La Puglia e la “taranta” in un repertorio di simboli del 1603

di Armando Polito

Una delle espressioni più significative dell’erudizione rinascimentale fu il proliferare di repertori di simboli in forma di schede corredate o meno di immagini. Tra questi forse il più noto è, pur non essendo il più antico,  l’Iconologia di Cesare Ripa, la cui  prima edizione uscì per i tipi degli Eredi Gigliotti a Roma nel 1593 (in basso il frontespizio).

 

Le schede di questa prima edizione riguardavano solo le virtù e i vizi ed erano prive di immagini. Alle virtù ed ai vizi si aggiunsero alcune schede di carattere geografico con relative immagini a cominciare dall’edizione del 1603 (frontespizio in basso) uscita per i tipi di Lepido Facii a Roma.

 

Riporto di questo testo le pagg. 265-267 con mia trascrizione a fronte, espediente che mi è servito ad inserire qualche nota. Buona lettura!

 

 

Che fine hanno fatto a distanza di quattrocentodieci anni il grano, l’olivo e il mandorlo? E nella Taranta di oggi cos’è sopravvissuto di quella di ieri e come? E alla fine dei prossimi cinquant’anni cosa sarà diventata la Puglia, unicamente per nostra colpa? Temo che il suo nuovo stemma sarà la solitaria torre d’acciaio di una piattaforma petrolifera; ma in compenso, allora, non si dovrà scomodare tutta questa circollocuzione: basterà derrick1 e non si correrà il rischio di essere assaliti dalla nostalgia del ricordo del famoso ispettore dell’altrettanto popolare serie televisiva del tempo che fu …

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1 La voce nacque agli inizi del XVII secolo dal cognome di un impiccato, passando al significato di boia, poi di forca, nel XVIII secolo a quello di sollevamento, gru, da cui è derivato il significato moderno di torre di perforazione.

 

 

Piccole cose del passato

flit

di Elio Ria

 

Le comodità sono conquiste lente che l’uomo, con ostinazione, ottiene per migliorare la condizione della propria vita. Le cose che oggi possiede un tempo non esistevano, magari erano ancora ad una forma grezza, non del tutto perfezionata.

Un vita senza comodità è impensabile. Ci sono gli oggetti, che ci rendono la vita meno amara, più godibile, di cui provare anche per un giorno a non possederli sarebbe una tragedia. E qui si potrebbe fare un elenco lungo, se ne citano alcuni: climatizzatore, computer, cellulare, televisore, frigo, erogatori d’insetticida contro zanzare e mosche…

Negli anni Sessanta il frigorifero erano in pochi a possederlo e d’estate si comprava il ghiaccio alla iaccera. Il frigorifero era un lusso, bisognava adattarsi al caldo senza lamentarsi; la possibilità di avere in casa – non una bibita fresca – ma l’acqua fresca durante i giorni della canicola estiva era davvero un privilegio. Ci si arrangiava, si beveva l’acqua della cisterna e con il ventaglio ci si procurava l’aria ventilata.

Altri tempi, oserei dire, altre sofferenze che venivano mitigate con piccoli accorgimenti ed espedienti: frutto dell’esperienza degli uomini e delle donne che non avevano scampo e dovevano ingegnarsi per sopravvivere anche contro le mosche e zanzare.

Eh già, adesso appare semplice combattere questi disturbatori accaniti nel loro intento di succhiare il sangue. In quegli anni del boom economico, non erano stati ancora inventati i propellenti da spalmare senza ungersi sulla pelle; il vape non esisteva. C’era la pompa te lu flitti: un oggetto che a vederlo oggi viene da ridere, ma che allora veniva usato per bonificare le stanze dalle fastidiose mosche e, in alcuni momenti, usato dai più piccoli come passatempo per giocare.

Uno strumento manuale semplice costituito da uno stantuffo che fungeva, appunto, da pompa per prelevare da un piccolo serbatoio – posto sulla base dell’erogatore –  il famoso DDT, che nella lingua dialettale del mio paese veniva  pronunciato: flitti . Funzionò per un certo periodo di tempo, poi le mosche si resero immuni al potere del DDT e invece di  morire s’ingrassavano.

Piccoli ricordi che nel tempo si sono accumulati e riemergono, ogni qualvolta si fa un confronto tra il passato e il presente,  ma al contempo la memoria è essenziale anche per la definizione dell’identità, difatti l’amnesia provoca la perdita del senso del sé. Ma è anche logico non far cadere il ricordo nella nostalgia, privandolo così del tutto del valore che possedeva nel passato, con la conseguenza di farlo rivivere nel presente in modo imbarazzante e inadeguato.

Il passato, dopo tutto, ha cessato di esistere. Il presente rivendica l’attualizzazione degli eventi in successione frenetica e turbolenta. La modernità ha soppiantato, anzi ha imprigionato, la lentezza degli eventi – che prevedevano come condizione –  la pianificazione e la programmazione.  Di solito si dà il giusto valore alle cose nel momento in cui non si possiedono più. E proprio dal ricordo della pompa te lu flitti emerge come la tecnologia ha invaso la mente degli uomini, occupandola e colonizzandola al consumo compulsivo di beni. Se liquidassimo queste storie come piccole cose, si perderebbe di vista un punto importante: la verità sta nelle minuzie, e c’è più significato in una miriade di eventi e di cose semplici, di quanto se ne possa trovare in una singola piccola cosa.

Le piccole cose non vengono mai celebrate, rimangono ai confini dell’interesse collettivo e individuale, stante la stoltezza umana a non sapere evocare e osservare la ricchezza che la vita riserva alle piccole cose. Certamente dalla pompa te lu flitti iniziò il cammino del ricercatore per poi creare il prodotto più sofisticato ed efficace per annientare le mosche, così come è accaduto per tanti altri piccoli oggetti. Se si riconosce l’importanza delle piccole cose, si riesce meglio a giudicare l’importanza dei loro opposti, ma soprattutto perché ci fanno esercitare il confronto e ci aiutano a valutare l’esperienza. Una questione di proporzioni e misure da tenere sempre a mente e non sottovalutare.

 

(L’immagine in evidenza è stata reperita da “Salento come eravamo”)

 

Da Copertino a Santa Barbara fino a Collemeto, di notte

Bici

di Pier Paolo Tarsi

In bici, con Cosimo, di notte, da Copertino a Santa Barbara fino a Collemeto. Sei o otto chilometri, non lo abbiamo ancora capito, su strade di campagna. Frazioni di Galatina ignote ai più, borghi da far west, quelli in cui mi sento a casa. Verso la festicciola. “Signora, per piacere, ci controlla le bici che non abbiamo i lucchetti?” E quando certe anziane signore ti dicono “si” ti puoi fidare. Tornati ore dopo, con le luci ormai spente della festa, lei e le sue commari sono ancora lì, sbadigliando, ad aspettare, e raccomandarsi infine di stare attenti, di accendere le luci, di badare agli ubriachi in macchina. Chissà perché gli ubriaconi in bici come noi sono tollerati da tutti, e forse persino graditi al mondo. A Collemeto ci si incontra con gli altri due amici giunti in auto, erano stati a Nardò, ma la situazione era troppo chic, non è roba per noi. Abbiamo individuato il bar più spranto in pochi secondi, col l’istinto di rabdomanti. Campeggiava la scritta “Peroni”. È decisamente il nostro posto. Prima di sederci abbiamo acquistato noccioline sbucciate, mardorle e pistacchi. “Li morti loru quantu costanu!”. Lei, naturalmente, la cummare Anna, ex-modella in pensione dedita oggi all’arte delle imprecazioni. Poi giù di birre, a pochi metri dalla piazza in cui suona un gruppo dei gloriosi anni 70, di quelli che piacevano alle nostre madri, di quelli la cui musica era la colonna sonora dei loro amori puri ed eterni coi nostri padri. Le orme. Infine il ritorno. La notte assoluta, perfetta. La mezza luna, i grilli, cicale nottambule, ed una volpe sbigottita. I cani che all’andata ci avevano inseguito ormai dormono e si sono rotti le scatole, o semplicemente non siamo più estranei per loro. Il fresco. Le costellazioni, talmente evidenti che potrei persino io provare a imparare i loro nomi una buona volta. E venere, la bella, il pianeta che si concede a occhio nudo. Non chiedo altro. Una nottata quasi perfetta, quasi, ma questa è un’altra storia.

A Serrano (Lecce), la XVIII^ edizione del premio “L’olio della poesia”

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di Rocco Boccadamo

 

Il Salento, ieri, era appena terra e patria dei nativi, poco conosciuta di là dai confini geografici, oggi, invece, è anche terra di molti, giunti da lontano, di tanti che hanno scelto di visitarlo, apprezzandolo e innamorandosene immediatamente.

Insieme con i tesori della natura posti innanzi agli occhi di tutti, dal mare d’incanto agli innumerevoli monumenti, siti e angoli di fantastica bellezza, annovera anche altri, speciali aspetti di attrazione, magici, affascinanti, basta saperli cogliere e indugiarvi con gli occhi e la mente.

Fra essi restanti, si colloca il mirabile cielo che sovrasta le distese di terra rossa e i bianchi agglomerati di case: vuoi che si offra, nell’arco diurno, con il suo caratteristico azzurro intenso, voi che si affacci silente, nel suo manto blu scuro, punteggiato da infinite lanterne scintillanti.

Già, le notti salentine, rappresentano, da sole, uno spettacolo, anzi addirittura una sorta di  palinsesto che trasmette,  di continuo, capolavori sotto forma di mute parole e pensieri sussurrati. Tale programmazione, ha il pregio di calare e infondere negli animi un’invisibile catena di comunicazione, che non solo penetra dentro, ma resta e mantiene tracce indelebili in seno ai rosari delle suggestioni e dei sentimenti individuali.

Sì, dunque, non sono un elemento qualsiasi o una parentesi comune, le notti di qui, bensì un mondo a se stante e aggiuntivo, che merita di essere vissuto e attraversato appassionatamente, con abbandono totale: senza accorgersene, ci si arricchisce della sua vicinanza.

Da queste parti, non vi sono ricchezze o risorse materiali in abbondanza, le infrastrutture appaiono carenti, le opportunità di lavoro scarse; tuttavia e per fortuna, intorno, v’è dovizia di angoli meravigliosi a  portata di mano, di cui la gente del posto, potrà apparire strano, si nutre e idealmente si riempie, scorrono diffusi i buoni sentimenti, s’inanellano sogni a ritmo intenso, anch’essi tonificanti, intorno alle ore con le stelle.

 

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Nel Salento, rappresenta, Serrano, una minuscola località di appena millequattrocento anime, un puntino situato nel triangolo pianeggiante fra Lecce, Maglie e Otranto, è frazione del comune di Carpignano Salentino e si trova immediatamente a margine dell’area nota come Grecìa Salentina.

Un paesello, un piccolo centro come molti, e però diventato unico ed eccezionale grazie a una manifestazione che vi si svolge d’estate, un avvenimento di carattere culturale, un premio letterario, che, in omaggio alla coltura agricola prevalente nel suo territorio e alle tradizioni popolari maggiormente radicate fra gli abitanti, a suo tempo è stato felicemente e appropriatamente intitolato “L’olio della poesia”.

La nota distintiva originale è che, materialmente e puntualmente, il premio consiste in un quintale di olio extra vergine di oliva, donato da una locale azienda consortile.

Il premio in questione, inaugurato nel 1996, ha progressivamente acquisito visibilità, risonanza e apprezzamento di livello crescente, sicché, oggi, può dirsi che, nel novero delle manifestazioni del genere, sia arrivato a varcare notevolmente i confini strettamente regionali e pure quelli nazionali, approdando fino al traguardo della cultura europea.

Di assoluto spessore le personalità cui, negli anni, è stato assegnato, basti ricordare  i nomi di Edoardo Sanguineti, Mario Luzi, Giovanni Raboni, Alda Merini, Nico Orengo, Arturo Morales, Valerio Magrelli, Adonis.

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Serrano, piazza Lubelli
Serrano, piazza Lubelli

Nella 18^ edizione, svoltasi giovedì 25 luglio 2013, come al solito nell’eccezionale cornice, un’autentica bomboniera, di Piazzetta Lubelli, il riconoscimento è andato al poeta Franco Loi, nato a Genova nel 1930 da padre sardo e madre di Parma, trasferitosi a Milano a sette anni, prima, da ragazzo e da giovane, operaio presso varie aziende e poi nella stazione ferroviaria di Milano smistamento, poi, già ultra trentenne, studioso a tempo pieno e poeta in dialetto milanese.

Accanto a Loi, sono stati attribuiti riconoscimenti anche al noto cantante e musicista Roberto Vecchioni (premio Salento d’amare) e all’editore salentino Cosimo Lupo (premio millennium).

Infine, una targa alla memoria è stata dedicata a due preclari personaggi della cultura e della poesia nati nel Salento, Antonio Leonardo Verri e Gino Pisanò.

Una breve digressione personale: d’ora in avanti, perché non immaginare, in uno al premio “L’olio della poesia” e al “popolo della poesia”, anche “la stella della poesia”?.

 

Franco Loi
Franco Loi

I fichi, sapori d’altri tempi

fichi

di Maria Grazia Presicce

 

Tra non molto sarà tempo di fichi, di quei gustosi frutti che deliziano il palato di chi li predilige.Un vecchio proverbio recita quandu rria l’ua e la fica lu milone va s’impica[1] ed effettivamente quando giungono a maturazione i fichi, l’altra frutta estiva, almeno nei tempi andati, passava in secondo piano per privilegiare la gradevolezza dei nuovi arrivati.

Oggigiorno questi frutti sono un pò decaduti, molti giovani non li gustano  e anche le produzioni nei giardini sono scemate. Anticamente  tutti i giardini possedevano alberi di fichi di varietà differenti  e i possessori si vantavano delle specialità presenti nel loro giardino che spaziavano dai semplici fichi bianci, alla fica di San Giovanni, alla fica signura, la uttareddha, la fica milungiana,lu fracazzanu, la fica arnea, lu cascitieddhu, lu purgissottu[2]

Ricordo piacevolmente il grande giardino dei miei nonni a Donna Menga, con i filari di fichi ben distanziati: grandi alberi di fico  di molteplici qualità, bianche e nere.Veniva una squadra di donne per la raccolta settimanale. Si coglievano al mattino presto e già si cominciava a gustarne il delizioso sapore appena raccolti. Bastava alzare lo sguardo sui rami dell’albero e subito l’occhio individuava i più buoni: quelli singati e quiddhi cu la goccia ti mele ddretu [3] ,diceva la nonna erano i migliori e me li porgeva, mentre io svelta lo sbucciavo e lo divoravo in un boccone. Di fichi ne raccoglievano a canestri e dopo si portavano in terrazzo e si spaccavano, uno ad uno, adagiandoli sui cannizzi [4] che, in seguito, esponevano al sole per farli essiccare e poi vendere. Prima della vendita si sceglievano i migliori per  il fabbisogno familiare. Questa parte veniva accuratamente lavata e riesposta al sole per farla asciugare. Di questo prodotto  una parte veniva a sua volta differenziata per essere ripiena di mandorle. A questo procedimento, solitamente, potevano partecipare i bambini. La nonna, in un piatto, grattuggiava abbondante buccia di limone verde a cui aggiungeva della cannella e  dei chiodi di garofano macinati, mescolava tutto con abbondante zucchero. Questo miscuglio veniva, da noi bambini distribuito, in minima parte nell’interno del fico a cui poi s’aggiungeva la mandorla prima di chiuderlo ben bene. I fichi ripieni, venivano sistemati in grandi stanati [5] di rame e infornati insieme alla seconda scelta. Mi pare ancora di avvertire il profumo che emanavano quando uscivano dal forno! Davvero profumo d’altri tempi. Una volta cotti nel forno venivano sistemati nelle capase e capaseddhe [6]per essere consumati durante la stagione invernale.

fico

Questi “dolcissimi” ricordi sono in me sopravvenuti allorchè, in biblioteca, cercando  tra  vecchi quotidiani ho ritrovato, sul Cittadino Leccese, l’articolo dell’insigne cittadino  il dottor Cosimo de Giorgi, che tratta proprio di questo frutto “ paradisiaco”. Lo pubblico sperando faccia piacere a chi, come me, difende e predilige ancora quest’albero e i suoi frutti.

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“A chi di voi, o gentil lettori, nati sotto la cappa del sole, e sotto le insegne della lupa, non è occorso di sentirsi venir l’acquolina in bocca nel mirare, apprestati in un desco villereccio, quei cari globetti di mele dalla buccia varicolore, dal colletto strozzato, e da una fragranza tutta loro propria? Il nostro primo padre, dicesi, peccasse per codesti globetti; altri invece credette fossero stati i frutti della Musa Paradisiaca o di qualche Cactus; per me, non ritengo né l’una cosa né l’altra: – il fatto vero si è, che i fichi del Paradiso , serbano anche oggigiorno le loro forme vetuste e ammalianti. I pittori di genere han gareggiato in valentia nel ritrarre le sembianze fuggevoli, e nel loro costume attraente li hanno eternati sulle tele; i popoli di diversi paesi han gareggiato invece nel dar loro il dritto di cittadinanza; e le feste ricorrenti dei Santi hanno studiato nel Calendario dei Fichi. Di qui il fico Trojano – di Marsiglia – di Brianza – di Napoli – il Portoghese – il tarentino – eppoi i fichi di San Pietro, di S. Andrea, di San Nicola e via dicendo. Perfino i latini, nella loro serietà e nella loro aristocrazia, preferivano i fichi di Cartagine alle voluttuose figlie di Corinto; un piacere del gusto, ai dulces amores, che poteano snervare i loro corpi battaglieri.

Or bene, s’io ti dicessi, o lettore che tra i fichi e l’ortica si va come tra parenti d’una stessa famiglia, ti riuscirebbe forse nuova? Ed hai mai guardato all’interna composizione di essi, ch’è pur tanto graziosa?

Anzi, tratto il succo lattiginoso, rustico e corrosivo del fico ti avrà forse rammentato quei cari peli dell’umile erba bruciante, osservati altra volta; ed il fico appartiene di fatto alle Orticacee nella classe delle Artocarpee. Lo studio della loro intima compage, ne rivela che son tutti fiori, anco quelli che noi diciamo frutti a mo’ d’intenderci: e se li vediamo in due epoche diverse, ciò è perché vi sono delle varietà a fiori primaticci o fioroni, che maturano dal giugno al luglio; e delle altre a fiori serotini o settembrini che vanno dall’agosto fino ad ottobre,giunto questo mese, se la stagione si mantiene calda, prosieguono anch’essi a maturare; se i freddi fan disseccre e cader le foglie questi polmoni delle piante, si arresta la circolazione dei succhi ed anch’essi avvizziscono – apriamone uno presso a maturazione – i fiorellini maschi sono nella parte superiore del ricettacolo rappresentato dalla buccia, che li ha incarcerati, con un calicetto da 3 a 5 stami: mentre i feminei in numero maggiore, ne occupano tutta la capacità, con un calice e due stimmi. Avvenuta la fecondazione, ogni ovario rimane rappresentato da un piccolo seme, e tutto il resto si riempie d’una polpa melliflua, di colore e di sapore diverso nelle specie differenti. Nel giugno ridestandosi con maggiore attività l’elaborazione della pianta, i fioroni son più grossi; ma i fichi serotini, sotto l’aura dardeggiante del sole d’agosto maturano meglio e sotto forme più umili hanno mille profumi e mille attrattive; i settembrini poi, come gli ultimi a comparire, sono reputati i migliori.

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Due parole sulla inoliazione dei fichi[7]. Non s’ha da credere, che codesta pratica sia roba moderna, per accellerarne la maturazione. Se ne parla nei libri dei nostri vecchi; ed il Gallesio accenna ad un’ipotesi tutta sua, che l’irritazione dell’olio vale a svolgere un fermento vegetativo, ed ammorbidire la buccia dei fichi. Quel che è bene che si sappia è, che in quell’orgasmo vegetativo l’elaborazione non si fa che incompleta, e lo stomaco poi se ne risente.Se avessi da destinare un posto a queste frutta nell’ordine igienico degli alimenti io le porrei tra le sostanze acido-dolei più zuccherine che acide. A differenza delle pesche, delle pere, delle albicocche e delle susine, il fico è il re dei frutti zuccherini, ed i racemi della vite giungono a stento a fargli concorrenza. Scarso d’alimento nutritivo, esso rappresenta invece un laboratorio di materia prima per l’ossidazione, e per la combustione organica, prima sorgente del calore animale. Non s’ha poi a dire che la stagione di comparsa di codeste frutta sia una vera antitesi igienica? I fichi secchi contengono il doppio di azoto, e più del doppio di carbonio dei freschi, e sono più nutritivi di questi, in 0,92 per 100, ed il carbonio da 15, 50 a 34 per 100. Però la digeribilità loro è molto diversa; ed io che non sarei alieno dal mangiarne, non appena colti dall’albero, freschi della brezza mattutina, li terrei da parte una volta disseccati e cotti al forno, riservandoli alle cupe e rigide vernate. Tutte le riflessioni igieniche che ho fatto altra volta sulle more dei gelsi anche qui possono applicarsi; quindi bisogna sempre cercar i fichi più maturi e colti al fresco: e conviene mangiarne di mattina piuttosto che di sera. Pessimo l’impasto che qui da noi suol farsi coi cocomeri( melloni d’acqua) coi fichi d’india e coll’uva; ottimo invece l’innesto dei fichi con qualche fettolina di prosciutto e di cacio parmigiano. Allora lo stomaco si sente rianimato da un cibo completamente rappresentato da parti nutritive o azotate, da parti grasse e da elementi zuccherini o idrocarbonati; e un calice di Bacco il dejunè mattiniero. Io conosco più d’uno e forse ne conosci anche tu, o lettore, che preferisce codesta refezione mattiniera alla nera bevanda di moca, o al gelo rappreso col limone, che fan languire d’inerzia il ventricolo; e nella sua età cadente non si lamenta di emorroidi, è vegeto, intelligente, attivo, né ha paura del Cholera?

Rianima pur la tua mensa con qualche piattello di fichi, ma ricorda – che siano maturi, colti di fresco, e nel mattino; che l’uso discreto riscalda e ravviva l’organismo e muove l’intestino; che l’abuso è la causa più frequente delle affezioni gastriche autunnali, e di  tormini, di dolori e di diarree nell’estate; non far che si ripeta più volte il semel in anno con quel che segue; e rammentati soprattutto, che le son frutta che forniscono alle tue perdite giornaliere un povero alimento nutritivo.

Questo detta la scienza e l’Esperienza di tutti i giorni; e se tu brami star lontano dai medici e dai farmacisti – e tel’auguro di cuore – fa tuo pro dei loro consigli, e cerca di star lontano da uno che può nuocerti molto più di loro….dall’intemperanza!

Dottor Cosimo De Giorgi

 


[1] Quando arriva l’uva e il fico l’anguria  può anche sparire.( letteralmente va ad impiccarsi)

[2] Varietà di fichi, fico signora, fico  botticella, fico melanzana, e altre varietà locali  con termini dialettali intraducibili

[3] Quelli segnati, cioè con delle venature biancastre sopra la buccia, e con la goccia gelatinosa color miele dietro

[4] graticci intrecciati di canne

[5] teglie

[6] Recipienti in terracotta

[7] FIMMG – alimentazione : […]  si sono tramandate alcune tecniche colturali peculiari del fico: la “caprificazione” e la “puntura” (o “untura” o “inolizione”). La prima consiste nell’assicurare la presenza dell’insetto pronubo ( Blastophaga psenes L) all’interno del ficheto. Questa tecnica è indispensabile solo per quelle cultivar che non sono in grado di evolvere a frutto se non in seguito all’impollinazione incrociata con il fico selvatico (detto caprifico).

La seconda tecnica, invece, consiste nel umettare i singoli siconi con olio di oliva, per accelerarne la maturazione. Oggi questa tecnica è in disuso e al suo posto è subentrata l’irrorazione con etilene. http://alimentazione.fimmg.org/articoli_cibi_stagioni/fico.htm

 

 

L’appetito vien mangiando

obelisco-campense-monte-citorio

di Armando Polito

Il lettore avrà notato che ogni tanto compare sul sito qualche scritto che non contiene un diretto riferimento alla realtà del nostro territorio. Lo stesso lettore si sarà pure accorto che anche io un po’ furbescamente ho fatto rientrare qualche mio post nell’ambito “locale” inserendo, magari con maldestra disinvoltura, una parola dialettale. Certi argomenti, però, riguardano il presente e il futuro dell’intera collettività e perciò non possono essere considerati nemmeno su questo sito come pesci fuor d’acqua; vanno intesi, piuttosto, come il cacio sui maccheroni, tanto più che, se il cacio è rappresentato da chi ci governa, e i maccheroni1 siamo noi, ciò che avviene nella sede centrale vede celebrata puntualmente la sua fedele replica a livello locale e i maccheroni avranno pure il diritto di esprimere il loro giudizio sul cacio; e che pesci!

A questo punto Stefano Manca, autore del recentissimo Montecitorio, luogo sacro della democrazia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/26/montecitorio-luogo-sacro-della-democrazia/), si sentirà obbligato nei miei confronti per questa difesa d’ufficio; al contrario, sono io a ringraziarlo per avermi dato l’opportunità di aggiungere qualche riflessione mia e altrui, non condensabili in un commento, al suo post. Non solo a questo dettaglio e al precedente di ordine culinario, comunque, si riferisce il titolo, anche se chi legge lo capirà solo alla fine …

Sull’etimo Montecitorio, fermo restando il fatto che è formato da Monte e Citorio, l’assenza di fonti antiche su Citorio ha propiziato una caterva di proposte etimologiche che risparmio al lettore. Se è vero, però, il detto latino  omina nomina (i nomi sono presagi), potrebbe averci azzeccato Francesco De’ Ficoroni, Le vestigia e rarità di Roma antica, Mainardi, Roma, 1744, pagg. 136 (trascrivo fedelmente tutto, errori di ortografia e punteggiatura discutibile compresi; è mio solo quello che compare non in corsivo):  Se mi fosse lecito proporre alcuna congettura, dire, che dopo le devastazioni fatte volendo i Romani sgombrare dalle rovine, e dalle macerie i luoghi, e le strade quì vicine, riguardanti specialmente le ripe del Tevere, in questo piano del Campo Marzo frettolosamente le scaricassero, e ammontassero, e da questo sollecito tumultuario rammassamento prendesse questo luogo il nome di Monte Citorio: venendo in que’ tempi meschini le opere fatte con istraordinaria sollecitudine spiegate colla parola Latina cito (è un avverbio e significa subito), la quale ancora si ritiene nelle Terre del vicino Lazio, dove la volgar lingua non è ripulita, per ispiegare le cose fatte con prestezza chiamandole cito, o cetto.  

Il presagio del nome, secondo me, non si riferirebbe certamente al concetto di istraordinaria sollecitudine (visto che il rinvio è l’unica cosa in cui soprattutto il governo attuale si mostra campione indiscusso)  ma alla descrizione di Monte Citorio come discarica …

A tal proposito vale senz’altro la pena leggere, anche per capire a quale  livello di sprofondamento nella melma siamo giunti, ciò che scrisse Scipio Sighele (1868-1913) in L’intelligenza della folla, Bocca, Torino, 1903:

 … Io dicevo che l’elezione del deputato è dovuta specialmente alle forze di suggestione sprigionantisi da questi due mezzi: arte oratoria e giornali quotidiani. È dovuta cioè ai due mezzi che più facilmente e più velocemente costruiscono quell’edificio che si chiama il successo (edificio poco solido certamente se non è meritato, ma la cui solidità e durata poco importa per gli effetti riguardo ai quali noi lo studiamo) e che maggiormente turbano, per legge di psicologia collettiva, la indipendente e sincera determinazione dell’elettore …

… Che cosa avviene allora? Avviene che l’elettore, il quale depone la sua scheda nell’urna e pare compia un’azione libera ed isolata, non è altro che un suggestionato, vittima di una suggestione che può essere oggi un discorso, domani un giornale.

E pazienza fosse suggestionato da un’idea o da una persona che valgano qualche cosa, – sarebbe allora socialmente utile la suggestione! – ma non c’è bisogno d’essere scettici per affermare che tali casi son rari.

Nel nostro lieto paese della rettorica sono molti quelli che sanno cucire insieme un discorso ad effetto, e la massa è abbastanza ignorante per ammirare coloro che tuonano grandi frasi anche se non sanno far brillare nessun lampo di pensiero.

L’arte oratoria, che è fra le più nobili e le più difficili, si abbassa spesso alla volgarità di un semplice artificio, adoperato per attrarre a sé gli uditori incolti ed ingenui.

“Un diluvio di parole sopra un deserto d’idee”1, ecco la frase terribile ma giusta con cui in molti casi si possono definire i discorsi dei candidati e quelli dei loro grandi elettori. E la potenza suggestiva di questi discorsi di secondo o di terzo ordine è dimostrata dal fatto del numero grandissimo di avvocati che giungono a  Montecitorio.

Quanto alla stampa quotidiana, – o chi non sa quale valore abbiano le lodi ch’essa tributa? Queste lodi, o si pagano (in danaro o con lavori), o si ottengono per amicizia di qualche redattore o si scrivono dagli stessi lodati. Il buon pubblico di provincia crede alla sincerità della réclame, e non sospetta le piccole vigliaccherie e le piccole umiliazioni che il candidato ha dovuto subire per far mettere vicino al suo nome un aggettivo laudativo. E laggiù, nel piccolo paesello, quando si legge il giornale, l’effetto del soffietto è immancabile.

Così, purtroppo, si fabbricano i deputati, cui le migliaia di voti in tal modo e con tali mezzi ottenute (e non parlo dei mezzi delittuosi) dànno l’illusione d’essere dei grandi uomini.

Quando poi, in un momento di sincerità e di sconforto, si fa la fisiologia del Parlamento, e si vede ch’esso è in gran parte composto di personalità ignote o insignificanti, si dice, quasi argomento di meschina soddisfazione: la colpa è del paese: esso è stato interrogato ed ha risposto con quella scelta.

La colpa è del paese, siamo d’accordo; ma esso risponde così, cioè male, perché lo si interroga e lo si obbliga a dare una risposta col mezzo ingannatore della psicologia collettiva. Se si potesse interrogarlo isolatamente, individuo per individuo, sarebbe, io credo, diverso il risultato, come sarebbero meno frequenti i verdetti assurdi dei giurati, se ognuno di questi dodici valentuomini potesse dare il suo voto senza soggiacere alla mutua suggestione dei colleghi e a quella dell’accusatore, del difensore e del pubblico.

Il guaio è che questo rimedio è inattuabile, o almeno, io non vedo la possibilità d’attuarlo.

Formato una volta il Parlamento, esso funziona, ancora e sempre, a base di psicologia collettiva. E il livello intellettuale di chi lo compone, già basso, scende ancor più per la legge che abbiamo enunciata. Gli uffici, le Giunte, le Commissioni – piccoli Parlamenti nel grande – moltiplicano le probabilità di risultati mediocri e di dolorose sorprese. La ragione politica fa spesso passare sotto la sua bandiera il contrabbando di molte illogicità o di molte ingiustizie. Si sopprimono o si modificano degli articoli di legge, senza pensare che questi sono in relazione con altri che andrebbero alla lor volta soppressi o modificati; si approva talvolta tutto un progetto sol perché una parte è ottima e deve essere approvata. E non manca mai – nei momenti solenni – l’appello ai grandi nomi e alle grandi idealità della patria, per strappare al sentimento, e per conquistare d’assalto, un’approvazione che il raziocinio forse si rifiuterebbe di dare.

Ne segue che il Parlamento può in molti casi paragonarsi a un filtro a rovescio: i progetti di legge, anziché migliorarsi, peggiorano, attraversando tutte quelle fasi cui si vogliono assoggettare …

…. Se, per esempio, i rappresentanti della nazione fossero ridotti a 100, è certo che la media di questi 100 sarebbe superiore intellettualmente e moralmente alla media dei 500 deputati attuali. E perché? Perché limitando il numero, è difficile che rimangano fuori i buoni, ed è invece facile, per fortuna, che siano esclusi i cattivi. Quando i posti sono troppi la zavorra vi entra quasi necessariamente. Bisogna pur eleggere il deputato! e se non c’è chi merita d’essere eletto, bisognerà accontentarsi del primo venuto. Avviene per i seggi al Parlamento, quello che accade per le cattedre alle Università. Fin che queste saranno troppe, vedremo molti professori che non meritano d’esser tali; diminuite le cattedre, e i migliori si faranno avanti, occuperanno i posti, e la media del corpo insegnante sarà migliore.

Poi, con un numero di deputati più limitato si eviterà un altro inconveniente. Oggi basta che una persona si elevi in qualunque ramo della scienza o dell’arte, perché la sua provincia, la sua città – che sono un po’ vane del loro concittadino, come le madri del figlio che ha fatto buona riuscita – si credano in obbligo di gettarlo entro la caldaia di Montecitorio . È un uomo d’ingegno. E sta bene. Ma forse perché fa dei bei versi o dei buoni libri, sarà anche un operoso ed utile uomo politico? Generalmente è il contrario. E così si crea un deputato mediocre, strappando all’arte o alla scienza un ottimo artista o un egregio scienziato. No. Alla politica si dedichi chi vuole, e gli elettori mandino in Parlamento chi ha mostrato d’aver doti politiche. Non crediamo che a reggere il popolo o a far delle leggi basti della gente d’ingegno. È un ingegno speciale che occorre, come per tutte le professioni. Altrimenti noi vedremo degli avvocati, ministri o viceministri alla marina o al tesoro, degli ingegneri alla grazia e giustizia e dei signori che spropositano allegramente al ministero dell’istruzione pubblica.

Col numero di posti limitato, questi smistamenti saranno più rari e men facili, e ci guadagneranno tutti in omaggio alla legge della specificazione del lavoro.

Aggiungete che si renderà finalmente possibile il pagare un’indennità ai deputati, obbligandoli a non fare che il deputato. La qualità di rappresentante del popolo, che adesso è una sinecura e non serve che per ottenere ovunque scappellate e facilitazioni, diverrà una carica che esige del lavoro; la responsabilità divisa in 100 invece che in 500 sarà più fortemente sentita, e gli eletti dovranno occuparsi delle cose importanti e di interesse veramente generale, lasciando che ogni provincia provveda autonoma e indipendente ai proprii interessi particolari, lasciando soprattutto ai faccendieri di fare in Roma i commessi e i corrispondenti degli elettori per le loro esigenze meschine e personali.

E allora forse un miglioramento ci sarà; e questo ormai vecchio organismo parlamentare, semplificandosi, potrà vivere senza infamia e forse con lode. Io credo che di esso si possa dire come di certi veleni, i quali uccidono o rinforzano secondo le dosi in cui vengono adoperati.

Ora la dose o, per lasciar la metafora, l’estensione e l’importanza che il parlamentarismo è andato prendendo, è così grande che minaccia di uccidere la vita pubblica. Chissà che, limitando la dose, non possa, invece che ucciderla, rinforzarla …

Mi sono sfogato con Montecitorio, senza affaticarmi tanto grazie al buon Scipio, evocando, insieme con gli attuali privilegi che costituiscono una contraddizione in termini con la democrazia, cose infinitamente più gravi dell’epiteto più colorito che certi personaggi nell’esercizio (?) delle loro funzioni (?) possano scambiarsi anche in una sede istituzionale, epiteto che, comunque, non sarà mai sufficiente a darsi reciprocamente una definizione esauriente.

Perciò Palazzo Madama, la Regione Puglia, la Provincia di Lecce e Palazzo Personé (è un eufemismo per Comune di Nardò) possono dormire sonni tranquilli, anche perché a me il copia-incolla non piace …

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1 Anche il nostro maccarrone conserva il significato traslato di stupido. L’etimologia è discussa e magari me ne occuperò a breve.

2 La nota l’ho aggiunta io per precisare che con questa espressione sublimemente efficace Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) bolla certa filosofia scolastica in De l’homme  (opera uscita, postuma, per la prima volta a Londra per i tipi della Società tipografica nel 1773), sez. 10, cap. III, tomo VI (cito il testo dalla pag. 92 dell’Opera omnia uscita per i tipi di Dugour a Parigi nel 1797): Quel est le produit de leurs vaines déclamations et de leurs éternelles disputes? Qu’apperçoit-on dans leurs immenses volumes? Un déluge de mots, étendu sur un désert d’idées (Qual è il prodotto delle loro vane declamazioni e delle loro eterne dispute? Che si percepisce nei loro immensi volumi? Un diluvio di parole stese su un deserto di idee).

I capricci della storia (in margine ad una ricerca d’archivio sulla Salina dei Monaci)

Salina dei Monaci

di Nicola Morrone

Giovedi’ 18 Luglio scorso si è svolta, presso i cortili del Torrione di Avetrana , la  presentazione al pubblico  dell’interessante  volume di P. Scarciglia e L. Schiavoni, intitolato “Cronologia commentata intorno alla questione di Torre Columena”.

Il libro è edito per conto dell’Associazione “Terra della Vetrana”, che ha curato l’evento in tutti i suoi aspetti (compreso il gradito aperitivo finale). In una fresca serata di Luglio, dunque, nella cornice particolarmente suggestiva del fortilizio medievale, Scarciglia e Schiavoni hanno proposto al folto pubblico intervenuto i risultati della loro indagine d’archivio sulla “vexata quaestio” del possesso legittimo delle terre site attualmente nella marina di Manduria, tra Specchiarica e Torre Colimena. Siamo stati invitati a prendere parte all’incontro proprio dagli amici dell’Associazione “Terra della Vetrana “, Pietro Scarciglia, Luigi Schiavoni e Paola Addabbo. Invito accolto con grande piacere, dal momento che la stessa benemerita Associazione  ci aveva invitati , lo scorso 21 Aprile, a tenere una conferenza su “Culto e Iconografia di San Biagio di Sebaste” nell’altrettanto significativo  contesto  della  Chiesa Matrice di Avetrana , ospiti del padrone di casa, il gentilissimo Don Giovanni Di Mauro, parroco della stessa chiesa.

Orbene, questa  meticolosa ricerca d’archivio , si inserisce a pieno titolo nell’ambito della piu’ classica pubblicistica di storia locale salentina. Lo scopo delle  87 pagine del volumetto (distribuito tra l’altro a un prezzo estrememente conveniente, che dovrebbe facilitarne una  più capillare diffusione, almeno presso la popolazione avetranese) è quello di portare il maggior numero di prove documentarie a sostegno della tesi secondo la quale le terre inglobanti la Salina dei Monaci e la Torre Colimena, attualmente ricadenti in territorio di Manduria, sono appartenute in passato, all’opposto, al “tenimento” di Avetrana, rientrando a tutti gli effetti nella sua giurisdizione, se non da sempre, almeno per buona parte della loro storia documentata.

La ricerca si inserisce  in un filone di lavori consimili prodotti dai ricercatori di Avetrana nel  tempo (si ricorda qui soltanto il volume di M.Spinosa-B.Pezzarossa-P.Scarciglia dal titolo “Relazione per la rideterminazione del territorio di Avetrana, Taranto 1995) e si avvale, in particolare, di un ricco apparato documentario, in gran parte inedito, oltre che della riproduzione fotografica (sempre utile ) di molti dei documenti citati.

Come è noto, la “vis polemica” degli amici avetranesi in relazione al problema  è stata rinfocolata dall’affermazione di uno  storico locale manduriano, il quale ha sostenuto anni orsono, in un articolo giornalistico, che il territorio oggetto di indagine, era  “da sempre” appartenuto alle pertinenze di Casalnuovo- Manduria .L’affermazione non è veritiera, dal momento che la fascia territoriale che va da Specchiarica alla Columena non ha storicamente avuto un proprietario fisso. Il territorio in questione, invece, è rientrato, nelle varie epoche per le quali è possibile documentarne la storia (cioe’ dalla fine del sec. XI alla fine del sec.XIX), nelle pertinenze di vari proprietari.

Per la Torre anticorsara della Columena,  è stata dimostrata , con questo volume, l’appartenenza al” tenimento”  di Avetrana nel sec. XVI, dal momento che un  documento (riportato anche in copia fotografica) prova che il comune di Avetrana pagava il personale in servizio alla torre .La  Salina dei Monaci, invece, che di quella disputata fascia territoriale rappresenta un po’ il fulcro (per essere stata  fonte di ricchezza, nel corso dei secoli, oltre che per Manduria e Avetrana,  anche per comunità  vicine, come Gallipoli) dopo essere stata donata alla fine del sec. XI dai Re normanni ai monaci benedettini del Monastero di San Lorenzo d’Aversa (CE) è stata verosimilmente  proprietà  del comune di Casalnuovo (Manduria), per poi passare al demanio regio al tempo degli Aragonesi (sec. XV) e poi di Carlo V, e quindi rientrare fino all’800 , come hanno ampiamente dimostrato con la loro ricerca Scarciglia e Schiavoni, nel “tenimento” di Avetrana.

Come gli amici avetranesi si sono preoccupati di portare le prove a sostegno dell’appartenenza storica ad Avetrana, così noi, in questa sede, vogliamo riassumere i documenti certi che, integrati a quelli citati nel volume ,  riconducono in qualche modo la Salina al territorio di  Manduria –Casalnuovo, ripromettendoci di produrre in futuro più ampi riferimenti documentari relativi alla questione.

Siamo costretti purtroppo, in questo caso, a partire da un documento “fantasma”, cioè un documento citato con estrema precisione da storici locali manduriani del passato, che pur dovette esistere, ma che nessuno si è mai preoccupato di produrre concretamente, e che costituisce, a nostro avviso, l’elemento che per eccellenza proverebbe il possesso della Salina da parte di Casalnuovo-Manduria, almeno alla metà del sec. XV. Si tratta di un diploma, datato in Lecce 8 Dicembre 1463, in cui sono elencate le modalità di cessione delle saline di Casalnuovo al demanio regio, cioè alla Corona Aragonese, probabilmente, come suppone lo Jacovelli, per facilitare l’approvazione da parte del sovrano dei capitoli dell’Universita’, cioe’ dei diritti e delle consuetudini comunali.

Tale documento, citato dagli storici locali Saracino, Ferrari e Da Lama, al punto tale da precisarne con esattezza la data cronica e quella  topica,  a nostro avviso dovette pur esistere, anche se non si è purtroppo conservato nel  Libro Rosso della città di Lecce, che a quella data registra uno sconfortante vuoto . Si spera che, in futuro, prima o poi il documento possa saltare fuori, per dare definitivamente forza di prova alle citazioni degli anzidetti storici locali.

Allo stato attuale, comunque, si può con certezza affermare che a cavallo tra i secc. XV e XVI , e precisamente tra il 1498 e il 1526, le Saline furono di proprietà regia, prima aragonese e poi  vicereale (al tempo di Carlo V). Cio’ si può sostenere sulla base di  quattro documenti, ben noti agli studiosi, e cioè tre facenti parte del Libro Rosso di Gallipoli, e uno pertinente al Libro Rosso di Lecce, entrambi liberamente consultabili rispettivamente nella Biblioteca Comunale di Gallipoli e nell’Archivio Storico del Comune di Lecce.

Il documento del Libro Rosso di Lecce  è datato  Napoli , 27 Gennaio 1498; quelli confluiti nel Libro Rosso di Gallipoli datano invece da Castiglione,  4 e 6 Settembre 1503, e da Granada, 23 Giugno 1526.Quest’ultimo diploma, emesso da Carlo V, è stato  riportato  anche da Bartolomeo  Ravenna nel suo volume “Memorie Istoriche della Citta’ di Gallipoli”, Napoli 1836, alla pag.282. Tutti e quattro i documenti sono citati dalla studiosa Michela Pastore , che nel suo contributo ”Fonti per la storia di Puglia : regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza” , uscito in “Studi Chiarelli”, II, pp.153-295, ne ha fornito appunto i regesti, cioe’ la sintesi del contenuto.Ci ripromettiamo di riprodurne in copia i passi relativi alla  Salina, in  essi  denominata  appunto sempre “di Casalnuovo”. Ma perchè i documenti citati denotano con  l’espressione ”di  Casalnuovo”, una struttura che ricadeva già da tempo nel demanio regio? Riteniamo che ciò sia accaduto proprio perchè, pur possesso ormai del Re , le Saline ricadevano topograficamente, anche se non più  giuridicamente, appunto nel “tenimento” di Casalnuovo-Manduria.

In conclusione, il lavoro di Scarciglia- Schiavoni è sicuramente ben condotto, ma in realtà una completa seriazione cronologica delle vicende che hanno interessato la zona compresa tra Specchiarica e Torre Columena deve ancora essere prodotta. Molti punti restano oscuri. Quando, e perchè le Saline passarono dai Monaci Benedettini d’Aversa all’Università di Casalnuovo? E quando, e perchè, le Saline, dopo essere state  possesso del Re, entrarono nella disponibilità dell’Università di Avetrana? E soprattutto, quando, e con che modalità, la zona in questione passò definitivamente a Manduria?

E’a  quest’ultimo interrogativo che, soprattutto, preme dare una risposta  agli amici avetranesi, e a loro facciamo i nostri migliori auguri per una sua  definitiva risoluzione.

Nell’incontro, infine, si è tornato a parlare anche, e in termini piuttosto decisi, della proposta di rideterminazione dei confini del territorio di Avetrana, legittimata, secondo i ricercatori, proprio dai dati documentari .Come abbiamo affermato quella sera, ribadiamo in questa sede che, a nostro avviso, non ci pare corretto , ne’ utile, utilizzare una ricostruzione storica pur documentata come quella realizzata dagli amici avetranesi allo scopo di far tornare il Comune di Avetrana in possesso  della zona rivierasca. I problemi attuali di quella fascia territoriale , causati senza dubbio (lo diciamo da manduriani) dalla storica indifferenza  del nostro Comune in materia di politiche turistiche, da avviare immediatamente sui 18 Km di costa relativa, vanno risolti con spirito di collaborazione, piuttosto che di contrapposizione, quand’anche essa si fondi su dati storicamente inoppugnabili.

 

Quaranta passi più due

“LUCI D’INCONSCIO”, IN UNA NOTTE D’ESTATE, LE POESIE DI ALE CORSANO

 

di Paolo Vincenti

 

Quaranta passi più due (Edit Santoro 2013) è l’esordio letterario di Alessandra Corsano, poetessa salentina che si impone alla nostra attenzione, in questa estate 2013, con una raccolta breve ma significativa di personalissime composizioni. Il libro, con la prestigiosa Prefazione di Giovanni Invitto, porta sulla copertina un’opera di Luigi Latino, pittore, scultore e un poco “pigmalione” della Corsano.

I quarantadue passi del titolo segnano il percorso cronologico e poetico di Ale Corsano, la quale si divide fra il lavoro, la cura dei due figli e l’amore per la scrittura, e quarantadue sono  le liriche di cui consta il libro. Spigolando fra i titoli della silloge,  colpiscono molto alcuni testi come “Nata libera”,”Ciò che rimane”, “Autunno”, “Luci d’inconscio”, “Ombre”, “Felicità”, “Custodia di pelle”, “Eternità” e soprattutto “19 giugno 2013”, data del compimento di quei passi richiamati dal titolo con la pubblicazione del libro in parola. Entra nei versi, si frappone nell’ordito poetico della raccolta,e non potrebbe essere altrimenti,  tutto il vissuto esperienziale dell’autrice  e il suo armamentario lirico di espressioni simboliche, metafore, metonimie, termini a volte desueti, attraverso cui la Corsano realizza quella costruzione del sé che è l’identità. Disvela così la propria realtà che è dinamica e complessa, ancora in maturazione, attraente per certi versi, respingente per altri.  Scrive Giovanni Invitto “lei non ha paura di se stessa, dei suoi desideri, dei suoi pentimenti, perché li riscatta dolcemente ed efficacemente in questo suo narrarsi, attraverso immagini e cadenze che assolvono tutto ciò che lei vive come un ‘uscir fuori’. […] l’autrice e i suoi versi fanno rientrare dentro se stesso anche l’ipotetico lettore vissuto nell’ipocrisia e nel perbenismo. Questa poesia è libera, nuda da finti orpelli e Alessandra Corsano lo scrive con coraggio, onestà e durezza…”.  Molto intensa è la lirica “Tutto torna”, che parla di una notte insonne, forse la notte dei rimorsi, quando arriva l’alba niente affatto consolatrice: una lirica, questa, nella quale troviamo tante consonanze, corrispondenze.

Così questo parto poetico, con la fatica e il mistero do ogni parto, ci dischiude un mondo di emozioni, ansie, desideri, illusioni e disillusioni,sottese e spalancate malinconie, sensazioni che determinano il fluire liquido e lirico delle emozioni sulla pagina. Dietro la freschezza delle espressioni usate dalla poetessa che vive a Galatina  si nasconde però una certa inquietudine, dietro la dolcezza un retrogusto amaro che sembra connotare la vita di Ale Corsano. E così anche delle precise prese di posizione sul mondo di oggi, delle rivendicazioni, espresse a volte con quell’arma sottile, ma non spuntata, dell’ironia, a volte con piglio battagliero e risoluto, sempre con  un canto limpido di femminile creatività, di  forte, suggestiva  voglia di comunicare, che ci conferma che la poesia non è morta e anche se si nasconde bene, sa a volte ancora incontrarci, sorprendendosi e  meravigliosamente sorprendendoci.

 

Montecitorio, luogo sacro della democrazia

montecitorio

di Stefano Manca

Non mi piacciono Grillo e la sua concezione di politica. Ma l’altro giorno ho condiviso un suo intervento in cui sottolineava come una giovane deputata del Movimento Cinque Stelle sia stata offesa a Montecitorio da due parlamentari del Pdl. Gli epiteti erano: “bella bambina”, “bagascia”, “bambola”. Adesso si registra un episodio ancora più grave. La location è sempre la stessa: Montecitorio, luogo sacro della democrazia. Anche se sembra di stare nei peggiori bar di Caracas, come recita uno spot. E’ accaduto, dicevo, che un parlamentare del Movimento Cinque Stelle, Matteo Dall’Osso, abbia perso il filo del discorso durante un suo intervento. E giù risatine e insulti da parte dei deputati di Pd e Scelta Civica. L’unico dettaglio è che Matteo Dall’Osso è affetto da sclerosi multipla, una malattia che può portare anche a disturbi cognitivi e perdita di memoria. Non so più cosa pensare di questo paese in fiamme. Ve li immaginate Moro, Berlinguer e Almirante che ridono in aula di un ammalato?

Quelli di destra e quelli di sinistra

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di Stefano Manca

 

Mi è capitata tra le mani la relazione finale di un dossier sull’immigrazione in provincia di Lecce. Numeri molto interessanti. Due dati in particolare hanno colpito la mia attenzione. Il primo ha come fonte la Camera di Commercio di Lecce e risale, fresco fresco, al 30 giugno 2013: le imprese salentine avviate da extracomunitari negli ultimi dodici mesi passano da 4481 a 4750 (269 nuove imprese, +6%). Le imprese salentine avviate da italiani che hanno chiuso i battenti nell’ultimo anno sono invece 321.
L’altro dato invece è dell’Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità): gli stranieri in Italia pagano affitti più alti del 10-20%. Lecce rientra in queste percentuali.
Pertanto, quando uno, che per brevità e semplicità definiremo “di destra”, vi dirà che loro arrivano qui, aprono attività e gli italiani chiudono, sappiate che non è poi così sbagliato. E quando uno, che per brevità e semplicità definiremo “di sinistra”, vi dirà che loro arrivano qui e alcuni italiani furbi ne approfittano per affittare case malridotte a prezzi alti, sappiate che ha ragione pure lui.
Sappiate che hanno tutti ragione.

Note di diario da Marittima (Le)

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Note di diario da Marittima (Le): fra “Arciana”, “Palummaru”, “Ariacorte” e “Santa Lucia!”

 

di Rocco Boccadamo

 

Verso il tramonto, con la calura un tantino attenuatasi, il nonno Rocco e il nipotino Andrea decidono di compiere una camminata a piedi per le vie di Marittima, che il piccolo non ha mai percorso.

Ovviamente, ci sono numerosi incontri con persone del posto e da me ben conosciute.

Mi piace soffermarmi sul primo, ossia quello con  G., abitante, da sempre, nell’Ariacorte, ossia il rione in cui è nato e vissuto sino a diciannove anni il ragazzo di ieri autore delle presenti righe.

Immediata e automatica la sua domanda: “Chi è questo bel bambino? Come ti chiami?”. Parimenti pronta e senza esitazione la risposta di Andrea, il quale spiega anche, alla compaesana, di essere figlio di Pierpaolo, noto a G. da quando aveva la stessa età di Andrea.

Osserva, quindi, scherzosamente, G., di non aver, al contrario, mai veduto il nonno accompagnatore nella passeggiata. Quando, nella realtà, altro che lo conosce e le è familiare, giacché hanno trascorso insieme tutta l’infanzia, la fanciullezza e l’adolescenza, in stretto contatto.

Come per incanto, rivedere G. dà, all’osservatore di strada, adesso dai capelli scarsi e bianchi, l’estro per ricordare, vedere riaffacciarsi e ripercorrere, con gli occhi e con la mente, quasi fossero accadimenti e figure di ieri, una serie di  particolari, volti e vicende relative alla vita nel rione Ariacorte.

La casa d’abitazione di G. comprendeva, e include tuttora, pure un vano scantinato e proprio lì, laggiù, un tempo si davano appuntamento e riunivano numerosi bambini, maschi e femmine, del rione. I gruppi imbastivano o improvvisavano semplici giochi, tipici di allora, in genere di assoluta innocenza, salvo soltanto, saltuariamente, qualche sconfinamento: l’osare consisteva nella circostanza che, fra giovanissime coppie, si poneva mano, sì proprio così, a isolati contatti fisici ravvicinati, prototipi di confidenze intime, che, all’epoca, non so francamente se, adesso, siano di moda e come si chiamino, si definivano “giochi al dottore”.

E’ vero, atti non proprio innocenti, ma, ad ogni modo, privi di premeditazione e di malizia.

Il rione Ariacorte era un agglomerato circoscritto, un piccolo insieme di case e di famiglie, circa un centinaio di persone. All’interno di detta comunità, per via della semplicità degli schemi che regolavano la vita e degli stessi sentimenti e livelli di suggestione e immaginazione, accadeva di condividere in assoluto e completo unisono, ogni evento, le circostanze più disparate: nascite, battesimi, prime comunioni, cresime, fidanzamenti, matrimoni, malattie, decessi e funerali.

Ciascuno conosceva nomi e fatti di tutti gli altri, indistintamente, abbracciando insomma neonati e anziani.

 

°   °   °

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Intorno agli anni cinquanta dello scorso secolo, pressappoco nello stesso periodo, convolarono a nozze, o meglio si maritarono, due coppie: una, composta da mesciu P. e mescia G., entrambi artigiani, l’altra, da due contadini,  M. e V.

Passò poco e i primi coniugi anzi indicati si trovarono in attesa di un figlio, mentre i restanti non riuscivano a centrare tale obiettivo. Rammento le domande, curiose e nel contempo interessate, sull’argomento, che M. rivolgeva a mesciu P. nella bottega di quest’ultimo e, l’interpellato, pronto a rispondergli con sicurezza e disinvoltura: ”Vedi, caro cugino, non ci vuole una particolare fatica o soverchio impegno, io, in breve volgere di tempo, ce l’ho fatta, per altro senza la necessità di “salire ogni giorno in palazzo”. “Perciò, non ti scoraggiare, certamente ci arriverai pure tu”.

A onor del vero, la coppia dei “mesci”, di figli, ne ha poi  procreato non uno bensì tre, invece l’altra è rimasta senza.

Nell’Ariacorte, giusto di fronte alla casa natia dello scrivente, esisteva ed esiste una bella abitazione, con giardino dotato di pozzo d’acqua sorgiva, in cui, attualmente, viene di tanto in tanto a dimorare un giornalista del Nord, il quale, ormai da un pezzo, ha rilevato l’immobile dagli eredi dei legittimi proprietari di quando io ero bambino, cari amici nonché compari dei miei genitori.

Della famiglia allora dirimpettaia, faceva parte anche M. R., quasi mia coetanea e con la quale, da adolescente, ho trascorso una parentesi confidenziale maggiormente avanzata rispetto ai “giochi al dottore” rievocati prima. Beninteso, niente di trascendentale, si parla di epoca lontana, assolutamente diversa su tutti i fronti, inclusi i canoni di svolgimento dei rapporti sentimentali fra ragazzi e anche fra giovani

Accadde che, durante un pomeriggio, avendo captato che nella casa dei vicini c’era unicamente M. R., oltre al vecchio nonno cieco e giacente su un letto, nel mentre i genitori si trovavano fuori per lavoro, pensai bene di intrufolarmi fra le pareti domestiche dell’amica, dove la favorevole situazione m’incoraggiò a passare, in un baleno, ad approcci concreti: baci, abbracci, carezze, strette,  e altre iniziative e azioni similari. Un insieme di effusioni, che, nel silenzio assoluto dell’ambiente, finì col produrre piccoli vocii e rumori, avvertiti, ahinoi, dal vecchio nonno allettato e non vedente, e, come effetto, per voce dell’uomo, si susseguirono alcune grida domande e invocazioni, in questi termini: “M.R., che sta succedendo, cosa fai?” e poi ancora, ripetute invocazioni “Santa Lucia!”, “Santa Lucia!”

Nonostante le interferenze reattive del nonno, mi trattenni lì e mi diedi da fare nel migliore dei modi per una decina di minuti.

Purtroppo, l’accaduto, ancorché senza che potesse essere accompagnato da precise immagini, finì con l’essere spiattellato dall’anziano alla madre di M.R., immediatamente, non appena ella fece ritorno a casa. Ovviamente, la donna non impiegò molto a capire tutto, anche inquisendo la ragazza, invano giustificante l’episodio con il fatto che io ero semplicemente entrato in casa loro, come in precedenti occasioni, esclusivamente per attingere e bere un sorso d’acqua fresca del loro pozzo.

Sta di fatto che, a distanza di pochissimo tempo, ricordo che stava sopravvenendo il buio, il giovanissimo dongiovanni s’imbatté nella genitrice di M.R., la quale, senza perdere un istante, lo investì con una reprimenda chiara e inequivocabile: “ Come, con la scusa dell’acqua fresca, te friculi (ti strusci) con la figlia mia?” E a seguire: “Vattene via, brutto scostumato, ma non finirà qui!”.

Detto fatto, il trasgressore se la squagliò in un baleno.

Correvano stagioni differenti anche per ciò che attiene ai rapporti interpersonali tra famiglie. La brutta “partaccia” da me consumata, si portò appresso qualche segno nel senso di freddezza e di minore assiduità nel dialogo tra vicini, amici e compari, per la precisione non successe del tutto così con riferimento a M.R.; ad ogni modo, dopo alcuni anni, le tracce e i postumi dell’episodio si cancellarono e dissolsero.

 

°   °   °

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Ritornando alla passeggiata a piedi con Andrea, ho condotto il piccolo sino all’inizio della Via Vecchia per Andrano, con sosta all’altezza della “Arciana”, terreno una volta di proprietà dell’arciprete vecchio di Marittima.

Tale fondo è stato storicamente caratterizzato da un filare di altissimi e centenari pini, proprio lungo la strada che porta al vicino centro abitato di cui sopra e da una torre colombaia. Sfortunatamente, un paio d’anni fa, le piante sono state purtroppo vittime di una violenta tromba d’aria proveniente dal mare, che le ha divelte come fuscelli e abbattute pressoché totalmente, ne è   rimasta in piedi appena una.

La torre colombaia è invece rimasta indenne e si presenta quasi così com’era cinquant’anni o un secolo addietro.

E’ mutato solamente il numero degli “abitanti”, nel senso che, ora, si scorgono sui cornicioni e all’interno del manufatto sì o no una decina di colombi, mentre, quando ero bambino, gli ospiti si contavano nell’ordine di qualche centinaio. Addirittura, il loro tubare, per approssimazione  “guu”, guu”, “guu”, attivava un vero e proprio concerto, con notevole risonanza acustica, che noi ragazzini avvertivamo a distanza, ci sembrava che i volatili  dicessero “Gesù”, “Gesù”, “Gesù”, provavamo un certo spavento ed eravamo eccitati e esitanti ad avvicinarci alla “Arciana”, soprattutto da soli.

Ad Andrea, ho illustrato gli aspetti salienti intorno alla “Arciana”, vuoi riguardo agli storici pini e alla tromba d’aria, vuoi a proposito della torre colombaia; quanto, in particolare, a quest’ultima, gli ho riferito che, in dialetto salentino e marittimese, colombo si dice palummu e di conseguenza la torre colombaia è detta semplicemente palummaru. Gli ho, da ultimo, spiegato che, in epoche passate, la carne di colombo era considerata di particolare pregio e in special modo leggera, così che, in occasione di una nascita, nel paese non v’era famiglia, anche fra le poverissime, che non si adoperasse per acquistare un esemplare di colombo, con cui preparare, immancabilmente, un tazzone di brodo fumante e una pietanza di carne delicata a beneficio della neo mamma.

 

L’elogio della poesia di Elio Ria

di Francesca Fichera

elio ria

 

La precisione del poeta (che non sbaglia mai): la cantavano i Marlene Kuntz in un loro vecchio brano. E a questo accenno di descrizione sembra corrispondere perfettamente Elio Ria, secondo dei Destrieri nati dalla collaborazione fra il portale neoletterario Aphorism.it e la giovane casa editrice pugliese Lettere Animate. Sua è la dedica in forma di passo – ulteriore, proseguimento di un cammino – al fiorire atavico dell’arte poetica che coltiva e innaffia da sempre: Poesia, ragazza mia il titolo, dove dalla ripetizione trae origine la persistenza della memoria di un suono. E non a caso, perché il suono è il fluido attraverso il quale la voce della poesia diffonde la sua eco.

Ma il lavoro di Elio Ria va oltre, ed è qui che si invera l’implicita definizione dei Marlene: l’autore leccese non si limita ai versi ma li rende allaccio, ponte, nodi di una mappa della realtà, mentale e fisica, in cui vive. A cui fanno da corredo – e da sostegno – aforismi, citazioni, finanche veri e propri stralci tratti dai grandi classici – Calvino, Voltaire, Cioran, Leopardi. E in ultima istanza, dopo l’impennata in versi della prima parte del libro – dove spicca la rapida magia di componimenti come Incantevole vigoroso ulivo e Tanto che poi piangerò – s’insinua la solidità della prosa: evocativa quando impegnata a ritrarre momenti e odori di una Puglia assolata (Immagini); descrittiva e, a tratti, didascalica nell’atto di mostrare un bagaglio di voci inascoltate, di esperienze – letterarie e non – assorbite da Ria e dalla polvere che giace sui libri di cui si prende cura (Chi meglio di loro?). Si configura così quello che appare a tutti gli effetti «un giuramento. O qualcosa di simile» fatto all’ars poetica da un suo amante che è anche estremamente razionale; che ha scelto di non affidarsi solo alla propria vena, riconoscendone i naturali e umani confini, e svelando il meccanismo di compenetrazione e reciproca influenza stabilitosi tra i “figli dei poeti”. Mettendo a nudo l’infinito vincolo che li lega, come nella Biblioteca di Babele borgesiana.

Per questo accade che in Poesia, ragazza mia vi sia più riflessione che suggerimento, più pensiero che sensazione. È un libro che corteggia ciò di cui parla, che vi gira intorno; e che, quando abbassa la guardia di un occhio forse troppo vigile, regala perle di una maturità tanto preziosa quanto piena d’ombre. Di una saggezza sfuggente che recita: «Mancava poco per essere / niente: / a interpretare brevità c’ero io”, e che è quel che rimane dentro

Paolo Vincenti – Nero Notte

neronotte

di Gianni Ferraris

 

L’Orba è un torrente, ci andavamo i torridi giorni d’estate, si trova sull’Appennino Ligure, fra Alessandria e Genova. Ricordo, erano gli anni ’80 del secolo scorso, quel giorno di agosto ero solo, ci andai per starmene in pace, c’era poca gente allora, ed era un giorno infrasettimanale. L’acqua è ghiacciata anche in estate, una frustata piacevole sul corpo, è acqua limpida. Prima di partire, visto che volevo starci un’intera giornata, presi un libro da uno scaffale. Ci sono i libri già letti e quelli ancora da aprire, entrambi sono importanti spesso riprendo una lettura già fatta, forse per confermare ricordi ed emozioni, quelle nuove servono per imparare. Quel giorno, chissà perché, mi portai “Il lupo della steppa” di Herman Hesse, l’avevo acquistato da tempo e mai letto. Fu folgorazione, ancora con brividi di piacevole fresco dell’acqua, fu un tutt’uno aprirlo e non riuscire più a staccarmene se non per brevi intervalli, per bere o per guardarmi attorno, alberi e falchetti che volavano alti. Hesse mi avvolse come una coperta, come un abbraccio, fino alla fine della giornata e del libro. Chissà perché lo regalai, al ritorno, la sera stessa, ad un’amica che stava passando un periodo nero. Mi ringraziò.

Nero Notte di Paolo Vincenti, il suo romanzo, anzi la sua romanza, ha destato emozioni certamente diverse,  ha un sapore simile, un ritorno alla memoria di quel tempo e quei tempi. Già, i tempi e il tempo che in Paolo tornano in ogni opera, gli orologi presenti, anche in questo nuovo libro, sul retro di copertina, sono lì, in filigrana. Vincenti troverà la forza di romperli tutti, prima o dopo? Forse no, in ogni sua copertina ce ne sono, incombenti, insistenti, spudorati a ricordare le ore che scorrono.

 

Romanza di amore e morte… Storia di un’anima in pena. Nella notte, un uomo cammina, piange, ride, sogna, grida, si dimena… Nella notte, un uomo è inseguito dai propri fantasmi, e all’alba, un gallo canta…

 

Così leggo nel retro di copertina

 

Ermanno, il protagonista di Nero Notte, ha una sua storia in fondo uguale a tante altre, unica nell’unicità che ogni storia può e sa essere. Molti sono i richiami e i rimandi a letture antiche, a personaggi anche televisivi, come Vincenti usa fare.

Tutto in una notte, con finale a sorpresa che tuttavia pare non arrivare inatteso, quasi fosse la logica conseguenza delle parole lette, dell’evoluzione del racconto, dei pensieri, degli incontri che Ermanno ci racconta. Nella notte i ricordi si confondono, si rincorrono, la vita intera gli passa davanti con le sue notti insonne, con Gerry, il barbone conosciuto per caso davanti al chiosco dei panini, un amico trovato e quella tristezza che “li accomunava in quella notte che sembrava averli tratti dal greto della disperazione per farli rincontrare in quel luogo e in quell’ora, quando la confidenza fa parlare due vecchi amici come non è usuale fare…”, con Gerry e la sua fatica a vivere che lo costringe a proseguire fino in fondo la sua vita, perché sa che solo alla fine potrà comprendere il senso del vissuto. E lui, Ermanno, che invece teme il futuro. Angoscia d’artista, in fondo. Un giorno un pittore senza fama mi disse che senza tensioni forti dentro non avrebbe dipinto nulla, senza il pathos non sarebbe riuscito a trasmettere emozioni. Forse anche Ermanno è questo, fino alla fine della notte, all’urlo liberatorio.

Lui con i quadri dipinti e mai esposti, con le poesie scritte. E con Elena che è presenza costante, lontana, storia antica e finita. Storia mai finita in fondo, come gli amori importanti sanno essere. Un amore mai concluso, con l’eco di Eloisa e Abelardo sullo sfondo. E con ricordi di altri amori, passati, come il destino aveva predisposto. Elena, quell’amore ancora rincorso davanti al mare, in quella notte, come un urlo.

Poi l’alba al porto, con il sole che iniziava a rischiarare, con la notte che doveva essere quella delle scelte difinitive che invece è “trascorsa invano”. In fondo era la quarta notte che passava insonne. Un altro lupo solitario ha attraversato la mia vita. Tanto simile ai mille lupi che conosco, alle solitudini che ho incrociato passeggiando all’alba per le strade quasi deserte, quando incroci uno sguardo e ti chiedi “chissà a cosa sta pensando…”

 

Paolo Vincenti – Nero Notte – Maggio 2013 – Libellula Editore € 10

No mmi tuccati lu mièru! (Non toccatemi il vino!)

di Armando Polito

Il titolo di oggi potrebbe sembrare il grido disperato, tra l’implorazione e la minaccia,  di un alcoolizzato al quale hanno appena finito di sottrarre la bottiglia che aveva svuotato a metà da pochi secondi con due gesti che a lui erano parsi sorsetti, appena un assaggino per iniziare bene la giornata…

Non sono un fine intenditore di vini, tanto meno un fanatico delle etichette per il quale l’apertura di una bottiglia è un rito accompagnato da uso di calici particolari, immersioni (se non si prendono bene le misure) del naso, sciacquamenti di bocca che per poco non sembrano gargarismi, fino alla diagnosi finale che per aggettivi usati e sostanze evocate susciterebbe l’invidia del più accreditato sommelier.

Mi piace, però, bere il vino e, soprattutto quando sono in compagnia di persone simpatiche (meglio se astemie, così di vino me ne tocca di più …), non in misura modica, anche perché, se è genuino, cioè senza additivi e conservanti, lo sopporto benissimo (al massimo mi addormento …), almeno questo dicono gli altri; se l’avessi detto io magari avreste sospettato che anche mentre scrivevo queste righe non fossi tanto sobrio …

Vengo al dunque e dico che l’esclamazione del titolo non è legata ad un tentativo di sottrazione del prezioso liquido da parte di qualcuno premurosamente interessato alla mia salute, anche perché l’ultima bevuta degna di questo nome, fatta con mio cognato Giuseppe, risale a più di venti giorni fa; quindi, puru ci m’era fattu a stozze1,a ‘st’ora era già sbafatu2 (anche se mi fossi ridotto ad essere ubriaco fradicio [alla lettera: a pezzi], a quest’ora gli effetti sarebbero già svaniti).

In ballo ci sono valori molto più elevati e solo apparentemente astratti, visto che il vino viene celebrato, giustamente, a destra e a manca come un fatto culturale e la cultura non è certamente una cosa astratta come ritiene la politica capra (nel senso sgarbiano, ma, comunque, chiedo scusa alla bestia pure per lui) quando afferma che con la cultura non si mangia.

Tuttavia quella politica non ha tutti i torti ad affermarlo in un mondo in cui la demeritocrazia è il criterio imperante e la professionalità ha lasciato il posto all’ignoranza, alla superficialità,  al pressappochismo, al clientelismo da una parte ed al leccaculismo dall’altra.

La stampa certamente non si sottrae a questa decadenza, per colpa, anzi grazie (visti i tempi che corrono e che ho sinteticamente prima stigmatizzato) a sedicenti giornalisti senza un pizzico di umiltà che dovrebbe spingere chiunque ad informarsi prima di fare certe affermazioni (veramente in rapporto a quanto sto per dire sarebbe bastato anche un pizzico di bruto intuito …).

Nel numero, fresco fresco,  di luglio di Bell’Italia edito da Giorgio Mondadori a pag. 66 leggo: “…Da non perdere La Festa te lu mieru (6-8 settembre) a Carpignano (a 26 km.): lu mieru (il nero) è il vino in dialetto locale; info: 333/3.13.97.98, www.festatelumieru.it”.

Per l’autore del testo, dunque, mièru non sarebbe altro che il corrispondente dialettale di nero. Qui in Salento probabilmente anche i bicchieri di vetro più scadente e pure quelli scheggiati sanno che mièru è dal latino meru(m), neutro sostantivato dell’aggettivo merus/mera/merum che vuol dire puro, schietto; i Romani, infatti, bevevano il vino (vinum) dopo averlo annacquato, mai puro. Farlo per noi (anche se i nostri vini potrebbero tranquillamente sopportare un taglio del genere, purché la percentuale di acqua fosse ragionevole …) equivarrebbe ad un sacrilegio e perciò, ad evitare equivoci, chiamiamo mièru quello che in italiano si chiama vino

Un esempio eloquente della distinzione fra il vino annacquato (mixtum) e lo schietto (merum) si ha in Marziale (I-II secolo d. C.), Epigrammata, III, 57: Callidus imposuit nuper mihi caupo Ravennae,/cum peterem mixtum, vendidit ille merum (A Ravenna un oste astuto poco fa mi ha venduto vino schietto mentre glielo avevo chiesto annacquato). Mi pare già qualcuno chiedersi se questo Marziale non fosse un fessacchiotto o un pazzo a lamentarsi per il fatto che l’oste gli aveva venduto vino schietto per annacquato. Gli sarebbe costato troppo sudore annacquarsi quello puro una volta giunto a casa? Le cose, però, stanno così: il vino di Ravenna non era molto quotato essendo ricavato da viti meno esposte al sole rispetto a quelle spagnole, siciliane o cipriote: perciò il vino schietto che se ne ricavava era addirittura più debole di quello annacquato proveniente da zone più calde, tanto che lo stesso Marziale nell’epigramma precedente aveva scritto: Sit cisterna mihi quam vinea, malo, Ravennae,/ cum possim multo vendere pluris aquam (A Ravenna preferirei avere una cisterna (di acqua) più che una vigna, potendo vendere l’acqua ad un prezzo molto più elevato (del vino).

La distinzione tra mixtum e merum continua nel latino medioevale, del quale non riporto, per brevità, alcuna testimonianza; dico però che probabilmente proprio al medioevo risale la nostra abitudine di bere vino schietto.

So benissimo che chi scrive il testo per una rivista, soprattutto per una destinata, come Bell’Italia, a lettori non solo italiani avrà l’obbligo, al pari di tutto il corpo redazionale e del direttore, di conoscere l’inglese ma non il latino, né arcaico né classico né medioevale (lo so, ma mi pare discutibile …); credo però che abbia quello di documentarsi da fonti attendibili per tutto ciò che non rientra nelle sue conoscenze e competenze e che, comunque, debba essere in grado di consultare i vocabolari dialettali, strumenti di lavoro fondamentali in una redazione che aspiri a pubblicare una rivista che sia ad un livello appena superiore a quello di un semplice dépliant. In questo caso, poi, al di là dei metaforici bicchieri salentini, il cui suono, comunque, si sarebbe dovuto ascoltare, sarebbe bastato digitare in qualsiasi motore di ricerca mieru per avere la risposta3, scartando, è ovvio, l’omofono verbo giapponese (!) che significa sembrare4.

Naturalmente la loro parte, tutt’altro che trascurabile, di colpa ce l’hanno pure tutti coloro che avrebbero dovuto controllare prima di dare l’autorizzazione alla pubblicazione.

Sono consapevole di aver suscitato probabilmente in qualcuno la tentazione di andare a comprare, non fosse altro che per un controllo, un numero della rivista e so, in tal caso, di aver contribuito paradossalmente, al pari delle solite, melense recensioni, a farle pubblicità. Confido, però, nell’intelligenza della maggior parte del lettori di questo sito, ai quali basterà e, per quelli che nutrono in me cieca fiducia, avanzerà l’immagine che segue.

 

Un’ultima cosa: non presumo di entrare nel cervello di qualcuno ma, siccome ho basato la mia professione (per chi non lo sapesse quella di un modestissimo insegnante di latino e greco) e, in fondo, tutta la mia vita sulla (ri)valutazione dell’errore, a cominciare dal mio,  non posso fare a meno di formulare un’ipotesi circa la genesi di questa bestialità destinata, al pari di tante altre, ad andare in giro per il mondo: molto probabilmente una certa analogia fonetica tra miéru e nero e lo zampino del negramaro (mi riferisco solo al nome, non ad un eventuale abuso della sostanza che esso indica …) hanno creato il cocktail indigesto che mi ha ispirato il titolo di oggi.

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1 Nel dialetto neretino stozze è una forma di plurale femminile, usato solo in questa locuzione, di stuèzzu (al plurale normalmente stuèzzi). Per stuèzzu il Rohlfs non propone alcun etimo, ma credo che la voce sia corrispondente all’italiano tozzo (di etimo incerto) con prostesi di s– intensiva.

2 Il Rohlfs al lemma sbafare rinvia a spafare dove non compare proposta etimologica; tuttavia la presenza nella definizione di sfogare può far pensare che per lo studioso tedesco quest’ultimo non sia un semplice sinonimo ma la voce originaria dalla cui deformazione sarebbe nato sbafare. E alla fine, quasi a confermare il mio sospetto, c’è un “cfr. il calabrese e napoletano sbafare=sfogare”. Nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1788, v. II, pag. 80 il lemma è trattato come appare nell’immagine sottostante:

 

Viene proposta, dunque, l’origine da afa, ma è di ardua spiegazione sb– iniziale. Ricordo che in italiano esiste sbafare (mangiare o bere abbondantemente e con avidità), voce di origine onomatopeica. Nel dialetto neretino sbafare assume lo stesso significato della voce italiana, ma può essere usato anche in senso meteorologico [lu cielu ha sbafatu=il temporale è passato, alla lettera il cielo si è divorato (le nuvole), cioè le nuvole sono scomparse]. Se veramente questo secondo sbafare ha lo stesso etimo del primo, la nostra locuzione a ‘st’ora era già sbafato significherebbe alla lettera a quest’ora sarebbe passato molto tempo dalla bevuta e, quindi, sarebbe come dire a quest’ora avrei già smaltito la sbornia.

3 Per esempio, in http://www.dialettosalentino.it/mieru.html e, chiedo scusa per l’autocitazione, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/16/lu-mieru-il-vino-12/; per i libri, in  http://books.google.it/books?ei=a6vdUZD6GYrVtQbjooCwDQ&hl=it&id=fAvaAAAAMAAJ&dq=mieru&q=merme#search_anchor

http://books.google.it/books?id=SszxbMtHbs8C&pg=PA544&dq=mieru&hl=it&sa=X&ei=-8nfUYafC4aL4ATL3YG4Ag&ved=0CDcQ6AEwAA#v=onepage&q=mieru&f=false

5 Per l’etimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/10/gnorumaru-negro-amaro-negramaro/

Ora sappiamo perché i cervelli fuggono

di Armando Polito

… Il fatto che noi diciamo che c’è la fuga dei cervelli è una dimostrazione del fatto che la scuola comunque li prepara bene che altrimenti non troverebbero lavoro così facilmente; negli Stati Uniti, in Germania, in Francia è pieno dei nostri laureati. Io stessa mi ricordo benissimo quando ero ricercatrice per giravo in tutto il mondo continuavo a …. [verbo incomprensibile] di quanti laureati avevo a disposizione, se avevo da segnalare persone per prenderle nei migliori laboratori del mondo, quindi c’è proprio una fame dei nostri laureati, dei nostri studenti …

Il brano in corsivo che avete appena finito di leggere è la trascrizione fedele (controllate e fatemi sapere …) di un brano di un’intervista  rilasciata in data 18/7/2013, dunque fresca fresca, da Maria Chiara Carrozza, attuale titolare del MIUR (per chi non lo sapesse acronimo di Ministero Istruzione Università Ricerca), intervista che potete visionare integralmente all’indirizzo     

http://video.repubblica.it/politica/carrozza-se-ci-sono-cervelli-in-fuga-e-segno-che-li-prepariamo-bene/135346/133880?ref=HRBV-1

Lascio perdere alcuni dettagli espressivi che non posso perdonare nemmeno ad uno scienziato qual è l’intervistata e vado dritto dritto alla sostanza. Per chi ancora non l’avesse capito: se i cervelli fuggono è per colpa di quei docenti che, avendo compreso le potenzialità dei loro allievi, si sono prodigati perché la loro meravigliosa dote naturale venisse allenata ed affinata. La soluzione è ovvia: basta non curare, non valorizzare, anzi mortificare e spegnere quelle intelligenze, e questa emorragia fatale di sapere, competenza e attitudine alla ricerca (quest’ultima strettamente connessa con la voglia di sognare, l’unica che può cambiare il mondo …) cesserà d’incanto.

Insomma, se i giovani migliori per poter prima mangiare e poi realizzarsi professionalmente sono costretti ad emigrare, la colpa non è della politica ma della scuola (da intendersi, credo, quella pubblica …); meglio, dei professori che, più testardi dei muli, continuano a tenerne alto il prestigio.

So benissimo che nella nostra amministrazione pubblica i vari dicasteri sono compartimenti stagni, il che rende un gioco da neonati il palleggiamento delle (cor)responsabilità e costituisce un alibi per non presentare mai le dimissioni (leggi abbandonare la poltrona) nel caso in cui le nostre belle parole si scontrano (ho usato l’indicativo perché succede sempre …) con l’amara realtà del non incremento, anzi del taglio continuo delle risorse da parte del ministero competente. Questo lo dico per prevenire e, nel caso non lo si comprenda, per annientare qualsiasi accusa di estrapolazione strumentale del pezzo riportato allo scopo di fornirne un’interpretazione ad usum delphini, che oggi è di moda bollare, in casi come questo, come demagogica e qualunquista. Dico pure che questo sacrificio a vantaggio degli altri paesi mi sembra come il campionato mondiale della stupidità al quale un tempo nemmeno ci iscrivevamo e che oggi vinciamo a mani basse ….

Siccome, però, per quanto ho detto prima, non pochi docenti ed allievi appaiono, per riconoscimento dello stesso ministro, estremamente intelligenti e responsabili, dove vanno cercati i profondamente irresponsabili, stupidi o furbi? Escludendo per assurdo (?) tutti coloro che sono impegnati più che nei decreti del fare (calma, la locuzione è ellittica del complemento oggetto: schifo) in quelli del rinviare,  che abbiano, paradossalmente, ragione quei pochi docenti (non parlo di chi, fra loro, avrebbe fatto danni esercitando pure, con tutto il rispetto, il mestiere di spaccapietre …) che hanno adeguato il loro insegnamento al riconoscimento economico della loro professione (quando questo concetto di proporzionalità diretta verrà applicato a se stessa dalla classe politica?) giungendo alla conclusione che concetti come dignità, amor proprio, rispetto di noi stessi, del prossimo in genere e in particolare di chi ci è affidato sono vacue parole al pari di sacrificio, merito e onestà?

E, dopo Mariastella Gelmini prima e Maria Chiara Carrozza poi, solo Maria Addolorata (così il climax discendente è completo …), quest’ultima senza cognome …, ci potrà salvare?

La penna e il pennello

paesaggio_acrilico_laura_petracca

di Paolo Vincenti

 

Un libro di pittura e poesia che vede la luce in questo 2013, a firma di Laura Petracca e Pina Petracca, amiche nella vita e colleghe di lavoro, artiste sensibili, colte e raffinate. Una richiesta, quella di presentare il libro, che ho accolto subito, lusingato da tanta attenzione nei miei riguardi. Quattro “P” a puntellare il nucleo di questo progetto: le due “P” di Petracca e Petracca, la “p” di pittura e quella di poesia. Ut pictura poesis, per dirla con Orazio.  Un’antologia artistica che assomma, fondendole insieme, le opere pittoriche di Laura e i componimenti poetici di Pina. 15 dipinti per 15 poesie. Pari dignità fra verso e immagine,  poesia visiva o figura poetica, sinestesia, la più riuscita e compiuta, quella (teorizzata da Ramachandran) grafema-colore, viaggio multisensoriale nell’universo creativo di due artiste di casa nostra accomunate da umanissimo bisogno di comunicare, attraverso la loro testimonianza estetica, dinamiche del cuore. E in questo mix, nel tutto continuo di un’opera d’arte in progress, il  libro si configura esso stesso come corpo poetico, elegante ed originale com’è.

Si materializza così, l’arte sovrana, un dialogo fra penna e pennello, stimolante, vivificante, sia per le autrici che per i lettori.

 

Il Barocco è più di un movimento culturale. È ben più di quello stile artistico caratterizzato dalla monumentalità delle costruzioni, da stucchi, volute, ori, bronzi e tutti quegli effetti di tensione drammatica e di grande teatralità propri della scultura e della pittura, che, fra il Seicento e il Settecento, hanno permeato anche l’arte salentina, facendo di Lecce la “Firenze del sud”. E’ ben più del gusto per la grandiosità,  la stravaganza, la bizzarria. È la cifra connotativa di questa nostra penisola salentina. Come spiega A.L. Giannone, presentando l’opera “Barocco del Sud”, di Vittorio Bodini, “… il barocco leccese diventa per Bodini una condizione dello spirito in cui si riflette un disperato senso del vuoto, un horror vacui, che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza decorativa, ma anche con certi atteggiamenti, visti come altrettanti modi per sfuggire al sentimento del negativo che si avverte nel Salento… […] Da qui la lotta incessante tra vuoto e pieno, tra luce ed ombra, che si svolge sulle facciate dei monumenti leccesi, e che allude a quella, ben più concreta, tra la vita e la morte, tra l’esistere e il suo contrario”. Il Barocco  è una condizione dell’anima. Ed è infine, la condizione essenziale dell’arte e della vita di Laura Petracca.

La Petracca  è una pittrice che vive ed opera a Specchia, meraviglioso borgo in provincia di Lecce, a cui Laura è legata visceralmente e a cui ha più volte manifestato tangibile amore filiale sia con la pittura  (penso ad una sua bellissima rivisitazione dello stemma civico di Specchia) che con la sua partecipazione attiva alla vita culturale della piccola cittadina. Laura Petracca, diplomata in Decorazione  all’ Accademia Di Belle di Lecce, insegna “Disegno e Storia del Costume” nell’indirizzo “Abbigliamento e Moda” presso l’I.I.S.S. Polo Professionale “Don Tonino Bello” di Tricase (Le).  Ha partecipato a numerosissime  mostre collettive e personali e ha ricevuto molti premi e riconoscimenti.

Artista poliedrica, oltre agli acrilici che vediamo in questo libro, Laura realizza pitture su legno, pitture su stoffa (come abiti decorati, tende, coordinati  e fiocchi per neonati o per carrozzina, coperte, ecc.), fregi, specchi decorati e finanche poster.  Animata da profonda spiritualità ( penso ad una bellissima “Madonna del Passo, per la omonima chiesa specchiese dalla Petracca devotamente frequentata), sembra che Laura con ogni opera festeggi il miracolo della vita,  non solo nelle grandi tele, ma anche con le vetrate, i piatti, i vassoi, decorati dall’artista con amore e pazienza certosina. Infatti Laura esegue anche decorazioni su vetro (anzi, proprio in queste mi dice di essere ultimamente più impegnata), a conferma della sua grande versatilità. In queste opere, Laura esprime l’amore per la propria terra attraverso il recupero di quelle tecniche artigianali antiche come antico è il cuore profondo di questa terra riarsa e primitiva. La sua però non è una salentinità gridata e oleografica, ma è piuttosto un’appartenenza poetica, fondata sugli assiomi archetipici di un’ancestrale legame, iconizzata nei toni accesi dei suoi verdi, rossi, gialli, blu.

Ho già sottolineato come l’uso del colore, libero, quasi spregiudicato, in Laura Petracca, mi abbia colpito fin dal primo momento in cui ho ammirato le sue opere. Sono d’accordo con Tiziana Cazzato, quando dice che “…Laura Petracca trasferisce nelle sue opere la solarità della sua personalità, dando vita  con la sua spontaneità, a dipinti carichi di intensa creatività e serenità. La pittrice emoziona con le sue opere fatte di luce e colori.” E non affermava forse Matisse che “Il colore soprattutto, forse ancor più del disegno, è una liberazione.”?
La Petracca  è una paesaggista e anche astrattista. Molti esperti hanno espresso positivi giudizi critici su di lei. Vincenzo Abati parla di  “fervore  creativo  e  lirismo  poetico  in  simbiosi  nella  pittura  di   Laura  Petracca”.  “Il percorso artistico di Laura Petracca denota una attenta, profonda, conoscenza del processo artistico moderno”, scrive Rocco Vergari, “ che tradotto con linee e colori, evidenzia un denso e gioioso interesse per i fatti che legano l’uomo alla natura, quasi legami insolubili dell’esistenza umana.  In alcune rielaborazioni di opere, Laura riesce , con il solo ausilio dei colori giustapposti, a migliorare, senza la presunzione di correggere, le opere di grandi artisti.   La sua umiltà e la sua giocosità tradotta da linee e colori caratterizzano ed entusiasmano l’osservatore”. Tradizione paesaggistica e astrattismo si bilanciano insieme nell’opera di Laura. E’ come se ella partisse da un referente naturale (come il paesaggio) per giungere, attraverso l’astrazione, all’essenza delle forme: un processo che potrebbe essere letto anche al contrario. Attraverso il mezzo espressivo che privilegia, cioè quello cromatico, nei paesaggi arriva a toccare anche punte naif, ossia di restituzione genuina dell’impressione visiva. Nella sua formazione artistica, molta parte hanno avuto il Futurismo e Fortunato Depero, per quella dinamicità del segno che le è congeniale. Qualcuno si spinge a dire che in Laura “è presente un temperamento futurista, infatti come gli artisti di quel bellissimo movimento, il suo operare spazia dalla pittura alla decorazione, mantenendo sempre ottimi livelli.”  Sicuramente si possono riconoscere, come fonti di ispirazione, gli astrattisti, quali Kandinsky (di cui ricordiamo la nota affermazione”Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde”). E notevoli  e particolari sono i suoi omaggi a Klimt, a Depero, a Matisse, allo stesso Kandinsky. Pagato pegno ai propri maestri ed ispiratori, però, Laura si affranca da una condizione di eterna subalternità ai maggiori, cercando una propria strada nell’ardore di una rappresentazione plurisemantica che tocca tutti i punti focali dell’arte e della vita e di entrambe intrecciate insieme. Laura si evolve e giunge, nella sua maturità artistica, all’originalità di un discorso pittorico suo proprio.  E quasi attingesse dal suo scrigno tesori ancora insperati, porta la propria ricerca poetica sul colore a raggiungere con le ultime produzioni (uno specimen possono costituire le opere ritratte nel libro) una pienezza espressiva che le si deve interamente riconoscere, se la sua narrazione artistica sa affabulare attraverso  un’alchimia cromatica che Laura,nella sua fucina creativa, ha saputo forgiare quasi  demiurgo e mago, al tempo stesso artista e artigiana, ideatrice ed esecutrice. La sua, una sintesi prodigiosa, affascinante, del tutto convincente. Eccoci allora immersi in un “Autunno” dai colori  giallo, marroncino, beige, con quell’albero al centro, quasi sentinella di un tempo in consunzione. Eccoci immersi in un “Campo con fiori e papaveri gialli”, nel quale sembra che l’autrice abbia corso a perdifiato tante volte, fino allo sfinimento, fino a percepire la sensazione di diventare tutt’uno con la natura intorno, medesimo fiato, unico respiro, “di fiore in fiore, da terra a cielo, dal sogno al vero”, come nella poesia di Pina Petracca. Eccoci nell’azzardo di un “Campo divisionista”, in cui “perdersi”. Belli quegli alberi in controluce di un “Dolce risveglio”, come “nell’estasi di un’alba” . E così,  un”Estate” salentina può renderci sulla tela, nella sua rappresentazione più assoluta e assolata, solo chi ha vissuto a fondo le nostre estati, come può renderci  un “Inverno”, cioè “brivido di freddo e di piacere, inquietudine ed equilibrio” seguendo i versi di Pina, solo chi sente questo paesaggio parte integrante del proprio vissuto, cioè casa.  Ecco  “L’albero della vita”, eterno ammonimento agli uomini di tutte le età, che fa il paio con quell’altro “Albero solitario”, svettante nel verde e nell’azzurro come una bandiera, come un vessillo di autentico amore, e chissà quante volte Laura avrà abbracciato quell’albero maestoso. Scrive Liliana Nobile: “ La natura, nella personale interpretazione di Laura Petracca, è un inno alla fantasia che nel suo immaginario pittorico esplode con un’esultanza di colori intonati ad un armonico vivere.” E Nadine Giove: “La poesia pervade l’intera opera di Laura Petracca, che conduce lo spettatore verso mondi d’intima bellezza. La purezza dei colori, la leggiadria delle forme, l’equilibrio compositivo delle pennellate sulla tela: tutto suscita un incantato stupore in chi osserva le sue opere. La natura è resa romanticamente e con sensibilità squisitamente femminile . Tuttavia il segno trattico è ben disegnato, dai contorni precisi a punta di pennello. Tutto ciò denota un istintivo talento da parte della pittrice, che senza timore rivela ciò che più le sta a cuore. L’arte con lei diviene così ritratto idilliaco di un universo dall’atmosfera magica e sognante. Laura Petracca è artista dallo stile personale, che ci svela il suo Io interiore, intingendo il pennello nella sua anima per creare splendide opere: al fruitore non rimane che coglierne gli aspetti più profondi e farsi ammaliare da esse.”  Il dipinto “Metamorfosi” ci fa pensare al transeunte, ossia all’eterna condizione dell’uomo che è in continua trasformazione, come tutte le cose. E si ritorna alla magia del “Paesaggio” salentino, là dove si sente quanto forti siano le radici, e di una radiosa “Primavera in riva al mare”, cosi carica di vibrazioni che le avvertiamo quasi sulla pelle. E come sono evocative le margherite di “Primavera” e intensi i vividi colori di “Risveglio della natura” con quei toni di giallo, di fucsia, “d’azzurro e di sole”, come nella acclusa poesia di Pina. E come fragili eppure forti, in “Campo con papaveri e fiori bianchi”, sono quei boccioli che al vento si piegano, “eco al canto degli uccelli, polline alle api, emozioni al tramonto”, poetica metafora della nostra esistenza; ed è dolce immaginare di poter volare sui “Pini tra i fiori”, in un incontaminato scintillio di marroni, rosa, verdino, bianchi, neri, gialli, balenanti sulla tela, per scoprire esterrefatti e felici che “non è un sogno”, ma serena, edenica realtà .

Ci vuole maestria per  coniugare la tradizione paesaggistica con le avanguardie storiche, per sposare un  messaggio di intensa religiosità,  con l’azzardo di un astrattismo a volte spinto. Ci vuole talento anche per coniugare intimi fervori con appassionato slancio sociale e mutualistico; Laura riesce a farlo attraverso la sua pittura luminosa, con risultati talmente sfavillanti e impetuosi  che, nei momenti di più vorticoso narrare, producono un effetto quasi ipnotico sull’osservatore . Nonostante il fedele legame alla terra madre, i suoi mondi cromatici  figurano  una extra spazialità ed una extra temporalità che possono essere concepite solo da chi  riesce davvero a viaggiare con la fantasia. E’ significativo quello che la stessa Pina Petracca, l’altra protagonista di questo libro, scrive su Laura: “Non conosco le pulsioni che danno l’anima ad un pennello, né la passione che dà vita ad una matita, ma posso conoscere le emozioni che guidano la tua mano tra i colori che ancora di più nobilitano il tuo cuore.”  Nella “teoria dei colori” Goethe sostenne che i colori non sono solamente qualcosa di fisico ma hanno a che fare con l’intimo di ognuno di noi, esercitano cioè una tensione fortemente spirituale nel nostro animo e sono altresì collegati con la poetica, con l’estetica, con la psicologia, la fisiologia e il simbolismo. Credo che questo spieghi bene le ragioni intime e artistiche della  scelta operata da Laura Petracca nella sua produzione.

 

Pina Petracca è poetessa appartata, poco avvezza ai lustrini e alle paillettes di un ambiente culturale in grande spolvero come quello salentino degli ultimi anni. Pure ha collezionato vari premi ed è molto apprezzata e amata dai propri amici e colleghi  e dall’ancora ristretto pubblico di lettori delle sue poesie. La sua produzione merita più di una semplice segnalazione e forse questo libro, che è un progetto ambizioso nelle intenzioni delle sue curatrici, può essere il mezzo attraverso cui le opere della Petracca vengano maggiormente conosciute e possano ottenere il meritato riconoscimento. Questa raffinata interprete apre per la presente pubblicazione il proprio taccuino poetico e lo scompagina, spiegando una grammatica dei sentimenti  che appartiene ad una sensibilità tutta femminile, nella quale chi scrive cerca di entrare come può, aprendosi un piccolo varco che gli permetta di decodificare, improvvisandosi esegeta, l’immaginario poetico dell’autrice.

Pina Petracca , insegnante di Laboratorio di Chimica presso l’I.I.S.S.”Don Tonino Bello” di Tricase,  vive ed opera  a Surano (LE).   Ha pubblicato nel 1999 la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Inno alla vita” (Liber Ars- Lecce)  e nel 2007  il volume “L’Antidoto contro zucchero e veleno” (Carra Editrice) . Da molti anni organizza con la Pro Loco del suo paese il Concorso Nazionale  di poesia “Un momento di…verso” giunto ormai alla decima edizione. Ha inoltre partecipato a diversi concorsi e manifestazioni di poesia.  Nella presente silloge troviamo una raccolta di componimenti poetici scritti in versi liberi, vari per tono ma omogenei per ispirazione, quasi tutti brevi, che fanno da contrappunto ai dipinti di Laura. Il suo linguaggio è semplice, diretto, poco concede agli effetti speciali della lingua, piuttosto intriso di una lirismo sofferto, intimo, ma immediato. Una produzione poietica di squisita fattezza, le sue liriche si muovono su più livelli, nessuno dei quali banale, scontato.

Già definita “la poetessa del colore”,  Pina deve molto alle fonti a cui si è abbeverata nel corso della sua formazione, chiaro l’influsso che su di lei hanno avuto i grandi classici della trazione letteraria, in particolare i poeti italiani del Novecento. Pina è fortemente legata alle proprie radici, al paese di origine San Cassiano e a quello di adozione, Surano, ma Pina è donna di lettere, ed appartiene dunque al mondo della poesia ed ecco, quasi orgogliosa rivendicazione di cittadinanza poetica, quel perdersi “in emozioni tra fili d’erba tripudio di colori e fogli di poesia” (da “Perdersi”). Ecco un ecumenico messaggio di condivisione con il tutto quando scrive “che tu sia erba foglia o albero, che tu sia brezza onda o mare, che tu sia luce sole o cielo, o forse solo ombra ad osservare… sarai tu il risveglio della notte” ( da “Dolce risveglio”). Si avverte il desiderio profondo di congiungersi con la natura circostante, cielo nel cielo, terra nella terra, acqua dall’acqua, sole, mare, pietra fra le pietre, vento impetuoso e selvaggio ( “io radice tronco albero ramo fiore foglia tutto”, da “E’ qui adesso”).  E infatti in “Metamorfosi”, esplicita ancor meglio questo suo sentirsi in divenire, forse ricordando la lezione eraclitea del panta rei ( “tutto scorre, non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”), e nella consapevolezza del mutare di tutte le forme, si sente come “ ali di farfalle ignare d’essere state su ramo nudo nude crisalidi gemme in mutamento..”. L’autrice si sente parte di quel ritmo eterno che governa le stagioni, di quel tempo che sovrintende all’avvicendarsi delle umane circostanze, nell’ordito semplice eppure complesso della sua trama poetica.  Questa religione della natura, esplicitata anche nelle espressioni fonosimboliche che costellano i suoi versi,  fa della Petracca una sorta di driade, la ninfa dei boschi della mitologia greca, che canta estatica la forza e il rigoglio della vegetazione: “Io volo con gli uccelli e qui respiro e come l’azzurro cielo abbraccio tutto”, scrive in “È qui adesso”, che sembra tanto esistenzialistica esaltazione dell’ hic et nunc che comprende la fragilità umana e sa come questo tempo e questo spazio siano finiti, quanto ,di converso, cristiano invito a rimuovere qui ed ora le cause di impedimento della felicità e a realizzare qui una propria piena spiritualità ( “ e qui adesso… vivo”) . In questo senso è da leggere l’oraziano “Carpe diem” che titola un’altra poesia, cioè come invito a vivere pienamente l’amore degli attimi che ci regala, e del pari, una esortazione a godere della bella stagione dei fiori di campo, “d’azzurro e di sole”, prima che giunga l’autunno del ricordo e della preghiera, anticipazione dell’inverno della mestizia e del ripiegamento su se stessi. Di più, mi sembra, quello della poetessa, abbraccio solidale e messaggio di corrispondenza d’amore fraterno con l’agape dei propri simili.  In una spalancata “Primavera in riva al mare”, la sua gratitudine di fronte alla creazione diventa messaggio di colore, diventa meraviglia.  La pace domina in questi versi, uno stato di sospensione del tempo e dello spazio mi sembra che regni in queste liriche di Pina, nelle quali il reticolato poetico di emozioni, sussulti, suoni, colori, intimismo vissuto e donato si dispiega quasi come logos svelato. E le sue interrogazioni sul senso della vita, i dubbi e le incertezze che si percepiscono in filigrana  tra i versi sussumono un  vuoto di senso che è proprio di quest’era in dissoluzione. Scrive Oronzo Russo: “Le sue, più che poesie, sono appendici di un romanzo unico e incompleto; capitoli, pur frammentari, di una vicenda che segue la prima, appena abbozzata, con i colori di una  terra eccezionalmente bella come il Salento.  Pina Petracca non è, comunque, solo una cerniera fra più pensieri, o più situazioni: rappresenta anche e, soprattutto, il punto di ritrovo concettuale di idee, di aspirazioni, di fallimenti e di successi individuali. Se la confessione è la “psicanalisi dei poveri”, Pina si evidenzia nel ruolo dell’amico, confidente e complice, presenza discreta, alla ribalta di un illuminismo culturale proiettato, ormai, nel secolo delle incertezze. Pina Petracca, però, non nasconde, dietro di sé, un “male” oscuro e imprecisato che emerge, di volta in volta, da una tensione, non solo espressiva, che recita, nel teatro sotterraneo dell’inconscio, un conflitto sociale, e gli interrogativi della novità.”.  Fra il desiderio di volare da un lato e la realtà sofferta dall’altro, tutto un mondo in trasformazione e la volontà dell’autrice di entrare nel ciclo delle rinascite, nel ricorrente mutare delle cose, di farsi essa stessa viluppo, groviglio,  il suo anelare alla pienezza del tutto. “Ditemi che vegliano ancora i pini, che il tronco conserva ancora i nomi e che ancora  i pettirossi fanno i nidi” scrive in “Non è un sogno”. Le sue liriche nascono nel silenzio, credo, un silenzio aurorale, da cui germogliano parole gemme che vanno a comporre il presente florilegio che, come un mannello di primizie, Pina ci offre in questa imminente primavera di crisi e di speranza.

 

Leggendo, ci si accorge che scorrono leggere le pagine di questo libro. Cosi le correlazioni semantiche fra immagini e testi poetici portano ad una sorta di “fonestesia”, se mi è permesso mutuare questo termine dalla scienza linguistica, per andare ancora al di là del nesso sinestetico di cui ho parlato all’inizio, a volere significare una totale compenetrazione fra il gesto e la parola, il pennello e la penna, che si attraggono come nelle “affinità elettive” di Goethe, ossia con una totale mescolanza di piani che risulta difficile separarli e che anzi trovano proprio nella loro sovrapposizione, come in una reazione chimica, unità, armonia. Infatti i versi di Pina accompagnano così bene i disegni di Laura, quasi con funzione didascalica, che Pina sembra voglia dire, con Alda Merini “Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irresolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici,“perché”del mio respiro.” Ed io, che con gli scarsi mezzi a mia disposizione, ho cercato di introdurre degnamente questo lavoro, concludo augurando alle autrici che, con la loro arte, possano davvero prendere il largo nel grande mare della vita.

Duc in Altum, Laura e Pina!

 

Tutto, o quasi, sulle corna (3/3)

di Armando Polito

Pare che pure con le corna è meglio abbondare che essere in difetto: non riporto l’opinione di qualcuno abituato più a farle che a subirle o di qualcun altro che con le corna ha trovato il sistema di procacciarsi non solo il pane, come nel vecchio proverbio dialettale ricordato all’inizio, ma pure il companatico; intendo solo introdurre la locuzione gemella di fare le corna, cioè mettere le corna.

Mi pare di sentir dire: – Fare o mettere, sempre corna sono!– D’accordo, però basta un verbo nel fare la differenza, non a cancellare le corna ma a mettere in discussione tutte (in realtà due) le ipotesi fin qui presentate.

A questo punto introduco Niceta Coniata, un autore bizantino vissuto tra la seconda metà del XII secolo e il primo ventennio del successivo. Nel ritratto che ci ha lasciato di Andronico Comneno (1118-1185), imperatore di Bisanzio dal 1182 fino alla morte) dopo averne sottolineato i vizi e la crudeltà, scrive: … sicché appese  anche le corna dei cervi da lui cacciati, che erano di dodici palmi e avevano qualcosa di meraviglioso, ai portici in piazza per l’esibizione della grandezza delle bestie da lui prese, in realtà per deridere la cittadinanza e per ridicolizzarla con allusione alla inadeguatezza dei mariti.1

moneta aurea di Andronico Comneno; immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/byz/andronicus_I/sb1983.1.jpg
moneta aurea di Andronico Comneno; immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/byz/andronicus_I/sb1983.1.jpg

 

Con appese ho tradotto l’originale ἀνήρτη (leggi anerte), che è da ἀναρτάω (leggi anartao), composto da α– con valore copulativo, –ν– eufonico e ἀρτάω=appendere, attaccare.

L’assimilabilità di mettere le corna con attaccare, appendere le corna rende plausibile che tutto sia connesso  col testosterone di quel satiro di Andronico …

Non rimane che fare un piccolo assaggio di questo mettere le corna usato in letteratura: Giovanni Boccaccio (XIV secolo), quinta novella della settima giornata: che io giuro a Dio, se voglie me ne venisse di porti le corna, se tu avessi cento occhi come tu n’hai due, mi darebbe … (porti equivale a metterti) e il già visto (a proposito di far le fusa torte) Domenico di Giovanni detto Il Burchiello, Rime, CXX, vv. 15-17: Le nostre frontigiane,/son sì ‘ndurate nella nostra fede,/ch’a chi mette le  corna  non si vede.

Ora veramente non so più dove sbattere corna …2;  voglio concludere, però, questo difficoltoso  viaggio con due testimonianze. La prima è di origine letteraria e si può tranquillamente considerare, da un punto di vista enigmistico, una sciarada all’inverso: Girolamo Gigli (XVII-XVIII secolo), La moglie giudice e parte ovvero il Ser Lapo (é il titolo di una commedia):

– Mi farà diventare il Maestro di Giotto – (soluzione: Cimabue>cima bue=cornuto).

La seconda è una similitudine, questa sicuramente di origine popolare, che spopolava in classe ai tempi del liceo (sto parlando di quand’ero studente …): Tieni cchiù ccorne tu ti nu panaru ti cozze munaceddhe [Hai più corna tu di un paniere (pieno) di lumache monacelle].

Siamo fuori stagione e poi mi manca pure il paniere e non ho voglia di perdere tempo con un fotomontaggio. L’immagine di un solo esemplare di munaceddha (Helix aperta) basta, ove ce ne fosse bisogno, a dare l’idea.

immagine tratta da http://www.fotocommunity.it/pc/pc/display/22811640
immagine tratta da http://www.fotocommunity.it/pc/pc/display/22811640

Vedo che Nerino (per chi non lo sapesse è il più indemoniato dei miei tre gatti) sta guardando insistentemente sul monitor quest’ultima foto; ora mi sta fissando; ora sta riguardando la foto; ora mi sta rifissando e contemporaneamente sta emettendo uno strano lamento: che vorrà mai dire?

(FINE)

la prima parte in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/17/tutto-o-quasi-sulle-corna-13/

la seconda parte in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/18/tutto-o-quasi-sulle-corna-23/

_________________

Nicetae Choniatae historia, a cura di B. G. Niebhur, Webber, Bonn, 1835 (fa parte del Corpus scriptorum historiae Bizantinae); la vita di Andronico Comnino occupa le pagg. 356-463 e il passo che ci interessa (tratto dal II capitolo del II libro) è alle pagg. 418-419:ὥστε καὶ τῶν παρ’αὐτοῦ θηρωμένων ἐλάφων τὰ κέρατα ὅσα δωδεκάδωρα ἦν καὶ εἷχόν τι θαύματος, ταῖς κατὰ τὴν ἀγορὰν ἁψῖσιν ἁνήρτα, τῷ μὲν δοκεῖν εἰς ἔνδειξιν τοῦ μεγέθους τῶν παρ’αὐτοῦ ἁλισκομέων ἀγρίων, τῷ δὲ ὄντι διαμωκώμενος τὸ πολίτευμα καὶ διασύρων εἰς ἀκρασίαν τῶν γαμετῶν.

2 Nonostante corna stia come sinonimo di testa, è indubbio che la locuzione proprio grazie a questa sostituzione esprime più efficacemente, grazie ad un’allusione inconscia  di natura sessuale uno stato di pregressa frustrazione anche quando questa non ha motivazioni di ordine sessuale.

 

 

L’alloro nella gastronomia salentina… e non solo

di Massimo Vaglio

L’alloro o lauro (Laurus nobilis),è un’importante pianta mediterranea molto utilizzata sia come essenza ornamentale, sia come essenza aromatica. Raggiunge i quindici metri d’altezza, ha corteccia liscia, dapprima verde poi grigio- nerastra. Le foglie, sempreverdi, sono alternate, coriacee e la loro forma varia dall’ellittica alla lanceolata, come pure i margini che possono essere più o meno grinzosi e dentati. Tutte le parti della pianta emanano un forte, caratteristico odore. Essendo una pianta fortemente pollonifera, il suo habitus è prevalentemente quello di arbusto, infatti, un po’dovunque, la si incontra allevata principalmente a siepe. Nel Salento, invece, questa pianta trova un clima particolarmente congeniale  e sono molto comuni anche esemplari davvero maestosi come quelli presenti nel bosco dei Laghi Alimini.

Pur non essendoci varietà ufficialmente codificate dai botanici, esistono, all’interno della specie, alcune forme biologiche che portano gli specialisti di diversi campi a sceglierne alcune a seconda degli usi cui intendono destinarle. Così, i giardinieri, si orientano su quelle forme che hanno le foglie

Tutto, o quasi, sulle corna (2/3)

di Armando Polito

La prima attestazione antica da me conosciuta del significato negativo di corna con riferimento alla sfera sessuale, è in Petronio (I secolo d. C.), Satyricon, 39, quando Trimalchione si esibisce in un oroscopo degno del migliore Barbanera. Lo riporto integralmente per il piacere di chi ci crede: – Coelus hic, in quo duodecim dii habitant, in totidem se figuras se convertit, et modo fit Aries. Itaque quisquis nascitur illo signo multa pecora habet, multum lanae, caput praeterea durum, frontem expudoratam, cornum acutum. Plurimi hoc signo scholastici nascuntur et arietilli-. Laudamus urbanitatem mathematici, itaque adiecit: – Deinde totus coelus Taurulus fit: itaque tunc calcitrosi nascuntur et bubulci et qui se ibi pascunt. In Geminis autem nascuntur bigae et boves et colei et qui utrosque parietes linunt. In Cancro ego natus sum; ideo multis pedibus sto, et in mari et in terra multa possideo: nam Cancer et hoc et illoc quadrat: et ideo iamdudum nihil supra illum posui, ne genesim meam premerem. In Leone cataphagae nascuntur et imperiosi. In Virgine mulieres et fugitivi et compediti. In Libra laniones et unguentarii et quicumque aliquid expediunt. In Scorpione venenarii et percussores. In Sagittario strabones, qui olera spectant, lardum tollunt. In Capricorno aerumnosi, quibus prae mala sua cornua nascuntur. In Aquario copones et cucurbitae. In Piscibus obsonatores et rhetores. Sic orbis vertitur tamquam mola, et semper aliquid mali facit, ut homines aut nascantur aut pereant. Quod autem in medio cespitem videtis, et super cespitem favum, nihil sine ratione facio. Terra mater est in medio quasi ovum corrotundata; et omnia bona in se habet, tamquam favus-.

(- Questo cielo nel quale abitano dodici dei si muta in altrettante figure e ora diventa Ariete. E così chiunque nasce sotto quel segno ha molte pecore, molta lana, inoltre testa dura, fronte spudorata, corno pungente1. Sotto questo segno nascono parecchi scolastici e testardelli-. Lodiamo il garbo dell’astrologo e così aggiunge: -Poi tutto il cielo diventa Torello e così allora nascono i recalcitranti e i bifolchi e quelli che su questa terra   pensano solo a pascersi. Sotto il segno dei Gemelli poi nascono gli animali che si aggiogano alle bighe, i buoi e i coglioni2 e quelli che intonacano l’una e l’altra parete3. Io sono nato sotto il segno del Cancro, perciò sto su molti piedi e posseggo molte cose in mare e in terra; infatti IL Cancro si trova bene in mare e sulla terra e perciò poco fa non non gli ho messo sopra nulla, per non opprimere il mio segno zodiacale. Sotto il segno del Leone nascono i mangioni e i prepotenti. Sotto il segno della Vergine gli effeminati, i disertori e gli schiavi in ceppi. Sotto il segno della Libbra i macellai, i profumieri e chiunque vende qualcosa. Sotto il segno dello Scorpione gli avvelenatori e i sicari. Sotto il Sagittario gli strabici i quali guardano la verdura e si fregano il lardo. Sotto il segno del Capricorno gli infelici ai quali per loro disgrazia spuntano le corna. Sotto il segno dell’Acquario gli osti e le zucche. Sotto il segno dei Pesci i cucinieri e i retori. Così il mondo gira come una pietra da mulino e fa sempre qualcosa di male affinchè gli uomini o nascano o muoiano-).

Come si vede, anche in astrologia tra cornuti (nel senso letterale di forniti di corna) ci sono i soliti privilegiati indenni dal pagamento di questo scomodo tributo, cioè il maschio della pecora (l’ariete) e il toro, mentre per il povero capricorno (assimilabile al marito della capra) la sua natura di becco è segnata nelle stelle. Né può essergli di conforto il fatto che In Capricorno aerumnosi, quibus prae mala sua cornua nascuntur (Sotto il segno del Capricorno gli infelici ai quali per loro disgrazia spuntano le corna) è un passo piuttosto tormentato del Satyricon e se alcuni (per esempio il Buecheler) lo hanno accolto e interpretato come ho tradotto io, il Burmann ha rincarato la dose infierendo e proponendo la lettura In Capricorno, quibus prae mala setae et corbua nascuntur (Sotto il segno del Capricorno gli infelici ai quali a causa dei mali del pennello spuntano pure le corna). Mi pare superfluo approfondire il significato metaforico di seta (pennello), ma a questo punto non voglio essere l’unico fesso della compagnia e approfitto del pennello per dire che questa voce (in italiano antico penello) è concordemente fatta derivare da un latino *penellu(m), diminutivo del classico penis=coda, pene.

Proprio questa contrapposizione tra il toro e l’ariete da una parte e il capricorno dall’altra mi consente di introdurre Michele Psello, autore bizantino dell’XI secolo, che per primo, a quel che so, si pose la strana questione dedicandole l’opuscoletto Περὶ τοῦ ὁνόματος τοῦ κερατᾶ (Sul nome cornuto) che riporto integralmente di seguito nella mia traduzione4: Nel linguaggio comune della vita viene usata la voce “cornuto” e la si riferisce a tutti quelli ai quali la moglie è abbracciata5 da altri; e mi pare che la parola sia inspiegabile non avendo una ragione che sia alla base di quest’epiteto. Infatti a coloro che la compagna ha tradito non spuntano corna sulle tempie né questi deliberatamente se ne equipaggiano né tra loro lottano a cornate né rompono la testa agli altri né hanno movimenti violenti del viso né mostrano visibilmente qualche altra caratteristica degli animali che hanno le corna. Perciò a tutti sembra inspiegabile da dove abbia avuto origine la formazione del nome. Per fornirti la spiegazione più verosimile distinguiamo per primi quelli a danno dei qualile donne hanno comunanza con altri letti. Vediamo che non tutti sono uguali ma che alcuni s’infuriano per l’accaduto e tutto si riduce ad una solenne sgridata, che altri sono docili e addirittura miti abbassando un po’ il collo al giogo della sventura e senza neppure mostrarsi sdegnati con la donna né irritati con chi è stato partecipe di un corpo privato6 o nonostante l’insofferenza tendendogli pure la destra e rivolgendogli la parola amabilmente e nutrendosi alla stessa mensa e saziandosi del sale comune. Per quanto riguarda gli altri, quelli che promuovono l’unione della propria donna con altri, non è il caso di parlarne. Dei due tipi che son venuti fuori dalla distinzione, l’uno chiamato selvaggio, l’altro mite, il nome di cornuto si addice al tipo mite. Il primo che impose i nomi, essendo un cittadino e ugualmente pure saggio, da questa differenza di animali senza parola, per questa creatura dotata di parola, l’uomo, mediò lo spunto del nome. Infatti tra gli animali senza parola tutti quelli che non hanno le corna (sono) irascibili e gelosi delle compagne. Per esempio, il leone se vede la (sua) femmina tradirlo la dilania con gli artigli e i leopardi uccidono le femmine sedotte;  pure gli orsi (sono) gelosissimi del tradimento della femmin e soprattutto questo sentimento pervade le aquile che mettono alla prova ancora i piccoli implumi e se essi battono le palpebre di fronte al sole li espellono dal nido come se abbandonassero dei bastardi. I colombi, quest’animale è amico dell’uomo e mite, se qualcuno porta via le nidiate non si oppongono minimamente (l’animale anche se amico dell’uomo tuttavia per natura e di fronte alla sottrazione della prole appare molto degno di compassione) ma quelli delle nidiate sottratte se ne stanno calmi, se invece uno della loro specie vuole una femmina (che è già) di un maschio e tenta di sedurla il compagno lo maltratta e stride volando in cerchio e con le ali protegge la compagna dal seduttore. E in generale: tra gli animali ogni specie priva di corna (è) gelosissima del compagno; invece gli animali cornuti, si potrebbe dire quasi tutti, sopportano facilmente l’inconveniente, quanti belano, quanti bramiscono, quanti muggiscono, e in essi non appare nessun segno di rabbia o rancore per la tremenda disgrazia delle compagne, ma, governati sotto le leggi di Platone, accettano la poligamia e mettono in comune l’un l’altro il bene privato; da qui neppure quelli che seducono loro le compagne procedono compiendo dei cerchi o si accoppiano furtivamente con le femmine ma di fronte ai maschi tentano l’accoppiamento. Quindi colui che diede i nomi chiamò cornuto colui che non è geloso della propria unione e non diversamente s’indigna per l’accaduto.7           

Per Psello, dunque, la parola sarebbe connessa col comportamento particolarmente tollerante degli animali forniti di corna in occasione di qualche tradimento. Io, sulla scorta dell’oroscopo di Petronio relativo ai nati sotto il segno dell’Ariete e della sua contrapposizione al Capricorno, metterei in campo lo spirito di iniziativa e la maggiore vivacità, magari anche sessuale, della capra rispetto alla pecora, cosa di cui trovo un’eco, per quanto lontana, nel detto neretino ti ddo’ zzumpa la crapa zzumpa la crapetta (da dove salta la capra salta pure la capretta, corrispondente all’italiano tale madre tale figlia).

Per passare da Petronio a Psello ho fatto un bel salto cronologico. Ora torniamo indietro e precisamente ad Artemidoro di Daldi, autore greco del II secolo d. C.: Uno diceva di predire a chi, promesso sposo e sul punto di celebrare le nozze in quei giorni, si fosse visto (in sogno) sedere su un ariete e cadere dalla parte anteriore, che sua moglie avrebbe commesso adulterio e che secondo il detto gli avrebbe fatto le corna. E i fatti andarono così. Avendo rifiutato le nozze per la predizione del sogno e a stento persuaso dagli amici dopo qualche tempo sposò la stessa promessa sposa di prima; avendo però paura del sogno vigilava la donna e si era completamente rassicurato. Ed essa sopravvissuta un anno morì dopo aver tenuto una condotta irreprensibile. Lui, dopo aver sposato un’altra donna e ritenendo che quel sogno poteva non essere tenuto più in considerazione, incappò nella sventura perché accadde che la (nuova) moglie si sbizzarrì in ogni tipo di tradimento.8

Gli avrebbe fatto le corna è traduzione letterale dell’originale greco κέρατά σοι ποιήσει e la testimonianza di Artemidoro non solo consente di affermare che l’espressione attuale è di origine antichissima ma ci fornisce pure un’altra interpretazione legata, dunque, ad un sogno. Questa volta, poi, non si salvano né il montone (o ariete) né il becco, dal momento che in greco κριός può significare l’uno o l’altro.

Il verbo fare accoppiato a corna avrebbe avuto, come il fenomeno che esso descrive, un successo continuato, tant’è che in uno statuto triestino del 1150 il paragrafo 49 del secondo libro ha per titolo De facientibus viros corgnam [Sulle (donne) che fanno le corna ai mariti]9.

Per completare questa sezione va detto che, perfettamente in linea con l’ambiguità di fondo della voce di oggi,  fare le corna definisce anche il ben noto gesto scaramantico. Difficile dire se è figlio del precedente (uno o una situazione mi prefigura qualcosa di negativo e io reagisco dicendo che è, rispettivamente,  cornuto o cornuta) o se è la versione metaforica replicata dell’amuleto che può essere considerato il discendente della cornucopia con funzioni più apotropaiche (allontanamento delle forze maligne) che propiziatrici (attrazione di quelle benigne)10.

E, dopo i fasti (!) di fare le corna in greco tardo e in latino medioevale11, eccone due testimonianze coeve (XVI secolo) in lingua. Nella prima fare le corna assume il significato edulcorato e generico (senza, perciò, alcun riferimento sessuale) di prendere in giro: Giovanni Maria Cecchi (XVI secolo), Gl’incantesimi, atto V, scena VIII: I’ dubito che ancor tu, Trinca, non abbi tenuto mano con coastoro a farmi le corna; che questo tuo darmi costui per le mani, e questo aver dato fede ai tuoi incantesimi e tue merde m’ha rovinato.

Nella seconda recupera tutto il suo originario significato sessuale ma nella cifra quasi da indovinello … del componimento si ammanta di un’aurea, per dirla con un ossimoro, metaforicamente concreta, che riesce a temperare la “volgarità” del tema: Nicolò Franco, Rime contro Pietro Aretino, CXC: O bella man, che mi distringi il core,/perché se tu non fossi, io creperei,/e per te mi soccorro a i casi miei,/co ‘l menarmel talvolta in quell’ardore./Per te senz’altrimenti far l’amore/ed impegnarmi e vendermi a giudei,/ottengo ogni gran donna ch’io vorrei,/e fo le  corna  al becco Imperadore./Per te, col mal di Francia non mi guasto, e per vera mercè delle tue prove/fo quel ben fatto, e son tenuto casto./Anzi, quando di me pietà ti move, pasco la mente d’un sì nobil pasto,/che ambrosia e nettar non invidio a Giove.

Fare le corna vi sembra troppo diretto e brutale? Eccovi serviti con far le fusa torte molto ricorrente nella letteratura dei secoli scorsi, in cui fusa (lasciate perdere ogni allusione alla donna-gatta, anche se l’etimo potrebbe essere lo stesso) è da intendersi, ma solo letteralmente, come plurale di fuso, lo strumento fondamentale del lavoro tipicamente femminile di un tempo, cioè la filatura. L’immagine sottostante mostra chiaramente il nesso fuso-corno, mentre quel torte è di una pregnanza semantica elevatissima: sembra quasi di vedere il fuso (anzi i due fusi …) diventare lentamente, in una dissolvenza incrociata, un bel cornetto (anzi, un bel paio di corna) …

immagine tratta da http://blog.leiweb.it/hobby-e-casa/files/2009/08/filatura-con-il-fuso.jpg
immagine tratta da http://blog.leiweb.it/hobby-e-casa/files/2009/08/filatura-con-il-fuso.jpg

Su far le fusa torte ecco due esempi entrambi risalenti al XV secolo:

Domenico di Giovanni detto il Burchiello (XV secolo), Rime, sonetto CLXXXVIII: Non ti fidar di femmina, ch’è usa/di  far le fusa torte  al suo marito;/che metter ti potrebbe a mal partito,/che tu non puoi saper con quanti ell’usa./Se di nulla t’accorgi, ell’ha la scusa/apparecchiata, e fatti stare unito,/sì ch’ogni volta ti verrà fallito,/se la riprendi mostrasi confusa./Che viene a dir, che se tu non la truovi/co i panni alzati, e col brigante addosso,/tu non puoi tanto dir, che tu gliel pruovi./Se le rompessi tutto quanto il dosso,/del suo voler giammai tu non la smuovi,/tanto le piace la carne senz’osso./Ond’io veder non posso,/che solo il mio compagno la contenti,/che ne vorrebbe ogn’ora più di venti.

Bernardo Giambullari, Ballate e canti carnascialeschi, XIII, vv. 1-20: Come vuolle la fortuna,/una falsa giovinetta/mi ferì d’una saetta/sanza aver piatà nessuna./Al mie cor fece tal nodo/co’ su’ occhi pien d’amore/che pensando ancor ne godo;/po’ mi moro di dolore,/perché la fu traditore/a un servo sì fedele./I’ avevo surte le vele/e per lei lasciato ognuna./Tutto quanto il mio disio/era in lei con buona fe’,/imperò ch’al parer mio,/grand’amor portava a me./Ognuno ‘mpari per sé/di non venire a tal sorte:/la mi fe’ le fusa torte;/e non avevo colpa nessuna.

(continua)

la prima parte in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/17/tutto-o-quasi-sulle-corna-13/

la terza parte in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/20/tutto-o-quasi-sulle-corna-33/

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1 Cioè carattere da attaccabrighe. Corno qui conserva ancora il significato tutto sommato non negativo ravvisabile nell’espressione dialettale prima ricordata (ddhu agnone tene li corne).

2 È la prima attestazione che conosco dell’uso della voce in senso figurato.

3 Gli opportunisti, ipocriti e adulatori, capaci di andare d’accordo anche con due che tra loro sono nemici. Utrosque parietes linere corrisponde al greco τοὺς τοίχους ὰλείϕειν [Pausania II secolo d. C.), Periegesi della Grecia, VI, 3, 15).

4 Per l’originale greco mi sono avvalso dell’edizione a cura di Costantino Satha in Bibliotheca Graeca medii aevii, La Fenice, Venezia/Maisonneuve & C., Parigi vol. V, pagg. 525-527.

5 Questo è il significato del verbo originale, dunque un significato non necessariamente pruriginoso, ma il lettore comprenderà come, giustamente, per Psello da cosa nasce cosa

6 Bisognerà attendere mille anni per il grido il corpo è mio e lo gestisco io delle femministe.

7 Τέτριπται ἐν τῇ συνηθεία τοῦ βίου τὸ τοῦ κερατᾱ ὄνομα κἀκείνοις τοῡτο προστρίβεται, ὄσοις ἡ σύνοικος παρ’ἑτέροις ἐναγκαλίζεται· καὶ δοκεῖ πῶς ὁ λόγος ἄλογος εἷναι, οὐκ ἔχων ἀιτίαν, ἥτις τὴν προσηγορίαν ταύτην κοινοτομεῑ· οὐ γὰρ οἷς ἡ ὁμευνέτις μοιχᾱται, κέρατα τῶν κροτάφων ἐκκρούει, ουδὲ αὐτοὶ ἐξεπίτηδες κέρασιν ἑαυτοὺς καθοπλίζουσι· οὐ πρὸς ἀλλήλους διακυρίττονται, οὐχ ἑτέροις τὰς κεφαλὰς προσαρράσουσιν, οὐ πιτύλα ἐκκρεμμανῦσι τοῦ μετώπου, οὐκ ἄλλο τι τῶν κερασφόρων ἐκ τοῦ φανεροῦ ἰδίωμα ἑπιδείκνυνται. Ὅθεν παντάπασι δοκεῖ ἄπορον, ὁπόθεν ἡ πλάσις τοῦ ὀνόματος γέγονεν· ἵνα δέ σοι ἡμεῖς τὴν ἀληθεστάτην παραστήσωμεν τοῦ πράγματος ἔννοιαν, αὐτοὺς πρώτους διέλωμεν, ὄσοις αἱ γυναῖκες κοινωνίαν πρὸς ἔτερα λέκτρα ἐσχήκασι· θῶμεν οὖν μὴ πάντας αὐτοὺς ὀμοίους εἶναι, ἀλλὰ τοὺς μὲν ἀγρίαινειν ἐπὶ τὸ πράγματι, καὶ μετὰ θορύβου πάντα ποιεῖν, τοὺς δὲ τιθασσοὺς εἶναι, καὶ ἡμέρους αὐτόχρημα, ἠρήμα τῇ τοῦ κακοῦ ζεύγλῃ τὸν τράχηλον ὐποκλίνοντας, καὶ μήτε πρὸς τὴν γυναῖκα δυσανασχετοῦντας, μήτε πρὸς τὸν συμμεριστὴν τοῦ ἰδίου σώματος ἀνιαρῶς ἢ δυσφόρως ἔχοντας, ἀλλὰ καὶ δεξιὰν τούτοις ἐμβάλλοντας, καὶ ἡδέως προσαγορεύοντας, καὶ ἀπὸ τῆς αὐτῆς σιτουμένους, καὶ κοινῶν ἐμφορευμένους ἁλῶν· τὴν γὰρ ἑτέραν μερίδα, ὃσοι καὶ προμνῶσιν ἑτέροις τὰς ἑαυτῶν γαμετὰς, ἀποβουκολητέον τῷ λόγῷ. Δυοῖν οὖν φανέντοιν τμημάτοιν ἀπὸ τῆς διαιρέσεως, καὶ τοῦ μὲν ἀγρίου ὀνομασθέντος, τοῦ δὲ τιθασσοῦ, τῇ ἡμέρῳ μοίρᾳ τὸ τοῦ κερατᾶ ἐνήρμοσται ὄνομα· ὀ δὲ πρῶτος ὀνοματοθέτης, πολιτικὸς ὢν ἀνὴρ ὁμοῦ τε καὶ σοφός, ἀπὸ τῆς τῶν ὰλόγων ζώων διαφορᾶς, ἐπὶ τὸ λογικὸν τοῦτο, τὸν ᾰνθρωπον, τὴν ἀφορμὴν μετήνεγκε τοῦ ὀνόματος. Τῶν γὰρ ὰλόγων ζώων, ὅσα μὲν ὀυκ ἔχει κέρατα, ὀργίλα καὶ ζηλότυπα περὶ τὰς ἐυνάς· αὐτίκα ὁ λέων, εἰ μοιχευομένην ἴδῃ τὴν θήλειαν, διασπᾱται τοῖς ὄνυξι, καὶ τὰς παρδάλεις δὲ διαφθαρείσας οἱ ἄρρενες διολλύουσιν· αἵ τε ἄρκτοι ζηλοτυπώτατοι περὶ τὴν μοιχείαν τοῦ θήλεος, τοὺς δέ γε ἀετοὺς καὶ μάλιστα τοῡτο τὸ πάθος ἐνδύεται, ὅι γε καὶ τοὺς ἀπτέρους ἔτι δοκιμάζουσι εἰ γὰρ σκαρδαμύσσουσι πρὸς τὸν ἥλιον, ὥσπερ ἀποκλήρους ἐῶντες, τῆς νοσσιᾶς ἀπελαύνουσι· αἱ δέ γε περίστεραί, τὸ φιλάνθρωπον τοῦτο ζῶον καὶ ἥμερον, εἰ μέν τις ἀφαιρεῖται τὰ νεόττια, οὐδ’ὀπωςτιοῦν ὰντιβαίνουσι, καίτοι φιλάνθρωπον δ’ἄλλως τῇ φύσει καὶ περὶ τὰ πάθη τῶν ἐκγόνων ὐπερβαλόντως καθέστηκε φίλοικτον, ἀλλ’ἐκεῖναι τῶν μὲν νεοττῶν ἀφαιροουμένων, ὐφησυχάζουσι, εἰ δέ τις τῶν ὁμογενῶν, τὴν θήλειαν θέλει τοῦ ἄρρενος, καὶ μοιχεῦσαι ταύτην ἐπιχειρεῖ, ὀ ἅρρην διασπαράττεται καὶ περιτρύζει κύκλῳ περιιὼν καὶ ἀμύνεται τῷ φθορεῷ ταῖς πτέρυξι. Καὶ ἀπαξαπλῶς σύμπαν τὸ ἄκερον γένος τῶν ζώων, ζηλοτυπώτατον περὶ τὴν σύνοικον· τὰ δέ γε κερασφόρα, σχεδὸν εἰπεῖν ξύμπαντα, ῥᾷστα τὸ πάθος ὑφίστανται, ὁπόσα μηκάζοι, ὁπόσα βληχᾶται, ὁπόσα μυκᾶται, καὶ οὐδὲν αὐτοῖς ὀργίλον ἢ μνησίκακον ἐμπέφηνε, διὰ τὴν τῶν συζύγων δεινοτάτην διαφθοράν, ἀλλ’ύπὸ τοῖς τοῦ Πλάτωνος νόμοις πολιτευόμενα, τὴν κοινογαμίαν ἀσπάζεται, καὶ τὸ ἴδιον ἀγαθὸν κοινοποιοῦνται τοῖς ἀλλήλοις· ὄθεν οὐδὲ οἱ τοὺς συζύγους αὐτοῖς διαφθείροντες κύκλῳ περιίασιν, ἤ λαθραίως ἐπιθόρνυνται ταῖς θηλείαις, ἀλλ’ἐνώπιον τῶν ἀρρένων ἐπιχειροῦσι τῷ πάθει. Έντεῦθεν γοῦν τὸν μὴ περὶ τὴν ἰδίαν γαμετὴν ζηλοτυποῦντα, μὴ δ’ἄλλως ἀγανακτοῦντα ἐπὶ τῷ πράγματι, κερατᾶν ὁ ὀνοματοθέτης  ὠνόμασεν.

8 Oneirocritica, II, 12, testo originale dall’edizione a cura di N. Rigalth e G. G. Reisk, Crusio, Lipsia, 1805, v. I, pagg. 154-155:  Ἔλεγε δέ τις θεασαμένῳ τινὶ ἐπὶ κριοῦ καθημένῳ καὶ πεσόντι ἐξ αὐτοῦ ἐκ τῶν ἔμπροσθεν, μνηστευομένῳ δὲ καὶ μέλλοντι ἐν ἀυταῖς ταῖς ἡμέραις τοὺς γάμους ἐπιτελεῖν, προειπεῖν ἀυτῷ ὅτι ἡ γυνή σου πορνεύσει, καὶ κατὰ τὸ λεγόμενον κέρατά σοι ποιήσει καὶ οὕτως ἀπέβη. Καὶ διὰ μὲν τὴν πρόῤῥησιν τοῦ ὀνείρατος παραιτησάμενος τὸν γάμον καὶ μόλις ποτὲ πεισθεὶς ὑπὸ φίλων μετὰ χρόνον τινὰ ἔγημε μὲν τὴν πρώην αὐτῷ μεμνηστευμένην. Δεδιὼς δὲ τὸ ὅναρ ἐφύλαττε τὴν γυναῖκα καὶ διὰ πάσης ἀσφαλείας διεγένετο, καὶ ἐκείνη μὲν ἐνιαυτὸν ἐπιζήσασα διετέλεσεν ἄμεμπτος. Ἄλλην δὲ ἐπιγήμας γυναῖκα, ὡς καὶ νομίσας ἀυτὸν ἀποσκῆψαι τὸ ὅναρ, περιέπεσε τῷ δυστυχήματι· ἀπέβη γὰρ ἐκείνη εἰς ἔσχατον πορνείας ἐκπίπτουσα.

9 Sul codice che li contiene vedi Domenico Rossetti, Statuti antichi di Trieste descritti ed illustrati bibliologicamente, in L’archeografo triestino, Merenigh, Trieste, 1830, v. II, pagg. 103-149.

10 Non ci vuole molta fantasia per cogliere la somiglianza formale tra il cornetto e il fallo, che come strumento apotropaico a Pompei s’incontra quasi dappertutto. L’esemplare in basso è scolpito in un riquadro sul muro di un edificio che si trova all’angolo di una strada e non è il padre di un moderno segnale di direzione obbligata … anche se gli odierni trasgressori è come se dicessero col cazzo vado in quella direzione!

 

1 bis

 

L’oggetto raffigurato nell’immagine sottostante (pendente, considerato come parte della bardatura di un cavallo,  con testa di toro, occhi in vetro nero, fallo e mano chiusa ai lati) rinvenuto ad Augusta Raurica in Svizzera sembra riassumere perfettamente questo complicato intreccio, se non fosse che la mano non fa le le corna ma  il gesto delle fiche che in Dante (Inferno, XXV, 2) trovò pure l’onore della poesia.

 

11 Nel latino classico l’espressione cornua fàcere ha solo il significato militare di schierare le ali dell’esercito e cornutus è solo sinonimo di animale fornito di corna.

Per l’italiano cornuto (come sinonimo di tradito dal partner) la prima ipotesi è che sia da un latino cornutu(m). Nel glossario del Du Cange al lemma CORNUTUS 1 si legge: Curruca. Concil. Mexican. ann. 1585 inter Hispanica tom. 4 pag. 311: Idemque servetur cum quis haec convicia et opprobria, quae maiora sunt coniecerit, illum Sodomitam, Proditorem, Hereticum, aut eo convicii genere, quod vulgus Cornutum, appellando (E lo stesso si osservi quando uno abbia lanciato queste offese che sono alquanto gravi chiamandolo sodomita, traditore, eretico o con quel tipo di offesa che il popolo chiama cornuto).

E a CURUCA 2 (così va corretto curruca del precedente rinvio): … homo qui sanat estrange. Curucare, corrumpre mariée … ( … uomo che mostra le sue attenzioni all’altrui donna  … curucare, corrompere una maritata …). C’e, però, da dire che la data (1585) del documento citato dal Du Cange,  autorizza a supporre un processo inverso (dal volgare alla forma latinizzata) come dimostra la presenza della voce in un testo veneziano di anonimo del XIII secolo: Muora lo fel cogoço, cornuto  e ravaioso (in Contini Gianfranco, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano, 1960) e, per parlare di opere in lingua, quasi un secolo prima sempre rispetto al 1585), fra gli altri, in Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, II, XXVI, 38, 8: Alla barba l’avrai, becco cornuto!; III, XVIII, 9, 6: Cornuto  e becco Trivigante appella e in Giovanni Sabatino degli Arienti, Novelle porretane, XLIX: … tentare le graziose donne per le infinite lacrime de la moglie del  cornuto.

Cornutus compare anche in Continuatione del nuntio sidereo di Galileo Galilei, scritto pubblicato per la prima volta nel secondo volume dell’edizione delle opere uscita a Bologna per i tipi degli Eredi Del Dozza nel 1656: Scilicet Venus cornuta non fit, quae tot quotidie cornutos efficit (Certamente Venere non diventa cornuta, essa che ogni giorno crea tanti cornuti). Ancor più evidente qui che nel caso del documento citato dal Du Cange la formazione moderna della voce latina. E poi, vuoi mettere l’ironia del grande scienziato che sapeva di giocare con l’epiteto avendo scritto, a proposito del pianeta Venere, in una lettera del 1 gennaio 1611 indirizzata a Giuliano dei Medici (Opere, XI, 12): La veddi dunque, sul principio, di figura rotonda, pulita e terminata … Cominciò poi a mancare dalla rotondità nella sua parte orientale … e in pochi giorni si ridusse ad essere un mezo cerchio perfettissimo … Ora va calando dal mezo cerchio e si mostra cornicolata, e anderà assottigliandosi … riducendosi … con corna sottilissime … la vedremo pur falcata e sottilissima, e con le orna averse al sole; anderà poi crescendo … sarà semicircolare … e poi dal mezo cerchio passerà presto al tutto tondo, e così rotonda si conserverà poi per molti mesi … dalla quale mirabile esperienza aviamo sensata e certa dimostrazione … che Venere necessariamente si volge intorno al sole …

Successivamente nel Dialogo sopra i due massimi sistemi scriverà: Marte … apparirebbe cornicolato, come fa Venere e la Luna.   

Nella stessa lettera, poi, Galilei ricorda anche le sue doti di enigmista asserendo di aver inviato a Praga un messaggio relativo ad una sua scoperta, cioè Haec immatura frustra leguntur oy che fu tradotto alla lettera (Queste cose premature le sto cercando invano, ahi) e ritenuto incomprensibile. In realtà si trattava di un anagramma da risolvere in  Cynthiae figuras aemulatur mater amorum (La madre degli amori imita le figure di Cinzia). La madre degli amori, naturalmente, è Venere, Cinzia è un epiteto di Diana identificata con la Luna e le figure sono le sue fasi.

La ricorrente presenza nelle epigrafi latine antiche del gentilizio Cornutus e il fatto che esso non compaia neppure una volta nei graffiti pompeiani (almeno fra quelli fino ad ora scoperti e registrati nel CIL) conferma che in epoca antica la voce non ebbe il significato negativo oggi prevalente se non esclusivo. Quale migliore occasione, infatti, poteva capitare di sfruttare l’eventuale doppio senso per lasciare su un muro il ricordo di uno sfottò? Certo l’autore del graffito, se l’avesse fatto,  non avrebbe potuto immaginare che il Vesuvio avrebbe conservato per due millenni il ricordo del suo gesto. Pensate però da quale amarezza sarebbero stati invasi gli autori dei graffiti che furono tracciati e che ci sono pervenuti se avessero saputo che la loro opera, protetta dal Vesuvio per due millenni, sarebbe poi andata in rovina, come sta succedendo, per l’incuria degli uomini …

Connesso, attraverso l’antico francese, con il latino cornu (singolare di cornua) è poi il corner, cioè, nel gioco del pallone, il calcio d’angolo. Purtroppo il saperlo non aiuta a batterlo meglio …

 

 

Tutto, o quasi, sulle corna (1/3)

 

di Armando Polito

 

 

 

Spero anzitutto che il lettore abbia rispettato la pausa tra il titolo e l’indicazione del nome dell’autore …

Passando all’immagine, si vedono nell’ordine: cornuto bestiale, cornuto umano, elmo celtico, cornetto (amuleto), cornetta (strumento musicale), cornetta (parte del telefono), olifante (corno da caccia ricavato da una zanna di elefante), cornucopia, cornetto (gelato), cornetto (brioche).

Chi riesce a vivere felicemente pensando ai fatti più o meno intimi degli altri più che ai propri continui pure a leggere: anche se alla fine resterà deluso avrà, comunque, contribuito ad elevare lo score del sito e mio. Chi crede di trovare consigli utili ad evitare l’inconveniente evocatogli fulmineamente dal titolo continui pure a leggere: avrebbe dovuto capire da tempo che contro il fenomeno non c’è rimedio, ma, comunque, a me e al sito fa più comodo un lettore in più che in meno. Chi, invece, non è un gossipparo e non è nemmeno mosso da istanze utilitaristiche e terapeutiche sia il benvenuto e non abbia paura di dire la sua sull’argomento: ne avrà da parte mia una gratitudine ben diversa da quella egoistica e vanitosa riservata, in un miserabile empito di debolezza, ai suoi colleghi lettori appartenenti alle categorie precedentemente ricordate.

Se nella citazione delle fonti riporterò, oltre alla mia traduzione, anche i testi originali non sarà per esibizionismo o per pedanteria o, peggio, per allungare la brodaglia, ma solo per rigore scientifico e rispetto del lettore che, competente o meno, ha sempre diritto ad un controllo. E poi, la delicatezza dell’argomento non consentiva, anche se avessi voluto o potuto, deroga di sorta a questo principio…

Chiedo scusa per aver diviso il lavoro in tre parti, ma le corna, evidentemente erano lunghe e ramificate …

Cominciamo con alcuni proverbi salentini sull’argomento:

Ci lu oe itia li corne sua no ddicìa all’addhu: “ Curnutu!” (Se il bue vedesse le sue corna non direbbe all’altro: “Cornuto!”.

Ogni ccozza ete li corne ti l’addhe (Ogni lumaca vede le corna delle altre).

Lu oe chiama lu ciucciu curnutu (Il bue chiama l’asino cornuto).

Quandi ti ‘nsueri quarda la razza, ci no cacci li corne comu la cozza! (Quando ti sposi guarda la razza [della sposa], sennò cacci le corna come la lumaca!).

Ci tene corne tene pane, ci tene figghie femmine cu nno ddica :”Puttane!”, ci tene fili masculi cu nno ddica: “Latri!” (Chi ha corna ha pane, chi ha figlie femmine che non dica: “Puttane!”, chi ha figli maschi che non dica: “Ladri!”).

Li ho messi apposta in quest’ordine perché si passasse dalla metafora bestiale dei primi tre alla similitudine, tratta sempre dal mondo delle bestie, del quarto e,  infine, all’amaro riferimento diretto all’uomo nell’ultimo … amaro fino ad un certo punto, perché c’è il conforto del pane, quasi nel suo piccolo un’evocazione della cornucopia non più corno dell’abbondanza ma, in tempi in cui chi si accontentava godeva,  dello stretto necessario, il pane appunto. E, anticipando un po’ quello che dirò più avanti esaminando la voce al plurale, al concetto comunque positivo della cornucopia va collegato anche quello negativo presente in espressioni del tipo non valere un corno1.

Destino strano, quello delle corna che sono contemporaneamente il simbolo della forza (il toro va preso per le corna: la locuzione non nasce a caso ma perché negli antichi combattimenti a mani nude facendo così intanto si neutralizzava l’arma migliore a disposizione dell’animale e si poteva pensare, se si aveva la forza sufficiente, di spezzargli il collo; e poi, toro a parte, vanno ricordate le creature mitologiche come il Minotauro2 e iSatiri3) e del subito tradimento sessuale (e qui va male al maschio della capra il cui nome, becco, è sinonimo di cornuto nel significato immortalato gestualmente da Vittorio Gassman ne Il sorpasso del 19624).

Ma da quando alle corna le cose cominciarono ad andar male? Questo è quello che non saprei se definire cornuto dilemma più che dilemma cornuto

L’unica cosa certa è che negli autori latini e greci del periodo classico le corna non assursero mai a simbolo vergognoso e che l’arte anche in epoca relativamente recente (e, comunque, quando il significato negativo era da tempo consolidato nell’uso comune) non se ne  lasciò minimamente condizionare, Così, per fare un solo esempio, il Mosè di Michelangelo esibisce un bel paio di corna sulle quali, potenza dell’arte!, nemmeno un ignorante integrale ironizzerebbe, almeno credo (anche se le corna forse nascono da una confusione tra l’ebraico karnaim=luce ed il greco κέρας (leggi keras)=corno).

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Michelangelo%27s_Moses.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Michelangelo%27s_Moses.jpg

 

Così Orazio (I secolo a. C.) celebra il vino in Carmina, III, 21, 17-18: Tu spem reducis mentibus anxiis/virisque et addis cornua pauperi (Tu ridai speranza alle menti e agli uomini in affanno e fai spuntare le corna al povero).

Così Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.) esprime il suo entusiasmo per l’amore confermato: Venerunt cornua capiti fera meo (Spuntarono sul mio capo le selvatiche corna). Chi ha intenzione di ironizzare e fornire la sua interpretazione alternativa attribuendo ad Ovidio l’appellativo di cornuto contento si arrenda di fronte all’animalesca potenza di quel fera (selvatiche) …

Quest’immagine di energia e intraprendenza delle corna sopravvive ancora oggi in ambito salentino in nessi del tipo ddhu agnone tene li corne (quel bambino è un discolo; non è da escludere, fra l’altro, secondo me, il riferimento al demonio e, meno direttamente, agli effetti … simmetrici di un doppio colpo rimediato in testa) e, con significato opposto (non a caso la s– è dalla preposizione latina  ex con valore privativo), in ddhu agnone è scurnusu o ddhu agnone si ‘ndi scorna (quel ragazzo si vergogna) o ddhu agnone nci ole scurnatu (quel ragazzo deve essere scornato, cioè messo in condizione di vergognarsi).

(continua)

la seconda parte in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/18/tutto-o-quasi-sulle-corna-23/

la terza parte in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/20/tutto-o-quasi-sulle-corna-33/

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1 Corno in non valere un corno e nell’interiezione un corno! mi appare semanticamente assimilato (assimilazione probabilmente facilitata anche dalla identica consonante iniziale) a cazzo anche per evidente somiglianza di forma. Se mi accusate di malizia mi difendo con Giovanni Boccaccio (XIV secolo): Decameron, XVII, 17: Non avendo mai davanti saputo, con che corno gli uomini cozzano.

2

3

 

Il Minotauro [dal latino Minotauru(m), a sua volta dal greco Μινώταυρος (leggi Minòtauros) composto da Μίνως (leggi Minos)=Minosse e ταῦρος (leggi tàuros)=toro] era nato dall’accoppiamento di Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, con un toro. Aveva testa e coda taurini su un corpo umano. Nella foto la rappresentazione di questo … cornuto figlio di cornuto in una kylix (leggi kiùlix), coppa attica degli inizi del VI secolo a. C. custodita nel Museo archeologico nazionale di Spagna a Madrid; l’immagine è tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Tondo_Minotaur_London_E4_MAN.jpg

3

 

I satiri sono generalmente raffigurati come esseri umani barbuti con corna, zampe e coda di capra; gradualmente persero qualche attributo animalesco, come nella loro raffigurazione (immagine tratta da http://humidfruit.wordpress.com/tag/douris-the-painter/) in uno  in uno ψυκτήρ  (leggi psiuctèr), (vaso per tenere in fresco il vino; per saperne di più vai a https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/03/anche-questanno-per-combattere-il-caldo-si-raccomanda-di-bere/) della fine del V secolo a. C. rinvenuto a Cerveteri e custodito nel British Museum a Londra. Gli si attribuiva una straordinaria libido (non a caso da lui la satiriasi ma, stranamente, non la satira che sembra avere un etimo diverso) e il satiro al centro sembra essere stato colto in un momento di straripamento incontrollato del testosterone …

4 http://www.youtube.com/watch?v=xTv5CRd5_ps

 

Il nuovo vescovo per la diocesi di Nardò-Gallipoli

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
Fonte : Sala stampa Santa Sede
NARDÒ-GALLIPOLI (ITALIA)
Il Santo Padre ha nominato  venti minuti fa (ore 11.30 ndr) Vescovo di Nardò-Gallipoli (Italia) il Rev.do Mons. Fernando Filograna, del clero dell’arcidiocesi di Lecce, finora Vicario Generale di Lecce.
                                 Rev.do Mons. Fernando Filograna 
Il Rev.do Mons. Fernando Filograna è nato a Lequile (Lecce), il 29 settembre 1952. Studente del Seminario minore di Lecce e di quello Regionale di Taranto, è entrato poi al Seminario Romano maggiore. Ha frequentato filosofia e teologia presso la Pontificia Università Lateranense e si è licenziato in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. È stato ordinato sacerdote il 29 giugno 1977. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha svolto i seguenti uffici e ministeri: Animatore nel Pontificio Seminario Romano (1977-1978); Padre Spirituale nel Seminario minore di Lecce (1978-1983); Notaio del Tribunale Ecclesiastico diocesano (1978-1979); Vice cancelliere della Curia (1979-1983); Rettore del Seminario Vescovile di Lecce (1983-1996); Canonico della Chiesa Cattedrale (1984-1996); Direttore del Centro diocesano Vocazioni (1985-1996); Arciprete della Parrocchia Maria SS. Assunta a Trepuzzi (1996-2007); Vicario episcopale per il Clero e il Diaconato permanente (1999-2005); Membro del Collegio dei Consultori (dal 1998); Canonico della Chiesa Cattedrale (dal 1999); Membro della Commissione per il Clero e la Vita Consacrata della Conferenza Episcopale Pugliese (dal 2000); Parroco della Parrocchia S. Giovanni Maria Vianney e Vicario generale di Lecce (dal 2007). Ha insegnato Teologia Fondamentale all’Istituto di Scienze Religiose di Lecce. Scrive sul foglio diocesano “L’Ora del Salento” ed è Postulatore per la Causa di Beatificazione di Mons. Ugo de Blasi.
Dall’Uffcio stampa Comune di Nardò:
 Il messaggio del sindaco di Nardò Marcello Risi.
 ” Giornata di gioia e commozione per la nostra Città. L’annuncio del nuovo Pastore conforta lo spirito della  Comunità di Nardò.
 Attendiamo con ansia la Sua Benedizione. 
La Città di Nardò  lo accoglie con speranza  offrendoGli la sua preghiera.

Ho appreso questa mattina la notizia della nomina del nuovo vescovo,  Mons. Fernando Filograna del quale sono note la  finezza di teologo e la  passione pastorale.

I  legami del nuovo presule con la nostra terra sono profondi e significativi.  Fin da ora assicuro al nuovo Vescovo, che mi auguro di poter incontrare molto presto, tutta la mia disponibilità alla collaborazione, avendo come obiettivo il bene comune dei cittadini per l’affermazione dei principi di giustizia, uguaglianza e fraternità.”

Liturgia e devozione negli argenti della Parrocchiale di Uggiano La Chiesa

croce Uggiano

di Giovanni Boraccesi

 

Anche nei piccoli centri di provincia, se adeguatamente indagati, è possibile talvolta rinvenire un patrimonio d’arte degno d’attenzione e in ogni caso connotato di un indiscutibile valore che prescinde dalle apparenze reali e dai costi di realizzazione.

La ricognizione degli argenti della parrocchiale di Santa Maria Maddalena a Uggiano la Chiesa è soprattutto un contributo alla secolare tradizione orafa di Napoli che ebbe un ruolo egemone nell’intero Mezzogiorno grazie ai suoi abilissimi interpreti. È anche il riscatto culturale di una cittadina, da sempre devotissima alla Maddalena e in passato ossequiosa della Mensa Arcivescovile di Otranto sua ‘utile Padrona’, per lungo tempo ai margini della storia e degli studi.

Questi argenti – databili tra Cinque e Novecento e chiara espressione della profonda religiosità della gente di Uggiano – sono una parte di quelli già in possesso: spoliazioni governative, furti, fusioni, cambiamenti di gusto, ne hanno progressivamente ridotto il numero nel corso dei secoli.

Per contro, con l’edificazione della nuova parrocchiale – in gran parte ultimatanel 1775 (la data è incisa sul timpano) con grande effetto scenografico in un tessuto edilizio di scarso interesse storico – si ebbe un inevitabile incremento di arredi sacri e di suppellettili diverse, anche in ragione delle notevoli dimensioni dell’edificio e dei vari altari innalzati al suo interno, spesso di jus patronatus. A questa magnifica stagione artistica avranno ovviamente contribuito gli ecclesiastici, gli aristocratici e i fedeli del posto, ma anche e soprattutto gli arcivescovi di Otranto.

croce uggiano1

L’ultimazione dei lavori del nuovo tempio di Maria Maddalena è per noi il riferimento obbligato, o quasi, per datare post quem la suppellettile rococò: grossomodo tra il 1780 e il 1795. Non si esclude, a tal proposito, che per rimpinguare i denari necessari alla costruzione della fabbrica si siano fusi o alienati gli oggetti metallici più antichi, perché rotti e/o obsoleti.

Esso ècostituito essenzialmente da manufatti napoletani – un artigianato da secoli particolarmente fiorente nella capitale del Regno – come denuncia il bollo camerale della città partenopea: NAP col sottostante millesimo. In un solo caso il punzone ha rivelato la firma dell’argentiere Romualdo De Rosa, mentre altri tre ne celano la paternità dietro le rispettive sigle: Ao/AP, VL e CE, quest’ultimo poi assai importante dal punto di vista documentario perché del tutto inedito.

Anche un’epigrafe può essere un pretesto …

di Armando Polito

Sono trascorsi poco più tredici anni e mezzo da quel fatidico 1 gennaio 2000, anno che qualcuno sicuramente ricorderà per qualche evento piacevole o spiacevole, al di là del clima di attesa che la data prima indicata portò con sé, anche se ben diverso dovette essere lo stato d’animo di chi in prossimità della conclusione del millennio precedente era vissuto tra attese apocalittiche e profezie la cui cripticità creava più terrore di qualsiasi catastrofe chiaramente annunziata.

Pure l’homo tecnologicus non fu indenne dal trambusto da passaggio di millennio: chi, avendo dimestichezza col pc, non ricorda la “maledizione” del millennium bug? La cosa paradossale è che allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999 non successe nulla, mentre a scoppio ritardato la Microsoft rilasciava in data 14 settembre 2000 la versione del suo sistema operativo denominata Windows ME (Millennium edition) che non avrebbe avuto lunga vita, soppiantata, come fu, da Windows XP, versione rilasciata il 25 ottobre 2001.

Io, per fortuna, ricordo il 2000 per motivi professionali, più precisamente per un cd su Nardò realizzato prima della fine dell’anno 1999-2000 con la mia quinta ginnasiale.

 

Non è che il laboratorio d’informatica all’epoca potesse definirsi avanzato o adeguatamente aggiornato; ad ogni modo, sfruttando ciò che avevamo, riuscimmo a portare a termine la nostra fatica, pur tra mille contrasti dovuti soprattutto al fatto che non è facile mettere d’accordo 23 teste sulla scelta di uno sfondo o di un font … (per parecchi di loro, beata incoscienza della gioventù, era proprio quella la scelta più importante).

E poi, avrei potuto mandare a monte tutto dopo le innumerevoli foto fatte insieme, sia pure con gruppi diversi, nelle due ore del pomeriggio nei giorni in cui ragazzi potevano “rubare” il tempo allo studio “normale”?

Avrei potuto mandare a monte tutto dopo che mi ero dissanguato (2.100.000 lire) a comprare la mia prima fotocamera digitale che maneggiavo con una cura, con una delicatezza e con mille precauzioni (quando prendevo in braccio le mie figlie ne usavo 999 …)? Certo, avrei potuto spendere di meno, ma sono fatto così: tendo al meglio, ma so aspettare finché non è possibile realizzare la mia aspirazione (certo, se si fosse trattato di una Ferrari, starei ancora ad aspettare il meglio …).

Per sfortuna del lettore ho ritrovato ieri il cd contenente quelle foto, gran parte delle quali confluirono in quel lavoro che, rivisto oggi,  mi sembra certamente ingenuo ma, mi si conceda un attacco di immodestia, dignitoso. Quelle foto le cercavo da quattro anni e ormai mi ero rassegnato all’idea di averle perse per sempre, anche perché due anni è stato fino ad ora  il tempo medio di aspettativa di ritrovamento quando mia moglie mette ordine nelle mie disordinatissime cose nelle quali, però, finché restano tali, vado ad occhi bendati.

La prima foto della serie è proprio quella riproducente l’altare maggiore della chiesa della B. Vergine Incoronata a Nardò.

 

Ha attratto la mia attenzione l’epigrafe (nel 2000 non c’era il tempo per fare approfondimenti, né a scuola o a casa avevamo la connessione alla rete) nel dettaglio della foto sottostante.

 

VOCE CHRISTI

MAGNUS

OMNIUMQUE VOCE

MAGISTER

 

Per voce di Cristo

grande

e per voce di tutti

maestro

 

Da notare la costruzione simmetrica delle due parti ognuna delle quali occupa due linee:  il voce Christi e il magnus della prima corrispondono, rispettivamente, all’omniumque voce e al magister della seconda. Da notare, inoltre, l’inversione dei componenti (ablativo e genitivo) in voce Christi e omniumque voce allo scopo, credo, di far risaltare il più importante (Christi) di fronte al meno importante, anche se collettivo, (omnium).

Le frecce in basso hanno il compito di evidenziare graficamente queste corrispondenze.

Ma i due nominativi MAGNUS e MAGISTER (peraltro entrambi dalla stessa radice mag-; in particolare magister risulta formato dall’avverbio magis=più, il cui originario valore comparativo viene ribadito dal suffisso –ter che indica confronto fra due) a chi si riferiscono? Il primo sospetto in questi casi è che l’epigrafe sia in qualche modo una citazione da qualche scrittura sacra. Un’indagine in rete, però, anche cambiando l’ordine di qualche parola, non ha fornito alcun riscontro.

Non mi restava che consultare qualche testo che se ne fosse occupato. E qui spunta il nostro Marcello Gaballo, curatore, sottolineo curatore, di Nardò Sacra scritto da Emilio Mazzarella e pubblicato da Mario Congedo a Galatina nel 1999. Sono sicuro che l’amico Marcello che tempo fa me ne ha regalato una copia non si pentirà, per quel che dirò, del suo generoso gesto.

Alle pagg. 340-341 leggo: L’altare maggiore, cui si accedeva mediante alcuni gradini in marmo bianco, era tutto in pietra leccese con sculture in bassorilievo e angeli in vari atteggiamenti e nel mezzo, sotto la base del Crocifisso, la scritta:

VOCE CHRISTI MAGNA

OMNIUMQUE VOCE MAGISTER

La traduzione fornita in nota è: Il Maestro con la grande voce di Cristo è quello con la voce di tutti.

Questa traduzione mi pare discutibile (al di là del suo ermetismo) non tanto per il verbo essere sottinteso quanto perché risulta totalmente ignorata l’enclitica que. Tutt’al più si potrebbe tradurre: Il maestro (è tale) per la grande voce di Cristo e per voce di tutti. Il lettore noterà che ho scritto maestro con l’iniziale minuscola perché il Maestro per eccellenza è già in Christi.

Inutile, però, perdere tempo su questa traduzione quando nel testo trascritto cui essa si riferisce compare un MAGNA invece del MAGNUS che la foto inequivocabilmente attesta.

E allora? Riconsiderando il tutto mi viene in mente che qui ci potrebbe essere un’eco (solo un’innocente eco, non intendo dire altro …) del magnus Magister dei cavalieri templari applicato, però,  al rettore (inteso come figura istituzionale e senza alcun riferimento individuale) del tempio, con una scissione concettuale del nesso, per cui tale rettore sarebbe magnus per voce di Cristo e magister per voce di tutti. Per ulteriore slittamento, poi, il tutto potrebbe essere un monito generale rivolto al celebrante: (Tu sei) grande grazie alla voce di Cristo e pastore grazie alla voce di tutti.

Il parallelismo grammaticale all’inizio descritto mi impedisce di considerare l’omnium di omniumque di genere neutro plurale sostantivato e, dunque escluderei quest’ulteriore interpretazione, anche se mi sembra la più suggestiva e cristianamente profonda tra tutte: Tu (sei) grande con la voce di Dio e  maestro con la voce di tutte le cose (cioè con l’esempio).

Anche se tutto ciò che non è connesso strettamente con l’epigrafe è andato esattamente così come l’ho descritto, non posso affermare senza ombra di dubbio che la scrittura di questo post è stata dettata da motivazioni di (basso, visti gli esiti … come al solito incerti) ordine scientifico piuttosto che dalla irrefrenabile nostalgia suscitata da quella foto. E di questo chiedo perdono a chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui.

Il “non finito” di Francesco Solimena a Nardò

di Paolo Marzano

fronte
S. Michele Arcangelo, attribuito a Francesco Solimena, nella cattedrale di Nardò

Ritengo si debba continuare a parlare di ‘scuola del Solimena’, intendendo, con questa affermazione, determinare un contesto di ‘culture’ pittoriche differenti e, allo stesso tempo, afferenti al maestro napoletano. Nell’ opera del S. Michele Arcangelo, appena restaurato, diversi sono i caratteri che potrebbero avvicinare la pittura in esame, ad una delle figure dominanti, quell’arte, a cavallo tra ’600 e ’700, nell’Italia meridionale. Ma, anche diversi particolari, non corrispondono al risultato che invece, proprio Francesco Solimena, pretendeva venisse fuori, dalle sue opere.

Chi ha pratica della storia dell’arte, conosce l’importanza dei documenti, l’ambito storico, ne contempla la veridicità, ma anche dei non secondari filtri che attengono alle descrizioni d’impostazione della scena, dei piani sovrapposti ed intersecanti i volumi, la struttura anatomica, i lineamenti del viso, direzione e tiraggio dei muscoli in relazione ai gesti espressi, quindi l’incarnato, la direzionalità del panneggio, la piegatura e la sovrapposizione del flusso coloristico sulle stoffe, la naturalità delle forme in relazione alla luce al chiaroscuro e all’ombra.
Un piccolo anticipo su quello che verrà a breve pubblicato.

Oltre alla strana aureola dell’Arcangelo (forse la continuazione del panneggio rosso) e ai semplificati, quasi schematici, tratti del viso (occhi troppo segnati, proporzionalmente grandi e quieti rispetto all’azione totalizzante della scena che vi si svolge) di sicuro ambiente napoletano, ma lontani come approcci del maestro, suggerisco di osservare nelle molte opere del Solimena il trattamento della luce.

Proprio il contatto della zona di luce, anche violenta e unidirezionale, sui volumi, determina, nei più importanti lavori del Solimena, appena dopo la scura zona d’ombra, un chiaro riverbero luminoso che, in numerosi altri casi, conferma la serie dei piani (o quinte) dell’impostazione compositiva dell’intera scena e risolve l’apparato chiaroscurale, dell’episodio raffigurato. Il viso del S. Michele, dunque, pur nella posizione privilegiata, poco si discosta, per i semplici lineamenti, dai cherubini sul fondo immersi nelle nuvole.

La ‘scuola’ quindi è certamente del Solimena, come la figura di lucifero che viene a forza ricacciato nell’inferno sembrerebbe confermare. Infatti, un maggiore approfondimento e quindi avvicinamento alle opere del Solimena rivela quella particolare figura ripresa più volte; per esempio dal personaggio quasi centrale sulle scale nella “Cacciata di Eliodoro dal tempio” o nei suoi disegni preparatori la ritroviamo disegnata per due volte nei due sensi di appoggio. Poi nel putto con la corona della “Giuditta e Oloferne” o ancora la stessa torsione e postura nella “Battaglia tra Lapiti e Centauri”.
L’opera ritengo sia attribuibile ad allievi del Solimena, su suo evidente disegno preparatorio, oppure, se si certificasse la chiara paternità del maestro, risulta sempre essere un’opera “non finita”, appunto per l’assenza dell’ultimo strato di riverbero luminoso e dunque della maggiore brillantezza ed evidenziazione tridimensionale generale, ora assente. Poco esaltata infatti la cascata centrale della ‘spira’ del panneggio rosso (l’afflato divino al suo guerriero) e la sublime curvatura finemente piumata (meravigliosamente reale) dell’ala a sinistra dell’arcangelo Michele.

Si attendono ulteriori riflessioni dibattiti, discussioni e confronti, per un’opera che va ad arricchire il bagaglio dell’antichissimo, e che si sta rivelando sempre più prezioso, scrigno della Cattedrale di Nardò.

 

I primi due sono compresi insieme nell'opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne "La cacciata di Eliodoro dal Tempio", solo il primo lo ripete nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell'Arte di Toledo, il terzo si trova inserito ne "la battaglia tra Lapiti e Centauri", il quarto è il S. Michele Arcangelo nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell'opera "Giuditta e Oloferne" di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.
I primi due sono compresi insieme nell’opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne “La cacciata di Eliodoro dal Tempio”, solo il primo lo ripete nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell’Arte di Toledo, il terzo si trova inserito ne “la battaglia tra Lapiti e Centauri”, il quarto è il S. Michele Arcangelo nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell’opera “Giuditta e Oloferne” di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/22/nardo-un-solimena-riscoperto/

 

http://www.liberoquotidiano.it/news/454848/Scoperto-un-nuovo-Caravaggio.html
http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/10_luglio_27/caravaggio-non-suo-martirio-1703469347692.shtml
http://culturasalentina.wordpress.com/2010/07/28/a-proposito-del-caravaggio-a-lecce/

Su una via deserta della periferia

da fondazionebellonci.it

 

La calma con cui un anziano signore riesce a stare per ore seduto sull’uscio di casa, a guardare il nulla di una via deserta della periferia, dopo una vita di brutale fatica. In un silenzio impenetrabile in cui si intrufola il cigolìo di una bicicletta, la mia, e un fracasso che non si dà a sentire.

(Pier Paolo Tarsi)

In quel guardare il nulla c’è il pieno dei ricordi, in quell’apparente immobilità c’è la corsa all’indietro verso il vigore di una giovinezza instancabile in cui tutto era nel potere della volontà tranne l’amore, tutto era riscatto tranne la paura di non meritarlo…

(Raffaella Verdesca)

Pesticidi e diserbanti, al Salento il triste primato

da aserramanna.it

di Antonio Negro

 

Nel giro di poche settimane si sono tenuti due incontri pubblici sulla pratica dei veleni in agricoltura: pesticidi, diserbanti e altro, comunemente definiti fitofarmaci.

Il primo a Castiglione d’Otranto (Lecce), in aperta campagna, finalizzato alla raccolta di firme per chiedere l’abolizione totale dell’uso di questi veleni nelle campagne. La richiesta, da inviare ai governi nazionale e regionale, è stata supportata da argomentazioni e dati sulle gravi conseguenze che derivano alla salute umana, oltre al danno per l’ambiente, dall’uso continuo di dette sostanze.

La riunione, presente il dottor Giuseppe Serravezza, esperto oncologo e da sempre impegnato per la difesa della salute sia dell’uomo che della natura che lo circonda, si è tenuta domenica 9 giugno, di sera; fatto curioso, ma non troppo, sembra che tra il pubblico si aggirasse anche qualche 007 in borghese, tra l’altro facilmente riconoscibile almeno agli addetti ai lavori.

L’altro incontro, alla presenza anche qui di esperti, si è tenuto a Tricase (Lecce), la sera di lunedi 24 giugno, sul corretto utilizzo dei fitofarmaci in agricoltura. Ora, ciò che salta subito all’occhio è il fatto che il tema di fondo dei due incontri non abbia fatto altro che mettere in evidenza la gravità e la pericolosità di queste sostanze, pericolosità che nella prima riunione era ritenuta tale da richiederne addirittura la messa al bando, mentre nella seconda ha fatto insistere, fino alla noia, che bisogna saperle usare. E questo perché? Perché si tratta di veleni, appunto.

Nei dati emersi dalle due serate, ma non solo, sembra che nel Salento – specie da Maglie in giù – vi sia un uso sconsiderato di tali veleni e di gran lunga superiore al resto d’Italia e della Puglia, dove pare che vi siano addirittura venditori ambulanti di prodotti clandestini contraffati provenienti da altri Paesi. Del resto, i dati significativi emersi dicono che su 155.000 quintali riversati nelle campagne pugliesi nel 2010, ben 2 milioni di kg. sono stati gettati sulle colture in provincia di Lecce.

Ma ciò che più preoccupa è il fatto che le norme in materia nella nostra Regione non sono per niente severe e i controlli praticamente inesistenti. La dispensa usata per far studiare i concorrenti per il famoso patentino, riporta genericamente alcune indicazioni di massima sulla pericolosità delle sostanze che si maneggiano, ma sono prive di riferimenti normativi e, quindi, gli stessi patentati sanno che non corrono rischio alcuno in materia di responsabilità civile o penale.

Le uniche raccomandazioni un pò più in evidenza sono quelle di tenersi a 200 metri dai pozzi per uso umano (vuol dire per uso animale si può buttare il veleno direttamente nell’abbeveratoio!) e a distanza di sicurezza dalle abitazioni: quale sia la distanza di sicurezza non é dato sapere! Non solo, ma la confusione è tanta e tale che non é dato conoscere  con certezza quali siano questi pozzi per uso umano. Il fatto che l’Ispra abbia lanciato l’allarme, a livello nazionale, dicendo che il 50% delle acque, anche di falda sotterranea, siano avvelenate poco importa ai nostri governanti che non riescono a legiferare con serietà e severità su questa materia.

Quando si irrora nelle campagne bisogna avere le tute speciali e a norma? E chi se ne frega! Bisogna avvisare il confinante, specie se la casa dove abita è adiacente? Ma quando mai, se non c’è nessun articolo di legge che lo prevede! E dove ci sono gli animali domestici? E l’effetto deriva, che sarà mai? Gli alunni di questi corsi alla prova finale vengono portati in campagna per vedere se almeno hanno imparato i punti cardinali per capire come soffia il vento che procura l’effetto deriva? E gli ugelli delle macchine sono a norma, e come? Ma sono a norma nelle prove pratiche o solo nella sala dove si tiene la lezione teorica? Perché, se non si va errando, solo di teoria si parla poiché la pratica é tutta un’altra cosa.

C’è un allarme in campo internazionale perché si assiste a una moria di api senza precedenti; le api sono degli indicatori importanti dello stato di salute del pianeta e si pensa che la loro scomparsa sia dovuta all’uso dei pesticidi, appunto. Nel Salento è avvenuto lo spietramento del territorio e sono state asfaltate le campagne per rendere più facile e veloce l’uso dei mezzi che buttano veleni, in nome della monocoltura dell’ulivo. Ma ciò che sconcerta di più in tutto questo è il fatto che gli amministratori, i governanti, gli addetti ai lavori, per competenza e conoscenza, non si rendano conto che bisogna gestire e governare questi settori, come altri, con responsabilità ed efficienza, perché si tratta della salute dei cittadini, oltre che di loro stessi.

E’ mai possibile che nel nostro Paese, l’Italia, e nel Meridione in particolare, per risolvere i problemi si aspetti prima l’intervento del giudice, la Patrizia Todisco di turno o di altri, come il Tar del Veneto che ha stabilito con chiarezza la pericolosità di questi veleni? Adesso sembra che si stia tentando di mettere un pò di ordine in questo settore, col decreto 150/2012, in attuazione di una direttiva europea sull’uso sostenibile dei pesticidi; ma servirà a poco se la Regione Puglia e i Comuni non detteranno norme severe verso coloro i quali avvelenano le nostre campagne, i nostri cibi, le nostre acque, le nostre case, le nostre strade.

E soprattutto, se il patentino verrà rilasciato a chi non conosce nemmeno la rosa dei venti! Di questo passo scompariranno anche le verdure selvatiche – la cicoria in primis – a tutt’oggi già fortemente compromesse, che erano un tratto saliente delle nostre tradizioni alimentari, e che hanno contribuito, non poco, a rallegrare la tavola, soprattutto dei più poveri.

Ultimissime dalla “Pastorizza” di Marittima (Lecce)

cortile

di Rocco Boccadamo

 

 

Fra incontri, caldo afoso e un temporale, da ieri a oggi, è successo quasi tutto.

Da notare che qui, almeno sino ad adesso, questo luglio si va comportando alla grande in fatto di temperatura e di condizioni del mare, insomma è un bel cuore d’estate.

Ieri pomeriggio, a ridosso del tramonto, ho dedicato un paio d’ore a somministrare un po’ d’acqua ai giovani ulivi della “Marina ‘u tinente”, che m’erano sembrati in leggera sofferenza; un’operazione, che sono solito ripetere tre/quattro volte nell’arco della stagione estiva, sperando, in tal modo, sia di apportare un piccolo contributo al naturale sviluppo delle piante, sia di agevolare il mantenimento, sui rami, dei minuscoli frutti già formatisi e ottenerne lo sviluppo nel periodo canonico, ossia fra settembre e ottobre, in vista e a vantaggio della successiva raccolta.

Mentre l’acqua si andava depositando ai piedi delle piante, spettacolo nello spettacolo, ho scorto, in diversi posti e a più riprese, il timido affacciarsi e avvicinarsi, al liquido, da parte di minuscole lucertole, evidentemente assetate. Una scena tenera il vederle intingere il musetto nell’acqua a terra sotto gli ulivi e, in pari tempo, la soddisfazione interiore di arrecare un’utilità anche ad animaletti che popolano le nostre campagne.

bocca

Sulla via del ritorno, mi sono fermato davanti all’uscio di Gina, mia coetanea classe 1941 e perciò antica compagna di scuola.

Non è sposata, la predetta amica, e, dopo decenni trascorsi nella sua casa natia, prodigandosi, specialmente da ultimo, nell’assistenza ai genitori, adesso vive da sola fra quelle pareti, mentre una sorella e un fratello hanno le rispettive famiglie.

Trovasi intenta a ricamare su una stoffetta, Gina, al che mi viene spontaneo di chiederle a chi mai fosse destinato quel prezioso manufatto, tovaglia o asciugamani o non so che altro. Forse a una giovane nipote?

Mi stupisce, invece, la donna, con questa frase: “Vedi, Rocco, ora che finisco di ricamare questa roba, mi devo sposare”.

Un’affermazione, espressa con naturalezza pari ad altrettanta sicurezza, al punto da far esplodere una spontanea, sonora risata, sia da parte sua, che da parte mia.

Il padre di Gina si chiamava Fiore, l’unico, in paese, con quel nome, di mestiere faceva, insieme, il contadino e il pescatore.

La sua figura si affacciava spesso, specialmente in primavera, la domenica mattina nella piazza della chiesa, dove egli esponeva una grossa “panara” piena di ricci di mare, unitamente  a una cassetta di compensato ricolma di polpi ancora vivi e che, con i loro tentacoli, andavano oltre le pareti del contenitore, sfiorando il pavimento stradale.

I compaesani, o prima o dopo la Messa, si avvicinavano a Fiore, acquistando qualcosa da utilizzarsi come arricchimento del pasto festivo e l’uomo, a sua volta, racimolava poveri spiccioli a integrazione del bilancio familiare.

Soprattutto, anche a distanza di più di un cinquantennio, sono sempre rimasto in qualche modo legato a Gina, per il ricordo di un doloroso evento verificatosi in seno alla sua famiglia nei primi anni ‘60 del secolo scorso, ossia a dire la scomparsa, per una grave malattia, di un suo fratello, di pochi anni più grande rispetto a noi, e quindi andatosene giovanissimo. Durante le ultime due sue estati, ricordo che gli fui materialmente vicino nella sofferenza: e dire che Mario, forte, sveglio e vivace, aveva per tanto tempo aiutato il genitore sulla barca, anche lui pescando polpi e ricci di mare.

Ciao, Mario!

bocca1

Nel sud, perciò anche nel Salento, perciò pure a Marittima, essere compare di qualcuno non è una condizione qualsiasi, bensì un legale importante, stretto e solido, quasi alla stregua di una parentela o di un vincolo familiare. Tenendo a battesimo un pargolo o facendo da padrino alla cresima di un ragazzo, si conquista il ruolo di compare, non solamente nei confronti del piccolo o del ragazzino, non unicamente nei confronti dei suoi genitori e nonni, ma anche riguardo a tutta la parentela allargata, ovvero fratelli, cognati, cugini;  inoltre, la condizione di compare si mantiene anche di là delle generazioni, insomma a vita.

Chi scrive, fra battezzandi e cresimandi, ha eseguito il compito di compare una quindicina di volte; non so se, sempre, meritatamente, sta di fatto che numerose famiglie del paese mi sceglievano, forse sarà stato a motivo che ero svelto, andavo bene a scuola, ho trovato un impiego a soli diciannove anni, oppure la gente mi chiamava per rispetto e omaggio nei confronti dei miei genitori, invero ben voluti da tutta la comunità.

A comprova del segno e del significato che si porta con sé nel tempo il ruolo di compare, mi piace dar conto di un minuscolo quanto indicativo episodio appena occorso nella natia Marittima.

La mia figliola, che vive abitualmente in Germania, portatasi nel bar del paese insieme con la sua piccoletta per acquistare un ghiacciolo richiesto dalla bimba, si è subito accorta che un anziano signore la osservava, insieme con la sua bambina, discretamente ma intensamente. Non conosceva per nulla l’uomo, mia figlia, mentre l’altro, evidentemente si era reso conto, che lei era mia figlia, la figlia di compare Rocco, memore che quest’ultimo, a suo tempo, circa cinquantacinque anni addietro, era stato il  padrino di battesimo di uno dei propri figli.

Sta di fatto che compare Vitale ‘u cuzzune, questo il nome dell’uomo, si è avvicinato a mia figlia, dichiarandole che era suo vivo desiderio, in certo qual modo un bisogno irrinunciabile, far dono di qualcosa alla bionda frugoletta, nipotina del compare Rocco: un gelato, una caramella, una brioche, purché fosse qualcosa e così dalle parole è passato ai fatti.

Una bella scena al bar del paesello, riferitami, con piacere frammisto a stupore, la sera, a cena, da mia figlia.

Ieri, intorno al crepuscolo, sovrastava, in alto, un cielo d’incanto, punteggiato, per di più, dalla falce sottile della luna al suo primo affaccio, l’immagine del satellite che più amo e mi fa pensare. Mi sono soffermato per un bel pezzo ad ammirare e a godermi tanta meraviglia.

Oggi, gran caldo, a mezzogiorno si sfioravano i trentatré – trentaquattro gradi, sennonché, in breve volgere di tempo, nella prima parte del pomeriggio, la scena è uscita completamente sconvolta, le nubi, in un baleno, hanno annerito il cielo, si sono scatenati lampi e tuoni ed è venuto giù un violento acquazzone. L’insieme si è protratto per un ora abbondante, con conseguente forzato riposo  a beneficio del computer, dello smart phone e di ogni altro apparato elettronico.

Poi, improvvisamente, grazie alle bizzarrie o risorse della natura, il cielo si è nuovamente rischiarato, il sole è ritornato a splendere, l’esercito delle cicale ha ripreso a frinire sui rami.

Suggestiva l’immagine dei tronchi e delle grandi chiome dei pini attornianti la mia villetta al mare, contemporaneamente gocciolanti pioggia e accarezzati dal sole.

 

La Tigre o la Calamity Jane di Nardò?

di Armando Polito

Ebbene, lo confesso, trascorro intere nottate a tentare di dare a qualche mio post un titolo quanto più possibile accattivante, in modo da attrarre il maggior numero di lettori. L’espediente, però, applicato con successo soprattutto da certa (o da ogni tipo di?) stampa, per me potrebbe essere un’arma a doppio taglio, perché, dopo aver dato fondo alle energie migliori (ho in testa una pala eolica e da un’altra parte un pannello solare che ha anche la funzione di nascondere e proteggere le pudenda) per partorire il titolo, rischio di giungere spompato alla stesura del testo e, dunque, di deludere il lettore che, ammaestrato dall’esperienza, la volta successiva diserterà qualsiasi mio post, soprattutto se esso esibisce un titolo strano.

Da qualche tempo a questa parte sto applicando, però, un espediente compensativo, cioè sto facendo scrivere tutto o quasi ad altri e, siccome non sono fesso, le penne di cui mi servo non sono certo quelle di un gallo malandato. Ultimamente, poi, qualcuno se ne sarà pure accorto, mi sto avvalendo della collaborazione (uso questa espressione burocratica  per darmi un minimo di importanza …) del poeta neretino Francesco Castrignanò. Intendo dire che lui ci mette volta per volta  un suo testo, partendo dal quale, poi, io faccio le mie riflessioni. Profonde o meno, queste riflessioni si chiamano commento ad una poesia? Non lo sapevo e riconosco la mia ignoranza. Quel ci mette precedente andrebbe corretto in ci ha messo perché il poeta è morto nel 1939 e io sono nato nel 1945? Valga per l’ignoranza prima riconosciuta, ma questa volta debbo far presente al mio critico interlocutore che anzitutto un poeta non muore mai, mentre muore il suo commentatore, a meno che non sia lui stesso un poeta (calma, non è il mio caso!); in secondo luogo è come se tra il poeta e il tempo fosse stato stilato un contratto in cui l’uno (il poeta) ha già fornito la prestazione e via via i rappresentanti dell’altro (i vari commentatori di ogni epoca) assolvono alla loro che è destinata a non finire mai. Oltre al top commentatore è inevitabile che ci sia pure più di un commentatore di infimo livello (è, rubando ad altri questo gioco di parola, il tap commentatore) che, per riciclare (speriamo che io sappia fare bene almeno questo …) un linguaggio crozzano-briatoresco, andrebbe stoppato. Io ho incorporati, come ho detto, la pala eolica e il pannello solare, ma non il cartello segnaletico adeguato per fermarmi da solo. Nel vostro interesse, che aspettate a farlo? Nell’attesa, continuo …

La poesia di oggi ha come protagonista un’altra insolita (per quei tempi) figura femminile, insomma un maschiaccio. A scherzare con lei ci si brucia e quando gli scherzi, poi, sono di un certo tipo, si può perfino perdere la vita, perché è una che ha il grilletto facile. Tìcara1 (tigre) la definisce il poeta, che dà lo stesso titolo alla poesia, quasi a farne il nomignolo di questa, altrimenti, totalmente anonima donna.

Il Castrignanò ci presenta, dunque, un’altra originale, soprattutto per i suoi tempi, figura femminile e credo che il merito maggiore di Cose nosce, la raccolta del 1906 da cui la poesia è tratta insieme con le altre precedentemente lette, consista proprio nell’attribuire alla poesia il compito di celebrare fatti non convenzionali e personaggi non conformisti. Tìcara incarna perfettamente la contraddizione esistenziale della donna di quel tempo combattuta tra l’obbligo di apparire come un modello di “virtù” e la preclusione della difesa volontaria, all’occorrenza, di quella “sua virtù” che però era un patrimonio gestito unicamente dal marito o dai maschi della famiglia d’origine. Ticara si ribella ed applica a modo “suo”, senza intermediari,  l’istituto giuridico del delitto d’onore, obbrobrio giuridico  e prima ancora culturale, che, com’è noto, sarà abrogato solo nel 1981.

Ora sarà facile a qualcuno dire che Tìcara si era accorta che sotto il suo letto c’era un cozzo (corrispondente maschile di cozza … praticamente il mio sosia), ma, cozzo o non cozzo, questa donna mi attizza perché con le sue faciddhe non mi evoca certamente l’immagine di Caron dimonio, con occhi di bragia …    
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1 Tìcara rispetto all’italiano tigre presenta epentesi di –a– come in cancarena da cancrena. Sull’omografo in uso in altre zone del Salento col significato di vipera vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/11/ipra-vipera-un-pizzico-di-veleno-si-ma-nelletimologia/

2 Oggi a Nardò è in uso fraciddha, che è da facìddha con epentesi di –r– forse per incrocio con brace. Faciddha corrisponde all’italiano letterario facella, diminutivo di face, anch’esso letterario, che è dal latino face(m)=fiaccola.

3 Corrisponde formalmente all’italiano contare, semanticamente a raccontare, con ulteriore generalizzazione del significato (>parlare).

4 Da cutulare, per cui vedi la nota 8 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/17/sul-termine-naca-la-culla-dei-nostri-avi/

5 Il Rohlfs rinvia a chiasciune, dove si legge: “nei documenti baresi del secolo XI troviamo plaione: è vocabolo introdotto dai longobardi, cfr. il friulano bleón<blaione nei documenti dell’Italia settentrionale del secolo IX; ha la sua origine nel germanico antico blahe e plahe=grossa tela”.

6 Deverbale da scazzicare, per cui vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/05/07/scazzicare-parente-di-calcio-chi-lavrebbe-mai-detto/

7 Corrispondente all’italiano (in)curiosito, con aggiunta di suffisso con valore intensivo e metatesi cur->cru– che ha agevolato la sincope di –io-.

8 Più vicino al latino abscònditus (participio passato di abscòndere) di quanto non lo sia il corrispondente italiano nascosto, che è da inabscònditum.

 

Gli argenti della Cattedrale di Nardò, una raccolta straordinaria

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di Marcello Gaballo*

 

Per la prima volta si dedica ampia attenzione agli argenti della Cattedrale di Nardò, quasi mancasse in città una raccolta o, perlomeno, una collezione che testimoniasse l’importanza rivestita da tali preziose suppellettili nella vita religiosa e sociale dell’antichissima Civitas. Del resto, non potevano essere esenti dal commissionare o fare utilizzo di calici, pissidi, turiboli e quant’altro i numerosi vescovi succedutisi sul soglio episcopale neretino negli ultimi sei secoli, i conventi e monasteri presenti a Nardò, le potenti famiglie aristocratiche che si sono avvicendate nel governo cittadino per oltre un millennio, nonché un ceto medio alquanto facoltoso, la cui devozione tanto contribuì a dotare di arredi sacri il considerevole numero di chiese cittadine.

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La fortunata combinazione dell’importante anniversario del massimo tempio cittadino (già abbazia benedettina, quindi sede episcopale dal 1413) con la sensibilità del vescovo Mons. Domenico Caliandro e con la disponibilità del parroco don Giuliano Santantonio, ha consentito di portare alla luce un incredibile patrimonio – tenuto celato ai più – che per secoli è andato accumulandosi, nell’ammirazione di pochi privilegiati, all’interno dei grandi armadi in larice conservati nella tesoreria della Cattedrale di Nardò.

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Questa pubblicazione, fortemente caldeggiata dalla Fondazione Terra d’Otranto, offre per la prima volta al lettore i capolavori dell’oreficeria e dell’argenteria meridionale che costituiscono il Tesoro della Cattedrale, smentendo peraltro quanto sostenuto da alcuni detrattori, più propensi a relegare Nardò entro un ambito di riferimento culturale localistico e periferico, assai distante dagli aggiornati orientamenti artistici della Capitale del Regno. Al contrario, gli abili orafi e argentieri neretini (o salentini) hanno lasciato prodotti di altissima qualità, che rivelano l’inequivocabile influsso esercitato dall’ambiente napoletano (si pensi anche alla coeva produzione architettonica, pittorica e scultorea neretine), come si evince dalla puntuale e sistematica catalogazione effettuata da Giovanni Boraccesi, uno dei massimi studiosi di argenti dell’Italia meridionale, nonché componente del Comitato scientifico della Fondazione Terra d’Otranto, il quale ha vagliato, studiato e catalogato i singoli pezzi del Tesoro della Cattedrale, illustrati nel presente volume. L’indubbia preparazione e la puntuale ricognizione che l’amico esperto ha effettuato su questo prezioso materiale guidano il lettore alla conoscenza e all’agevole fruizione di un patrimonio di elevato valore artistico, culturale, simbolico e materiale, solo sporadicamente menzionato in alcuni testi, nella genericità delle indicazioni artistiche.

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Una raccolta straordinaria che si è costituita a partire dal Cinquecento, continuando ad arricchirsi nel corso dei secoli successivi, fino al Novecento con l’aggiunta di manufatti preziosi, realizzati dagli argentieri della stessa Nardò o provenienti da altri fiorenti centri italiani.

Frutto di una meravigliosa convergenza di uomini e poteri, di devoti e artigiani, di istanze religiose e culturali, questa raccolta d’arte può, a buon diritto, essere inclusa tra le più importanti collezioni di oggetti sacri e liturgici esistenti in diocesi. Il volume curato da Giovanni Boraccesi rappresenta, pertanto, un doveroso omaggio all’Ecclesia Mater e alla città di Nardò, che proprio nel 2013 celebrano il VI centenario dell’elezione a Cattedrale, la prima, e a Civitas, la seconda.

 

 

*Presidente della Fondazione Terra d’Otranto

Il catalogo degli argenti depositati nel tesoro della cattedrale di Nardò

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di Giuliano Santantonio*

Il Catalogo degli argenti depositati nel tesoro della cattedrale di Nardò, che si pubblica nella collana  “Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e di Gallipoli”, trae spunto dalle celebrazioni del VI Centenario dell’elevazione della chiesa abaziale di S. Maria de Nerito in cattedrale e della terra di Nardò in città, ma risponde a tutta una serie di aspirazioni, gradualmente maturate negli ultimi decenni anche in conseguenza del nuovo approccio con cui la Chiesa Italiana va affrontando il tema dei beni culturali ecclesiastici:

  • intanto, il desiderio di rendere noto in modo appropriato un importante patrimonio d’arte e di storia, per lungo tempo e per certi versi meritoriamente custodito nei depositi inaccessibili del più insigne tempio neritino, in attesa di collocarlo nel museo diocesano in via di allestimento per restituirlo alla pubblica fruizione;
  • in secondo luogo, l’opportunità di valorizzare sul piano pastorale e della educazione alla fede manufatti che nel tempo sono stati prodotti non per mero scopo funzionale o artistico, ma anche come testimonianza di un modo di rappresentare il sentire della fede;
  • in terzo luogo, il convincimento che i beni culturali, sapientemente adoperati, possono aprire spazi nuovi di promozione umana integrale e di sviluppo del senso identitario e del dialogo interculturale, oltre che generare benessere spirituale e materiale in un mondo travagliato da criticità la cui origine va ben oltre la sfera della finanza e dell’economia.

L’abbondanza e la qualità dei manufatti registrati possono appena far intuire lo spessore dei vescovi che si sono succeduti nell’arco di cinque secoli sulla cattedra neritina e alla cui committenza sono in massima parte riconducibili, talvolta superficialmente interpretate come espressione di una vanitosa e diffusa megalomania. Ma basta spulciare tra l’epistolario del vescovo Sanfelice o scorrere con cura il regolamento da lui dettato per la Biblioteca vescovile che aveva fondato e dotato per cogliere gli intendimenti e i modi di una pastorale sapiente, generosa e aderente ai tempi e ai bisogni del momento storico in cui ciascuno di loro è vissuto.

Ciò rende doppiamente prezioso il patrimonio illustrato dal Catalogo, che per questo rappresenta non un mero per quanto meritorio lavoro scientifico al servizio della cultura, ma un significativo documento della vita di una Chiesa dentro la quale il Vangelo si è fatto storia e la fede ha assunto le forme nobili della bellezza e dell’arte.

Ringrazio l’autore, la cui competenza scientifica pone un sigillo di garanzia sul lavoro svolto, e la Fondazione Terra d’Otranto che in diversi modo ha promosso e sostenuto la realizzazione di quest’opera.

 

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 *parroco della cattedrale, direttore dell’Uff.diocesano BBCC della diocesi di Nardò-Gallipoli

Ti mando a Cocùmola!

di Pietro Barrecchia e Armando Polito

Ogni frase interiettiva può esprimere ammirazione (che bello!), disprezzo (che brutto!), disappunto (oh, no!), augurio (stammi bene!) o minaccia (ti faccio vedere io!). Appare evidente che quella del titolo contiene una minaccia, anche se definirne i contorni non è facile. C’è un riferimento all’isolamento e all’arretratezza in cui probabilmente il centro si trovava quando il detto nacque o c’è dell’altro?

È doveroso a questo punto lasciare in sospeso (e lo resterà fino alla fine …) quest’interrogativo  e informare l’ignaro lettore che a Pietro Barrecchia non sono dovute solo le splendide (lo dice Armando Polito) foto ma anche, in fondo, buona parte del testo appena passabile (lo dice sempre Armando) che da quelle, da Pietro condivise, ad Armando è stato ispirato.

 

Ora, però, per pura comodità formale da qui in poi Armando parlerà in prima persona (si salvi chi può!).

Un po’ per aiutarmi, un po’ perché ormai per deformazione exprofessionale e per consolidata struttura mentale diversamente non so fare, comincio dal toponimo. Esso fa venire in mente in primo luogo cùcuma (corrispondente, ma solo formalmente, all’italiano cùccuma) di cui potrebbe essere diminutivo. Cùcuma deriva dal latino cùcuma(m)  attestato in Petronio (I secolo d. C:) col significato di paiolo1 e in Marziale (I-II secolo d. C.) con quello di vaso da notte2.  Addirittura la variante cùccuma trova un ruolo da protagonista come arma impropria nel Digesto di Giustiniano: Il divino Adriano ha ribadito  che colui che ha ucciso un uomo, se non l’ha fatto con l’intenzione di uccidere, possa essere assolto e chi non ha ucciso un uomo ma l’abbia ferito con l’intenzione di uccidere debba essere condannato come se fosse un omicida. Da ciò deriva che se ha impugnato una spada e ha  sferrato un colpo lo ha fatto indubbiamente con l’intenzione di uccidere; ma se ha sferrato un colpo con una clava o con un paiolo nel corso di una rissa, sebbene abbia colpito con un ferro (qui evidentemente non si parla della clava di legno ma di ferro e del paiolo non di creta ma di rame o ferro) tuttavia l’ha fatto senza intenzione di uccidere e perciò dev’essere alleggerita la pena di colui che nel corso di una rissa più per caso che per volontà ha commesso un omicidio3.     

Cùcuma, a sua volta, è derivato dal verbo còquere=cucinare. La cùcuma  era in molti centri del Salento  un vaso di creta di forma cilindrica utilizzato per riporvi lo strutto, mentre a Galatina (e pure a Nardò) era la cioccolatiera o il recipiente di latta con cui si serviva il caffè. Nella stessa opera di Petronio un po’ più avanti rispetto al brano prima ricordato è attestato proprio un diminutivo cucùmula4.

Tutto chiaro (nel senso che il toponimo sarebbe legato alla produzione fittile o ad una vocazione culinaria)?

Magari! La variante Cucùmmula  usata a Poggiardo (c’è anche la forma dissimilata Cucùmbula  a Minervino) mi fa pensare al toscano cuccumella, nome del tumulo funerario etrusco per somiglianza di forma con il recipiente (in alcune ricostruzioni ha la forma di un imbuto capovolto).  Se è così ci potrebbe essere un’allusione generica alla relativa altitudine (105 m. sul livello del mare) oppure un più specifico collegamento con i dolmen ed i menhir o con i silos messapici a forma di imbuto capovolto esistenti.

 

E, infine, se Cocumola fosse legato, sempre in riferimento al deposito di grano e con raddoppiamento (espressivo?), al latino cùmulus=cumulo?

Lascio il dubbio ai filologi di professione e chiudo con un componimento di Vittorio Bodini tratto da La luna dei Borboni (Edizioni della Meridiana, Milano 1952 e 1987; in basso a destra l’edizione Besa, Nardò, 2006), in cui la prima ipotesi trova la sua celebrazione con quella profondità di cui solo la poesia è capace.

 

 

 

 

Il continuo alternarsi di elementi caratterizzanti non direttamente umani (paese, farina, portoncino, tabacco, pentole, brodo) e di altri che evocano la presenza dell’uomo (mani, uomini, donne) esprimono mirabilmente la compenetrazione tra i due mondi. E tra i verbi (a parte lo splendido isolamento nel secondo verso di è, che senza distrazioni anticipa la profondità dell’essere) spicca il neologismo cocumola, una terza persona singolare del presente indicativo di un cocumolare  creato là per là a condensare in un’unica radice un’identità unica ed irripetibile, insomma la figura del correlativo oggettivo tanto cara a Montale ma originale nella genesi del verbo dal toponimo e nella conseguente e consequenziale trasposizione-confusione.

 

 

 

Forse non sapremo mai l’origine dell’espressione del titolo, ma se io fossi un cocumolese non me la prenderei assolutamente e non solo perché, come diceva Oscar Wilde, bene o male, purché se ne parli. Se fossi, invece, una cocumolese rimpiangerei di non poter chiedere a Bodini che intendesse dire con quel pennute che lì per lì non ricorda solo le galline (vedi il brodo successivo) ma pure l’ipertricosi, anche se donna baffuta è sempre piaciuta e anche se donne pennute dovesse essere un sinonimo di bigotte, insomma un ricalco del montaliano (Le occasioni, Elegia di Pico Farnese, v. 33) donne barbute, più avanti nella stessa poesia nere cantafavole.

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1 Satyricon, CXXXV, 4: … cucumam ingentem foco adposuit … (mise sul fuoco un gran paiolo …).

2 Epigrammata, X, 79, 3-4: Torquatus nitidas  vario de marmore thermas exstruxit, cucumam fecit Otacilius  (Torquato ha realizzato  uno splendido bagno pubblico di marmo varipinto, Otacilio un vaso da notte).

Digesta seu pandectae  Iustiniani Augusti, 48, 8, 1: Divus Hadrianus rescripsit eum qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneraverit, ut occidat, pro homicida damnandum; et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse; sed si clavi percussit aut cuccuma in riza, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo leniendam  poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit.

4 Op. cit., CXXXVI, 2: Frangitur ergo cervix cucumulae … (Si rompe dunque la parte superiore del paioletto …).

Di-segni poetici a Matino

Invito di-segni poetici 2

di Salvatore Luperto

Il MACMa – Museo Arte Contemporanea Matino – ha il piacere di comunicare che il 7 Luglio 2013, presso la chiesetta della Pietà di Matino, alle ore 19, sarà inaugurata la mostra di-segni poetici 2 (curata da Salvatore Luperto e Anna Panareo) con le nuove opere di autorevoli esponenti dell’arte visiva italiana tra cui l’artista sarda Maria Lai (recentemente scomparsa, ritenuta la maggiore artista del Novecento sardo), Mirella Bentivoglio, Lamberto Pignotti, Nanni Balestrini, Fernando De Filippi, Emilio Isgrò, Franco Vaccari, Roberto Malquori, Luciano Caruso, Irma Blank, Michele Perfetti, Arrigo Lora Totino, Lucia Marcucci, Vitantonio Russo, Adriano Spatola, Emilio Villa, William Xerra, Tomaso Binga, Vitaldo Conte, Vittorio Fava, Ruggero Maggi, Fernando Andolcetti, Bruno Conte, Liliana Ebalginelli, Ferruccio Cajani, Carlo Canè, Carlo Marcello Conti, Chiara Diamantini, Maria Pia Fanna Roncoroni, Fernanda Fedi, Gino Gini, Giovanni Fontana, Marco Marchiani Mavilla, Gianni Martinucci, Enzo Miglietta, Eugenio Miccini, Riri Negri, Enzo Patti, Giuseppe Pellegrino, Michele De Luca e altri.

Maria Lai, Le fate operose
Maria Lai, Le fate operose

La mostra, che proseguirà sino al 30 Agosto, accompagnata dalle composizioni sonore del maestro Biagio Putignano, espone opere della seconda metà del Novecento e del primo decennio del 2000 che provengono, per la maggior parte, da donazioni di artisti e dalla collezione di Mirella Bentivoglio.

Le opere esposte in di-segni poetici 2 pongono in evidenza, attraverso la creatività degli autori, un esempio di evoluzione del fenomeno poetico verbo-visivo degli ultimi cinquant’anni. Alcune di esse, preziose e rare, rappresentano la poetica caratterizzante il pensiero dell’autore come quelle di Maria Lai, Emilio Villa, Mirella Bentivoglio,William Xerra, Lamberto Pignotti, Roberto Malquori, Vitantonio Russo.

Mirella Bentivoglio, Attento
Mirella Bentivoglio, Attento

di-segni poetici 2 è quindi un’ ulteriore indagine per poter cogliere l’originalità di questo fenomeno poetico e per rievocare aspetti e problematiche degli anni Sessanta e Settanta che hanno determinato quel rinnovamento sociale ancora oggi attuale e vivo in tante espressioni della cultura contemporanea letteraria e artistica.

Nella stessa serata, un paesaggio del Salento, realizzato dalla feconda immaginazione creativa dell’artista Ercole Pignatelli, dipinto in onore del suo insegnante Luigi Gabrieli (a cui è dedicato il MACMa), sarà collocato nello spazio museale riservato all’artista matinese, ritenuto il maestro dei maestri per la sua lunga attività di docente nella Scuola d’Arte di Lecce. Ercole Pignatelli come tanti suoi allievi, alcuni dei quali sono oggi artisti affermati, furono formati in linea con le espressioni artistiche degli anni Cinquanta che il maestro Gabrieli estrinsecò nei suoi paesaggi, pervenendo a delle soluzioni pittoriche apparentemente astratto – informali, libere dagli schemi della tradizione napoletana di fine Ottocento.

 

Salvatore Stefanelli è il nuovo direttore del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce

Salvatore Stefanelli

di Maria Pina Solazzo

 

Salvatore Stefanelli, docente di Flauto, è stato eletto nuovo Direttore del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce.

Si avvicenda a Pierluigi Camicia, nominato direttamente dal  Ministro dell’Università On. Fabio Mussi per “meritata fama”, nel 2007.

I voti espressi dai docenti votanti sono stati i seguenti: 44 preferenze per Salvatore Stefanelli (su 78 professori votanti), 32 voti per Corrado De Bernart e 2 schede bianche.

Pertanto, il candidato con la maggioranza di voti, è stato eletto Direttore Artistico del Tito Schipa.

Salvatore Stefanelli rimarrà in carica per tre anni ed è rieleggibile solo per un altro mandato.

Al centro del mio programma di Direzione c’è l’idea di rafforzamento dell’identità storica e geografica dell’Istituzione – dichiara il neo-eletto Direttore – un impegno di dialogo formativo con grandi docenti italiani e stranieri, valorizzazione dei differenti ambiti musicali  (classici, jazz, pop, etnici e bandistici),  dell’offerta formativa e produttiva della Scuola, ampliamento della presenza dell’Istituzione nella vita musicale di Lecce e del Salento intero, esportazione di produzioni e corsi all’estero, oltre ad un’attenta politica di attrazione di  studenti da tutto il mondo. 

 

Contestualmente si è proceduto anche all’elezione degli altri due organi elettivi del Conservatorio: il Consiglio Accademico e la Consulta degli Studenti.

Il Consiglio Accademico, dal prossimo Anno Accademico, darà composto dai seguenti professori: Flavio Caputo (34 voti), Maria Eugenia Congedo (38 voti), Aldo Mauro (46 voti), Carlo Scorrano (36 voti), Maria Pina Solazzo (41 voti) e Giuseppe Spedicati (59 voti).

Per la Consulta degli Studenti sono stati eletti invece, tra i 214 candidati: Daniele Vitali (68 preferenze), Sabina Legittimo (57 preferenze), Marco Conte (54 preferenze), Antonio Manni (34 preferenze) e Francesco Bisanti (29 preferenze).

Il “Tito Schipa” conta, tra Ordinamento Previgente, Triennio Accademico di Primo Livello, Biennio Accademico di Secondo Livello e Formazione Preaccademica, 990 allievi con 86 docenti.

 

Salvatore Stefanelli si è diplomato nel 1977 in Flauto al Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, con il massimo dei voti e la lode.

Ha seguito corsi di perfezionamento con Giorgio Zagnoni, Angelo  Persichilli, Mario Ancillotti, Peter Lukas  Graf; ha frequentato il corso triennale di alto perfezionamento  presso l’Accademia Musicale Pescarese tenuto dal  M° Conrad Klemm,  conseguendo il Diploma. La sua intensa attività artistica svolta in Italia, Germania, Francia, Albania, Cecoslovacchia, Cina lo ha portato a collaborare con illustri musicisti, quali Susanna Mildonian, Pierluigi Camicia, il Quartetto d’Archi “Cassoviae”, Piero Vincenti, Andrea Franceschelli, Rosa Azzaretti, Carmine Scarpati.

In veste di solista con orchestra ha tenuto concerti sotto la direzione dei Maestri: Ottavio Ziino, Franco Caracciolo, Massimo Pradella, Michele Marvulli, Claudio Ciampa, Francesco Lentini, Enrico Mariani.

Ha ricoperto il ruolo di primo flauto nell’Orchestra del Teatro “Petruzzelli”; ha collaborato con l’Orchestra “A. Scarlatti” della Rai di Napoli e per oltre un decennio è stato primo flauto dell’Orchestra Sinfonica ICO dell’Amministrazione Provinciale di Lecce, con sempre ampi consensi di critica e di pubblico.

L’universo musicale vissuto lo ha messo in contatto con illustri direttori d’Orchestra, solisti e cantanti di prestigio quali G. Kunn, V. Delman, D. Renzetti, A. Guadagno, F. Mannino, N. Rota, N. Samale, D. Rigacci, B. Aprea, N. Annovazzi, M. De Bernart, A. Zedda, M. Erede, A. Zecchi, e Raina Kabaivanska, Susanna Rigacci, Katia Ricciarelli, Andrea Bocelli, Gianna Nannini, Massimo Ranieri, Luisa Corna, Ron. Ha effettuato anche registrazioni per emittenti radiofoniche e televisive.

Intensa la sua lunga attività didattica: dal 1977, appena diplomato, è stato chiamato all’insegnamento di flauto al Conservatorio di Lecce dall’allora Direttore Giuseppe Pastore, divenendo poco dopo titolare della cattedra,  e, sotto il suo magistero, si sono formati numerosi e ottimi flautisti: professionisti che operano da tempo con successo nel campo concertistico e didattico.

Salvatore Stefanelli ha tenuto corsi di perfezionamento per importanti istituzioni nazionali: Accademia Musicale Umbra (Corso Triennale di Alto Perfezionamento), Masterclass Siem Lecce (vacanze Musicali), Endas Musica Umbria-Castiglione Del Lago, Todi (Umbria estate), Salento Musica Otranto (Incontri Musicali) ed è stato Presidente e membro di giuria in vari Concorsi Nazionali ed Internazionali:  A. M. A.Calabria, ” Mendelsson Cup” Taurisano, Accademia Sipario “E. Satie” Lecce, “V. Spadafora ” Venetico, “Nino Rota” Ostuni, LAMS Premio “Rosa Ponselle” Matera.

E’ stato recentemente premiato alla “Carriera per meriti didattici e concertistici” a Lecce, nell’ambito della manifestazione culturale “Notte di Note”, nel luglio 2012.

Ha ricoperto nel Conservatorio di Lecce, con impegno ed abnegazione, vari ruoli istituzionali: Fiduciario del Direttore Di Palma per la sede di Viale degli Studenti, Coordinatore del dipartimento di strumenti a fiato, Rappresentante dei docenti nel Consiglio di Amministrazione, Membro del Consiglio Accademico e, dal novembre 2007 ad oggi, ricopre ininterrottamente la carica di Vicedirettore, conferitagli dal Direttore M° Pierluigi Camicia.

Ha ricevuto lusinghieri consensi di stampa, tra i quali si ricordano particolarmente:

“Salvatore Stefanelli ha notevoli doti musicali naturali: dolcezza di suono, fraseggio istintivo sono le qualità di Stefanelli che, unite ad una tecnica fluida, fanno di lui un ottimo concertista. “G. A. Pastore-Quotidiano di Lecce 16 dicembre 1989”;

 

“…eccezionale l’esecuzione del Concerto in sol maggiore per flauto e orchestra di Mozart grazie a Salvatore Stefanelli, professionista completo, che ha dato del bellissimo concerto una esecuzione eccellente per brillantezza tecnica.” (Quotidiano di Lecce 8 dicembre 1987).

 

Premio speciale della giuria per la migliore interpretazione di una composizione di autore italiano contemporaneo: (S. Sciarrino: All’aure in una lontananza): “…pagina di una avanguardia rarefatta e lunare, che invita lo strumento a sonorità diafane ed a impasti misteriosi, fuor di temi e melodia, facendo leva, oltre che sulla sapienza tecnica dell’autore, sulla sua personale inventiva e capacità di suggestione.” (al Concorso Nazionale di esecuzione musicale “Francesco Cilea” di Palmi – Enrico Cavallotti- Il Tempo del 12-9-1985.

 

*UPR Conservatorio “Tito Schipa” Lecce

Ulia bessu (Vorrei essere)

 

di Armando Polito

*Vorrei essere come lui                                                        * Forse è per questo che ci vogliamo bene

Provate a digitare in qualsiasi motore di ricerca  Vorrei essere: comparirà una sfilza pressoché infinita (in rapporto alla possibilità umana di passarla tutta in rassegna) di indirizzi che vi condurranno a testi per lo più poetici o che presumono di esserlo. La locuzione appena indicata, come si può facilmente intuire, è un nesso ricorrente nella poesia d’amore di ogni tempo.  Proprio per questo, però, se non è supportato da un seguito all’altezza, il suo uso inflazionato ne decreta la vacuità poetica; e allora, come sempre, tutto dipende da quello che viene dopo, dalla sua capacità di vivificare e dare un senso nuovo al prima anche quando esso è banale. Che l’uso prevalente di questa locuzione si abbia nella poesia d’amore è intuitivo e non è un caso; essa, infatti, ingloba in sé due figure retoriche: l’adynaton1 e la similitudine, la prima preparata dal condizionale vorrei, la seconda dalla parola che di solito vien subito dopo la nostra locuzione, parola determinante, come ho detto prima, perché da essa dipende l’originalità e la profondità della poesia. Lascio al lettore formulare liberamente il suo giudizio su ciò che troverà in rete, ma non posso non proporgli almeno due elementi di confronto.

Il primo: Un’ape esser vorrei,/donna bella e crudele,/che sussurrando in voi suggesse il mèle;/e, non potendo il cor, potesse almeno/pungervi il bianco seno,/e ‘n sì dolce ferita/vendicata lasciar la propria vita. (Torquato Tasso, Rime, IV, 499).

Il secondo è una poesia in dialetto neretino di Francesco Castrignanò con cui ho dato il titolo a questo post, tratta, come le altre precedentemente lette, dalla raccolta Cose nosce del 1909.

Mi piace immaginarla come una dichiarazione d’amore piuttosto improbabile, nel senso che difficilmente a quell’epoca l’innamorato “medio” poteva essere in grado di scrivere quattro parole, sia pure in dialetto; e di solito, con i matrimoni combinati, era un altro a fare per lui la dichiarazione, e, come se non bastasse, non alla donna dei suoi sogni ma il più delle volte, in dipendenza anche dall’aspetto fisico, dei suoi incubi …

Scrivere qualcosa in versi sia pure un po’ sgangherati, poi, sarebbe stato, sempre per lui, impossibile.

Per chi, invece, pur non analfabeta, avesse voluto fare un figurone, sia pure in prosa, c’era sempre il segretario galante, cioè una raccolta di lettere d’amore buona per ogni evenienza. Quello dei segretari galanti fu un vero e proprio businnes che, iniziato alla fine dell’Ottocento, continuerà fino alla fine degli anni 70 del secolo scorso. Nel catalogo OPAC ho contato ben 93 titoli. Ne riporto di seguito tre opportunamente scaglionati nel tempo.

Non mancavano pure le edizioni, per dir così, specializzate, come mostra la sottostante pubblicità del 1963.

 

Non so quanto il numero elevato di pubblicazioni e l’analfabetismo dominante abbiano ridotto il rischio che la stessa donna ricevesse, magari, la stessa lettera trascritta da due pretendenti e che si verificasse, quindi, uno spettacolo molto simile a quello, eloquentissimo nella silenziosità degli sguardi, di due donne che incrociandosi (è proprio il caso di dire …) in una festa scoprono di indossare lo stesso vestito …

Oggi, mentre il principio del rispetto della privacy viene sbandierato ai quattro venti o conculcato a seconda di come al momento, soprattutto ai potenti, fa più comodo, è di moda fare dichiarazioni “pubbliche”, possibilmente in tv e l’esibizionismo sentimentale (magari anche di sentimenti finti …) è una delle espressioni fondamentali del nefasto quanto idiota bisogno, anche nella sgradevolezza …, di apparire piuttosto che di essere.

Mi auguro solo che almeno la poesia, sia pure tra alterne vicende, possa ritornare ad essere quel veicolo d’amore (inteso nel suo significato più globale) che è sempre stata, o almeno che di quell’amore, quel che sia, sia in grado di trasmettere l’essenza, proprio come il Castrignanò seppe fare interpretando, con la raffinatezza dell’arte mai violentatrice della sostanza e con l’aiuto complice del dialetto, il sentimento di quell’innamorato “medio”.

 

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1 Dal greco ἀδύνατον=cosa impossibile. Eccone un esempio: Prima divelte, in mar precipitando,/spente nell’imo strideran le stelle,/Che la memoria e il vostro/Amor trascorra o scemi (Giacomo Leopardi, All’Italia, vv. 121-124).

2 In traduzione piccola averla, seguendo l’indicazione data dallo stesso autore nel Dizionarietto neritino-italiano posto alla fine di Cose nosce. Il Rohlfs nel suo vocabolario registra, senza fornire alcuna proposta etimologica i seguenti lemmi:

pappagghiònica, pappagghiònula vedi papagghiònica.

papagghiònica1 (L 29 B 4, b, f, or) pappagghiòneca (B ce), pappagghiònica (S 1), pappagghiònula (B os), papagghiòneche (T 39), papajònica (B e), nome di un uccello, averla, velia.; vedi pajòneca.

papagghiònica2 (T sg), papagliònica (T 4) pianta delle labiate, ivartetica, camepizio, usata una volta contro la malaria.

papagghiuòneche (T ms) nome di un uccello, averla; (T ms) cretino, minchione.

papagghjinècculu (T 18-pu) pipistrello. Voce sbagliata: si legga parpagghjuèculu.

papagliònica (fica) (B 17-f) varietà di fico.

papajònica1 averla; vedi papagghiònica.

papajònica2 (T md) piccolo bottone nero.

pajòneca (L 6), pajònica (L na), pagghiòneca (L 6, 21, l), pagghiònica (S 1 B me), pagghiòneche (T 3), pagliònica (L 22) averla, paglionica (Lanius) [cfr. il calabrese pagliòneche idem]; vedi pappagghiònica.

Purtroppo l’esame delle varianti (o presunte tali) non aiuta e in particolare papagghiònica col suo doppio riferimento ornitologico e botanico. A tal proposito in G. A. Pasquale- G. Avellino, Flora medica della provincia di Napoli, Azzolino e compagno, Napoli, 1841, pag. 158 si legge: “Achillea a foglie di ligustico, it. Achillea ligustica, lat. Erba prota o troja, Paglionica in Puglia, Seme-santo Calab. …. Nasce in tutte le colline de’ dintorni di Napoli,e nelle siepi … Altre volte era tenuta da nostri botanici per l’Achillea nobilis ed è raccolta in luogo di questa per l’uso medicinale. È nervina: e Cotugno n’ha accreditato l’uso nelle diverse forme di affezioni nervose: viene adoperata nelle paralisi, dispepsie, cachessia, e nella iscuria della vescica ecc. Viene usata come eccellente antielmintico dal volgo: e noi sappiamo che in molte farmacie di Calabria si tiene questa pel Seme-santo vero. Se ne amministra il decotto delle cime. Ed il volgo prende un pizzico della semenza, e ne fa la polvere per darla a’ ragazzi in diverse guise, come nella pappa, nell’acqua stessa ecc.”

La paglionica di cui si parla qui è, filologicamente e non botanicamente parlando (visto che si tratta di due erbe diverse), la papagghiònica2 del Rohlfs. E papagghiònica2 sembra aver inglobato il concetto di pappa, sia pure con scempiamento di –p– come, probabilmente è successo pure per papàgna (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/28/tra-le-verdure-piu-gustate-dai-salentini-li-paparine/)?

E, se l’uccello in questione fosse ghiotto dei semi di paglionica, sarebbe poi così strano se proprio per questo dettaglio si chiamasse pappagghiònica?

Pura ipotesi di lavoro in attesa di conferma, resa ancor più problematica quando si ha a che fare con voci dialettali che molto spesso non hanno un riferimento univoco ma diverso a seconda della zone in cui sono usate.È il caso che segue.

In Enrico Hyllier Giglioli, Primo resoconto dei risultati della inchiesta ornitologica in Italia, Successori Le Monnier, Firenze, 1889 (scaricabile o consultabile all’indirizzo http://archive.org/details/avifaunaitalicae01ital) parte I, pag. 157 è registrata per Bari la voce paghionica identificata con la monachella (Saxicola albicollis Vieill. o Saxicola stapazina Salvad.).

Lo stesso autore nel Secondo resoconto dei risultati della inchiesta ornitologica in Italia, Stabilimento Tipografico S. Giuseppe, Firenze, 1907 (scaricabile o consultabile all’indirizzo http://archive.org/details/secondoresoconto00gigl), a pag. 267 registra i seguenti nomi: Paglionica (Napoli), Pagghionica grossa (Bari), Paglionica o Pagghionica passarina (Lecce), Parpaggionica (Otranto), tutti identificati nell’Averla cenerina (Lanius minor G. F. Gmel ex Buff.), nella foto in basso.

immagine tratta da http://www.ebnitalia.it/easyUp/Gallery/averla%20cenerina%20juv.jpg
immagine tratta da http://www.ebnitalia.it/easyUp/Gallery/averla%20cenerina%20juv.jpg

 

3 Per l’etimo vedi la nota 3 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/23/meglio-morire-zitella/

4 Dal latino receptu(m)=rifugio, da recìpere=accogliere (composto dal prefisso ripetitivo re– e da càpere=prendere): riggèttu, perciò, non ha nulla a che fare con l’italiano rigetto che è da reièctum=respinto, participio passato di reìcere, che è composto da re– e da ìàcere=gettare.

5 Da scirràre, che è dal latino exerrare=uscire fuori di strada (nel nostro caso dalla memoria), composto da ex=fuori ed errare=vagare.

 

 

 

La vita sociale a Galatina nell’immediato dopoguerra

Articolo tratto da “Cronache Galatinesi anni ’20-‘40”

La vita sociale a Galatina

nell’immediato dopoguerra

Uno spaccato di vita che in pochi ricordano e che è giusto consegnare ai giovani lettori

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

 

di Carlo Caggia

 

La vita sociale dei contadini si svolgeva (oltre che in Piazza San Pietro, la sera, per trovare “la giornata”) nelle cantine, con solenni bevute di vino e giochi di carte napoletane, tra cui primeggiava il cosiddetto “padrone”.

L’aria, in quei locali, era irrespirabile a causa del fumo acre delle sigarette fatte con cartine che avvolgevano un trinciato di tabacco non lavorato. I più… ricchi fumavano le “Popolari”, le “Indigena”, le “Milit” o addirittura le “Africa”, non certamente le “Serraglio”, le “Principe di Piemonte”, le “Macedonia” o le “Eva”, queste ultime leggerissime e riservate alle poche donne fumatrici del tempo.

Cantine rinomate erano “lu Mùscia”, “l’Ossu”, “lu Rasceddhra”, tutte situate nel centro storico.

Vi era poi una accorsata casa di tolleranza, “la Rosetta”, in Piazza Vecchia, mentre in veri e propri tuguri c’erano prostitute che operavano in proprio.

Artigiani e operai – il ceto medio in genere – avevano come punto di riferimento il Bar Sammartino in Piazza San Pietro; il Bar Càfaro in Via Pietro Siciliani e il Gran Caffè di Gino Sabella, all’inizio di Via Stazione, (o meglio di Corso Re d’Italia – ndr), luogo di ritrovo tradizionale per studenti e professori, data la contiguità con il Liceo Classico “Colonna”.

Il ceto medio-alto conveniva nel Circolo “Savoia” o “Cittadino” o “dei Signori”, di fronte alla Torre dell’Orologio (attualmente è la sede del Corpo di Polizia Urbana – ndr). Essere ammessi a quel circolo, nella mentalità piccolo-borghese del tempo, aveva valenza di una investitura e di promozione del proprio status-symbol.

Nell’immediato dopoguerra, quando le lauree cominciarono a diffondersi tra i figli degli operai, la corsa all’ammissione al Circolo era vissuta dagli aspiranti con veri e propri patemi d’animo. Il vecchio notabilato guardava sempre con sufficienza e con fastidio a questi parvenus.

Il Carnevale era molto sentito sia come tradizione galatinese (le sfilate alla “Via dell’Orologio” – con lancio di “candellini” (sic) – erano state sempre affollatissime) sia come senso di liberazione dopo i tristi anni della guerra, della fame, dell’autarchia, dell’oscuramento e del coprifuoco.

Ne nacquero in gran quantità. Si ballava nel Teatro Tartaro e nella Sala Lillo[1] ma anche nella Camera del Lavoro, nella Società Operaia, in locali improvvisati (Gallo Rosso, Sirenetta, Sala Azzurra[2]…). Le feste più esclusive erano quelle che si svolgevano nel Circolo dei Signori, con il selezionato pubblico delle famiglie dei soci. Il popolino (tabacchine, cameriere, sartine, contadine…) poteva accedere solo dopo mezzanotte e si stordiva per gli stucchi dorati, i grandi specchi, gli sfavillanti lampadari di Murano.

Riprende anche la vita culturale. In questo periodo vedono la luce un periodico – “La voce di Galatina” – diretto dal prof. Giuseppe Virgilio, nonché due valide riviste culturali, “Antico e Nuovo”, diretto dal prof. Enzo Esposito, e il “Saggiatore”, diretto dal poeta Giuseppe Lucio Notaro.

Sugli schermi del cine-teatro Tartaro e della Sala Lillo si proiettano film prevalentemente americani, con attori come Paul Muni (Uragano all’alba); Lucille Ball e George Murphy (Marinai allegri); Mirna Loy e William Powell (Ti amo ancora); Glend Miller (Serenata a Vallechiara). Le attrici italiane che vanno per la maggiore sono Alida Valli e Clara Calamai.

La famigliare “Gazzetta del Mezzogiorno” fa la pubblicità al “Citrato Espresso San Pellegrino”, alla “Lotteria dei Milioni” (primo premio 25 milioni), alla C.I.T. (pullman per Roma, Napoli, Milano), al ricostituente “Ischirogeno”, alle caldaie “Breda”, all’”Idrolitina”, all’”Amarena Fabbri”, al “Rabarbaro Zucca”.

In cronaca, quotidiani rastrellamenti di “segnorine” (sic) e relativa pubblicazione dei nomi, nonché frantoi e mulini per violazione delle leggi annonarie.

 

 

pubblicato su Il Filo di Aracne

[1] Notizia storica – Ai giovani lettori si fa presente che la Sala Lillo era ubicata al piano terra di Palazzo Orsini, esattamente dove oggi si tengono i consigli comunali.

[2] Notizia storica – Si ignora l’ubicazione delle rispettive sedi.

Cantine sociali? C’era chi più di cento anni fa a Nardò aveva le idee molto chiare.

di Armando Polito

La genialità che gli altri popoli, per quanto a denti stretti (la Merkel, poi, non apre mai bocca per non mostrare neppure quelli), ci riconoscono rappresenta la nostra salvezza ma anche la nostra perdizione. La genialità, infatti, suppone l’individualismo che, nella società globalizzata e nell’estrema parcellizzazione del sapere col conseguente frenetico sviluppo della specializzazione, non si trova a suo agio nell’adattarsi al lavoro di gruppo. Non bisogna, poi, scordarsi del binomio genio-sregolatezza; senza evocare i fumi dell’alcol o di altro o altro, va da sé che il genio per definizione è (e deve essere) sregolato, sia pure nel significato più nobile del termine: senza regole o, più vicino a quello etimologico, lontano dalle regole, da quelle “normali” ma rispettoso di un suo codice morale i cui principi fondamentali non confliggono con i valori che, sia pure solo teoricamente, sono alla base di quelle.

La nostra, scusate la figura etimologica, genetica genialità deve impegnarsi, perciò, ad adattarsi alle nuove sfide senza per questo rinunziare, sarebbe veramente la fine, alla sua creativa originalità. Certo, non è facile, paradossalmente proprio perché ai più fa comodo, ribaltare situazioni consolidate da secoli e liberarsi, per esempio, da quei sentimenti di fatalistica accettazione e rassegnazione che a lungo andare costruiscono il pericolosissimo alibi del vittimismo.

Qualcosa, per esempio, si è mosso in Puglia e nel Salento, in particolare nel settore enogastronomico, sicché oggi i prodotti della nostra terra possono competere tranquillamente con la concorrenza nazionale ed internazionale. In particolare per il vino da decenni, ormai, non siamo più i fornitori di quella materia prima con cui i produttori del resto d’Italia tagliavano, per rinforzarli, i loro deboli vini. Le cantine sociali prima hanno rappresentato un momento di aggregazione e di difesa dei piccoli produttori e singoli imprenditori coraggiosi poi hanno consentito il gran salto. Eppure già nel 1909, cioè quasi trent’anni prima che  fosse fondata la prima cantina sociale a Nardò, c’era , sempre a Nardò, chi si era posto problema e soluzione. E il bello è che costui non era né un agricoltore, né un economista, tanto meno un politico;  era un poeta:  Francesco Castrignanò. E chi sennò? Fa pure rima, ma cominciamo a fare bene i conti. La poesia che ci accingiamo a leggere ha come titolo La Madonna di li Turchi1, il nome di un’edicola (ma Topolino non è in vendita …) oggi periferica, ai tempi del Castrignanò alle porte di Nardò (altra rima …), sulla sinistra dell’incrocio per Leverano per chi viene da Avetrana.

 

 

Il lettore si chiederà che rapporto possa esserci mai tra la Madonna, i Turchi e la cantina sociale, anche se a poca distanza ne venne fondata una successivamente a quella prima ricordata.

Non voglio rovinare tutto anticipando quello che la poesia stessa ci guiderà a scoprire. Vanno dette, però, due cose: la prima è che la cappella venne probabilmente eretta (dopo il  1480, cioè dopo il saccheggio di Taranto, Gallipoli e Otranto?) a seguito di qualche incursione e non necessariamente anche a seguito del rapimento da parte degli incursori di alcune ragazze (riferimento alla Vergine) neretine per rimpolpare (chiedo scusa per l’immagine spudoratamente maschilista …) qualche harem2; la seconda è che i poeti sono i re della metafora. Posso solo anticipare che la Madonna è incolpevole… e passo la parola alla poesia.

Si è compiuto un altro dei miracoli che solo la poesia può fare: riunire in un unico abbraccio il passato, il presente e anticipare il futuro che, nel frattempo, è diventato il nostro presente. Per quanto riguarda, di futuro, il nostro, dato il tema, vale comunque brindare ma intelligentemente (non avevo detto all’inizio che bisogna rimodellare la nostra genetica genialità?), cioè nella misura che consenta per un attimo di tollerare quest’infame presente, più che di dimenticarlo.

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1 Nella seconda edizione di Cose nosce (Leone, Nardò, 1968) è a pag. 11.

2 È questa l’opinione di Giovanni Siciliano in Influssi delle dominazioni sul dialetto di Nardò, in La Zagaglia, anno III, N. 10 (giugno 1961): Nel 1255 si affacciarono i saraceni e nel 1375 in qualche incursione anche i turchi in cerca di fanciulle per il gineceo sultanino, tanto che sulla via per l’Avetrana fu eretta una edicola propiziatrice detta “Madonna dei turchi”. Purtroppo per il 1375 l’autore non cita la fonte.

Non è un caso, poi, che si chiama via Madonna di Costantinopoli quella opposta alla via che porta a Leverano (via Due aie).

3 Vedi

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/25/riflessioni-sulletimologia-di-arneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/23/le-macchie-darneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/15/il-paesaggio-dellarneo-attraverso-i-segni-e-i-luoghi-dellacqua/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/13/le-amarene-dellarneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/04/calcare-e-calcinari-nellarneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/06/04/arneo-la-maremma-della-puglia/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/06/arneotrek-cronaca-di-unescursione-guidata/

4 Per l’etimo vedi la nota 29 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/28/lunes-dla-marenda-e-pascaredda-torino-chiama-nardo-risponde/

5 Corrisponde all’italiano appesi. Per l’etimo di ‘mpisu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/11/mpisu-un-participio-passato-attualissimo/

6 Due testimonianze antiche sulla vocazione agricola di Nardò:

Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Giaccarelli, Bologna, 1550, pag. 214: …la città di Nardo molt’antica, da Tolomeo detta Neritum, la quale è molto civile, ricca & di popolo ben piena. Tiene un bello vago, & abondante territorio, ornato d’aranzi, limoni et di grande selve d’olivi, & di belle vigne.

Antonio De Ferrariis (Galateo), De situ Japygiae, Perna, Basilea, 1558, pagg. 112-113: Haec urbs in apricis campis aquarum minime indigentibus iacet. Caelum habet saluberrimum, & solum circa urbem non madidum, sed laetum & pingue, & olerum, & frugum supra sidera feracissimum: cunctarum rerum quas terra gignit, satis proveniens (Questa città [Nardò] giace in soleggiati niente affatto poveri di acque. Ha un clima molto salutare e il terreno attorno ad essa non umido ma fertile e grasso e fecondissimo di verdure e di frutti al di là delle stagioni: abbastanza fornito di tutto ciò che la terra fa nascere).

7 Corrisponde all’italiano accattare=chiedere in elemosina, dal latino ad+captare=prendere, intensivo di càpere; la corrispondenza, però, è di natura formale perché qui i ruoli risultano invertiti e il percettore dell’elemosina è il povero venditore di uva …

8 In senso traslato a poco prezzo. Il grano ai tempi del Castrignanò non era più in circolazione da un pezzo. Anche oggi il femminile grana (dal latino grana, neutro plurale di granum=grano) è usato come sinonimo generico di soldi.

9 Pure qui il Catrignanò sembra precorrere i tempi: camorra, ndrangheta e mafia non sono più prerogativa del sud ma nord e centro sembrano aver superato il maestro …

10 Il Rohlfs non propone nessun etimo; secondo me è da s-(dal latino ex)+carza=parte bassa della guancia o alta del collo; carza, sempre nel dialetto salentinoè anche la branchia del pesce e la voce ha dato vita al verbo in uso riflessivo scarzare (sta mmi scarzu=mi sto sgolando). In scarzare la s– (sempre dal latino ex) ha un valore chiaramente privativo (=mi sto privando della gola, della voce); credo che questo valore (l’altro sarebbe quello intensivo, ma è da escludere) valga, sia pur in forma più ridotta, per scarzone (il ceffone non è che faccia scomparire la guancia ma, comunque, la danneggia e, se dato con troppa energia, potrebbe pure compromettere la funzionalità della mascella …).

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