[3] N. Barbone Pugliese, A. Simonetti, Giovan Berardino Azzolino: inediti napoletani del Seicento a Manfredonia, in Angeli stemmi confraternite arte, a cura di M. Pasculli Ferrara, D. Donofrio Del Vecchio, Fasano 2007, pp. 435-443.

[4] N.Pitta, Apricena. Appunti di storia paesana con disegni dell’autore e con prefazione di Michele Vocino, Vasto 1921, p.112. L’opera è citata, seppur con l’improprio titolo di Madonna del Carmine, nell’inventario dei beni stilato nel 1811 a seguito della soppressione napoleonica (Archivio di Stato di Foggia, Amministrazione Interna, F. 145, f. 126)

[5] F. Strazzullo, L’iconogrqfia della “Madonna delle Grazie tra il ‘400 ed il ‘600, Napoli 1968.

[6] Il riferimento alla Tota pulchra si giustifica con la dedicazione della chiesa conventuale alla SS. Concezione, che mutò in Madonna delle Grazie subito dopo il terremoto del 1627 quando l’edificio cappuccino, che aveva subito dei notevoli danni strutturali, fu riedificato secondo il corrente gusto barocco. Si spiega così anche la presenza della chiave dorata nella mano di uno dei due angeli a cospetto di Maria, simbolo della presa di possesso del rinnovato tempio da parte del nuovo nume tutelare.

[7] E. Di Iorio, I Cappuccini della religiosa provincia di Foggia o di S. Angelo in Puglia (1530-1986), Tomo I-II, Campobasso 1986, pp.145-147.

[8] P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 311.

[9] V. Pugliese,  cit., pp. 213, 214.

[10] P. Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 1987, p. 510.

[11] Non intendo approfittare ulteriormente dell’ospitalità di Marcello Gaballo, che ringrazio, per approfondire la trattazione di questa tela che esula dai confini pugliesi, quando già il quadro apricenese esulava da quelli salentini. Sarà altra la sede per farlo. Ringrazio anche Alessandro Colombo per avermi procurato una fotografia del dipinto molisano.

[12] P. Leone de Castris, Angelo Custode, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra (Lecce 2007), a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma 2007, pp. 160-161.

[13] V. Pugliese,  cit., p. 215.

[14] Ibidem, p.214

[15] F. Ferrante, Giovan Bernardino Azzolino tra tardomanierismo e protocaravaggismo. Nuovi contributi e inediti, in Scritti di storia dell’arte in onore di Raffaello Causa, Napoli 1988, p.139.

[16] R. Lattuada, Un nuovo dipinto di Giovan Bernardino Azzolino, in “Kronos, n.13, 2009, p. 149.

[17] P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 311

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2 Commenti a Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode

  1. Poichè non so dipingere. scrivevo qualche tempo fa :
    ANGELO DI DIO

    E’ una preghiera che s’impara presto, senza bisogno di catechismo, ben si presta a essere mandata a memoria in tenera età, con un interlocutore un po’ fiabesco quale è un angelo del cielo, e la mamma che prende i polsi appena abbozzati, con le pieghe della pelle, e traccia un segno di croce con le manine del suo bimbo ignaro, quale marchio di protezione per il futuro.
    Un segno, una preghierina e si può affrontare il mondo con tutti i suoi pericoli, bisce che scappano e lasciano integri i piedini, muri che si scansano nella rincorsa dei giochi, abissi che s’addomesticano come nei cartoons americani… grazie a un angelo custode, il mondo si fa a misura di bambino.
    La si torna a considerare poi, quando già la vita ha impresso i segni distintivi della propria storia, nella sequenza dei verbi che fanno appello all’angelo di prima:” illumina, custodisci, reggi, governa…” consapevolezza dei limiti alla comprensione, della fragilità, della impossibilità di far fronte alle insidie, della incapacità di tenere la rotta della vita in piena autonomia.
    Bisogno di aiuto, richiesta di aiuto tout-cour . A chi? A un angelo divino, garanzia di efficienza e discrezione.
    Il riferimento a una “Pietà Celeste” conclude la breve preghiera, semplice e senza pretese, con un cenno a una gerarchia autorevole e suprema.

    Poche parole dunque, per una richiesta di collaborazione veloce, quasi un telegramma (o una mail o un sms ) a cui basta cambiare un possessivo, un pronome personale, per rendere la preghiera…universale!
    Sì, è questa la magia! Forse gli addetti ai lavori (pardon, alle preghiere..) avrebbero da ridire…ma pensate che, superate le urgenze personali, con la semplice sostituzione di “mio” con “suo”, (suo di lui o suo di lei, non importa) si può fare la preghiera per una persona cara, per allontanare da lei
    i pericoli della vita; usando “loro” si diventa sensibili a tutta l’umanità, una concordanza al plurale e…il gioco è fatto! Avremo scomodato tutta una schiera di Angeli Custodi, sicuri del loro intervento perché incaricati dalla Pietà Celeste, a cui, per statuto, non si disobbedisce.
    La protezione civile, a ragione, li prende a modello, e non è da meno nell’intervenire con sollecitudine a salvare qualcuno che…s’era scordato di recitare la preghiera del mattino.

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