Ti mando a Cocùmola!

di Pietro Barrecchia e Armando Polito

Ogni frase interiettiva può esprimere ammirazione (che bello!), disprezzo (che brutto!), disappunto (oh, no!), augurio (stammi bene!) o minaccia (ti faccio vedere io!). Appare evidente che quella del titolo contiene una minaccia, anche se definirne i contorni non è facile. C’è un riferimento all’isolamento e all’arretratezza in cui probabilmente il centro si trovava quando il detto nacque o c’è dell’altro?

È doveroso a questo punto lasciare in sospeso (e lo resterà fino alla fine …) quest’interrogativo  e informare l’ignaro lettore che a Pietro Barrecchia non sono dovute solo le splendide (lo dice Armando Polito) foto ma anche, in fondo, buona parte del testo appena passabile (lo dice sempre Armando) che da quelle, da Pietro condivise, ad Armando è stato ispirato.

 

Ora, però, per pura comodità formale da qui in poi Armando parlerà in prima persona (si salvi chi può!).

Un po’ per aiutarmi, un po’ perché ormai per deformazione exprofessionale e per consolidata struttura mentale diversamente non so fare, comincio dal toponimo. Esso fa venire in mente in primo luogo cùcuma (corrispondente, ma solo formalmente, all’italiano cùccuma) di cui potrebbe essere diminutivo. Cùcuma deriva dal latino cùcuma(m)  attestato in Petronio (I secolo d. C:) col significato di paiolo1 e in Marziale (I-II secolo d. C.) con quello di vaso da notte2.  Addirittura la variante cùccuma trova un ruolo da protagonista come arma impropria nel Digesto di Giustiniano: Il divino Adriano ha ribadito  che colui che ha ucciso un uomo, se non l’ha fatto con l’intenzione di uccidere, possa essere assolto e chi non ha ucciso un uomo ma l’abbia ferito con l’intenzione di uccidere debba essere condannato come se fosse un omicida. Da ciò deriva che se ha impugnato una spada e ha  sferrato un colpo lo ha fatto indubbiamente con l’intenzione di uccidere; ma se ha sferrato un colpo con una clava o con un paiolo nel corso di una rissa, sebbene abbia colpito con un ferro (qui evidentemente non si parla della clava di legno ma di ferro e del paiolo non di creta ma di rame o ferro) tuttavia l’ha fatto senza intenzione di uccidere e perciò dev’essere alleggerita la pena di colui che nel corso di una rissa più per caso che per volontà ha commesso un omicidio3.     

Cùcuma, a sua volta, è derivato dal verbo còquere=cucinare. La cùcuma  era in molti centri del Salento  un vaso di creta di forma cilindrica utilizzato per riporvi lo strutto, mentre a Galatina (e pure a Nardò) era la cioccolatiera o il recipiente di latta con cui si serviva il caffè. Nella stessa opera di Petronio un po’ più avanti rispetto al brano prima ricordato è attestato proprio un diminutivo cucùmula4.

Tutto chiaro (nel senso che il toponimo sarebbe legato alla produzione fittile o ad una vocazione culinaria)?

Magari! La variante Cucùmmula  usata a Poggiardo (c’è anche la forma dissimilata Cucùmbula  a Minervino) mi fa pensare al toscano cuccumella, nome del tumulo funerario etrusco per somiglianza di forma con il recipiente (in alcune ricostruzioni ha la forma di un imbuto capovolto).  Se è così ci potrebbe essere un’allusione generica alla relativa altitudine (105 m. sul livello del mare) oppure un più specifico collegamento con i dolmen ed i menhir o con i silos messapici a forma di imbuto capovolto esistenti.

 

E, infine, se Cocumola fosse legato, sempre in riferimento al deposito di grano e con raddoppiamento (espressivo?), al latino cùmulus=cumulo?

Lascio il dubbio ai filologi di professione e chiudo con un componimento di Vittorio Bodini tratto da La luna dei Borboni (Edizioni della Meridiana, Milano 1952 e 1987; in basso a destra l’edizione Besa, Nardò, 2006), in cui la prima ipotesi trova la sua celebrazione con quella profondità di cui solo la poesia è capace.

 

 

 

 

Il continuo alternarsi di elementi caratterizzanti non direttamente umani (paese, farina, portoncino, tabacco, pentole, brodo) e di altri che evocano la presenza dell’uomo (mani, uomini, donne) esprimono mirabilmente la compenetrazione tra i due mondi. E tra i verbi (a parte lo splendido isolamento nel secondo verso di è, che senza distrazioni anticipa la profondità dell’essere) spicca il neologismo cocumola, una terza persona singolare del presente indicativo di un cocumolare  creato là per là a condensare in un’unica radice un’identità unica ed irripetibile, insomma la figura del correlativo oggettivo tanto cara a Montale ma originale nella genesi del verbo dal toponimo e nella conseguente e consequenziale trasposizione-confusione.

 

 

 

Forse non sapremo mai l’origine dell’espressione del titolo, ma se io fossi un cocumolese non me la prenderei assolutamente e non solo perché, come diceva Oscar Wilde, bene o male, purché se ne parli. Se fossi, invece, una cocumolese rimpiangerei di non poter chiedere a Bodini che intendesse dire con quel pennute che lì per lì non ricorda solo le galline (vedi il brodo successivo) ma pure l’ipertricosi, anche se donna baffuta è sempre piaciuta e anche se donne pennute dovesse essere un sinonimo di bigotte, insomma un ricalco del montaliano (Le occasioni, Elegia di Pico Farnese, v. 33) donne barbute, più avanti nella stessa poesia nere cantafavole.

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1 Satyricon, CXXXV, 4: … cucumam ingentem foco adposuit … (mise sul fuoco un gran paiolo …).

2 Epigrammata, X, 79, 3-4: Torquatus nitidas  vario de marmore thermas exstruxit, cucumam fecit Otacilius  (Torquato ha realizzato  uno splendido bagno pubblico di marmo varipinto, Otacilio un vaso da notte).

Digesta seu pandectae  Iustiniani Augusti, 48, 8, 1: Divus Hadrianus rescripsit eum qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneraverit, ut occidat, pro homicida damnandum; et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse; sed si clavi percussit aut cuccuma in riza, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo leniendam  poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit.

4 Op. cit., CXXXVI, 2: Frangitur ergo cervix cucumulae … (Si rompe dunque la parte superiore del paioletto …).

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