L’agnomen, il soprannome, ovvero la ‘ngiuria nel Salento

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di Piero Vinsper

 

Per risalire all’origine del soprannome bisogna andare indietro nel tempo. Nell’antica Roma i cittadini liberi perlopiù avevano il praenomen, il nomen e il cognomen.

Il praenomen corrispondeva, per così dire, al nostro nome di battesimo; il nomen indicava la gens, complesso di più famiglie, legate tra loro da comunanza di nome, origine, costumanze (specialmente religiose); il cognomen indicava la famiglia.

Le donne, invece, erano indicate solamente con il nome della gens: Julia, Cornelia, Caecilia, Octavia. Frequentemente era fra i Romani l’uso dell’adozione; colui che era adottato prendeva il nome dal padre adottivo, ma vi aggiungeva, trasformandolo in aggettivo terminante in anus, il nome della gens dalla quale proveniva. Così Ottavio, colui che sarebbe diventato il primo imperatore di Roma con il titolo di Augustus, essendo adottato da Gaio Giulio Cesare, si chiamò Gaius Julius Caesar Octavianus.

Però spesso accadeva che, al praenomen, nomen e cognomen, vi si aggiungeva l’agnomen, il soprannome, ovvero sia la ‘ngiuria. Così abbiamo Quintus Fabius Maximus Allobrogicus: Allobrogico per la vittoria riportata sugli Allobrogi nel 121 a.C.; Quintus Fabius Maximus Vernucosus Cunctator: Vernucoso perché aveva un’escrescenza carnosa sulle labbra, Temporeggiatore per la tattica usata in battaglia contro il nemico; Publius Cornelius Scipio Africanus: Africano per aver sbaragliato l’esercito dei Cartaginesi, comandato da Annibale, a Naraggara, presso Zama, ponendo fine alla seconda guerra punica; Publius Cornelius Scipio Nasica Serapion: Nasica, nasuto, dal naso sottile e adunco; Serapione, perché governatore dell’isola di Cipro.

Questi pochi esempi, ce ne stanno moltissimi, ci fanno capire come siano nati i soprannomi. L’agnomen è occasionale; nasce, presso il popolo, spontaneo e con arguzia; basta un semplice motivo, un atteggiamento diverso dall’uso comune, il non pronunciare bene una parola, l’avere una deformazione fisica, l’esercitare un mestiere, il coltivare alcuni determinati prodotti della terra, il proporsi in modo imperioso, il mostrarsi in maniera eccentrica e via di seguito.

Però spesso succede che certi cognomi, rispetto ad altri, siano predominanti, ed è difficile individuare la persona e quindi si ricorre alla ‘ngiuria.

Prendiamo a esempio i cognomi Congedo e Tundo.

Di Congedoabbiamo i Barchi, i Cacaove, i Fuggeddhra, gli Ùrsula, ‘u Purpetta, i Panta, i Parà, i Tatài, ‘u Sciancatu, i Minnella, i Runzettu, gli Scalureddhra, gli ‘Ndurroddhru.

Dei Tundo abbiamo: Piruzzu, Saresci, Cerasa, Rre, Turinu, Lasi, Pìchenu, Stortu, Cicchieddhri, Turicchiu, Lardu, Runzone.

E noi dal soprannome possiamo individuare, in maniera molto più sicura, le persone o la famiglia che hanno questo cognome.

Vero è che la ‘ngiuria sta quasi scomparendo, però ho potuto constatare personalmente che i giovani d’oggi hanno l’abitudine di chiamarsi per soprannome e questo mi torna a conforto, perché, consciamente o inconsciamente, mantengono in vita certe tradizioni popolari.

D’altra parte la ‘ngiuria non è da considerarsi come un termine spregiativo, anzi ci arricchisce di un bagaglio culturale, che ci apre una finestra di fronte a una realtà a volte nuda e cruda, ma spesso vera.

Ci sono soprannomi che si riferiscono ad animali: musu de paducchiu, paparotti, passaricchiu, pecureddhra, macacu, muscia, vorpe, miciu, vovana, ciola, caddhrineddhra, puddhrascia, taragnula, rèpule, sarda, cane rugnusu.

Altri ai numerali: thrìdici pili, tthre ccujiuni, tthre cculi, vintottu, tthre pidocchi, threnta carrini, vinticinquanni, tthre rane, tthre mazze, sette misi, thria, tthre nziddhre, quatthru rane, capidieci, threnta pili.

Spesso, come ho detto prima, i nomignoli richiamano dei difetti fisici: anca de giocculata, capiviancu, Cia zzoppa, Vata bbòmbana, manimuzza, picculinu, pappallollu, mbrìcate, nciarfetta, stortu, de le longhe, spinnatu, vàsciu, picozzu.

Le ‘ngiurie si rifanno a verdure, ortaggi e frutta: pastinaca, pasulu, padateddhra, tarece, don Sinapu, cucuzza, mmalavasia, cerasa, piricocu.

Però, quel che a me più interessa in questo contesto è analizzare i soprannomi che derivano dall’esercizio di arti e mestieri.

Chi esercitava un mestiere si portava dietro la croce del lavoro che svolgeva quotidianamente. Ed ecco le ‘ngiurie: pasteddhra, pescialuru, pethrujaru, peparussaru, portatavuti, pospararu, funaru, ‘mpajaseggie, mmulaforbici, vardaru, vindioju, vuttaru, sacristanu, scarparieddhru, settamattuni, caddararu, coppularu, casciaru, ccattabbindi, ccidiporci, cconzambrelli, cornularu, craparu, ferraru, fischiularu, fucaru, furnaru, fusaru, nuceddhraru, biccheraru, zzoccatore, quarnimentaru, nnettacumuni, cconzalimbi, giustacòfani.

Pasteddhra è il soprannome dato a una persona che spendeva la maggior parte della giornata a fare la pasta fatta in casa: maccheroni di grano, minchiarieddhri, maccheroncini con farina d’orzo e grano, e orecchiette. Vendeva questi prodotti a osterie e ristoranti o a persone che li richiedevano. Però lo spettacolo più interessante non era il vederla sfaccendare nel temperare la farina, ma guardare tutta una serie di compensati coperti da panni bianche di bucato e pieni di maccheroni e orecchiette, avvolti con tulle bianco, messi su una lunga balconata a essiccare, tanto da assomigliare a file di pannelli solari che, ohimè, deturpano da un po’ di tempo a questa parte il paesaggio del nostro Salento.

Chi andava in giro con la bicicletta, collegata dietro al portabagagli una latta di olio o di petrolio, era ‘u pethrujaru o lu viendioju. E ‘u pethrujaru per antonomasia era Cici Navone, esponente del PSIUP, quello, giusto per intenderci, che in un comizio elettorale se ne uscì con la frase “le breccioline che vanghino e venghino dalla via di Soleto”; uomo onesto e giusto che con la sua semplicità avrebbe voluto portare la classe operaia in Paradiso.

Ccidiporci, invece, è la ‘ngiuria data a una famiglia che possedeva delle botteghe idonee allo spaccio e alla vendita delle carni. Quelle sì che erano delle persone molto abili nel selezionare le parti delle carni, così come i Patutu, che sono stati bravi, scrupolosi e ottimi macellai.

Un discorso a parte merita Mesciu ‘Ntoni ferraru. Notaro di cognome, era molto esperto a ferrare i cavalli e a eseguire lavori in ferro battuto. Aveva, questi, un altro soprannome: fra giorni. Volete sapere perché? A chi gli chiedeva quando doveva passare a ritirare il lavoro ordinato, lui con una calma olimpica rispondeva sempre: fra giorni! E ciò ci riporta ai personaggi romani succitati che avevano anche doppio agnomen.

Pochi forse ricordano Mesciu ‘Ntoni vardaru e Mesciu ‘Esciu quarnimentaru. Dal mestiere esercitato avevano ereditato il soprannome. Per maggiore chiarezza espositiva devo aggiungere che c’è una bella differenza tra vardaru e quarnimentaru. Il primo è colui che fabbrica le selle, il secondo è chi, invece, s’interessa dei finimenti (briglie, cavezze ecc.) degli animali da soma.

Molti calcavano le piazze salentine durante i giorni di mercato per vendere i loro prodotti: ‘u coppularu, ‘u fusaru, ‘u fumaru, ‘u bicchieraru, ‘u fischiularu.

Caricavano tutte le loro mercanzie su lli sciarabba (chair à banc) e andavano a presentare i loro prodotti, coppole e cappelli, fusi, funi, zzuche, bicchieri, fìschiuli a possibili acquirenti.

Un tempo l’arte del fischiularu era fiorente a Galatina e procurava un sia pur lauto guadagno. Tu potevi osservare questi maestri lungo Via Luce, Via Gallipoli, Via Grotti a preparare i loro prodotti. A una estremità della via veniva situata una ruota; lungo la via, disteso per terra, il materiale che doveva essere intrecciato. Man mano che il maestro, indietreggiando, intrecciava le corde, l’operaio addetto alla ruota la faceva girare in modo che la corda, lu ‘nzartu, la zzuca, venisse raccolta con la dovuta torsione. Di qui nacque il vecchio adagio “Ve de retu a rretu comu lu Zzuccaru”. Anzi a noi bambini, che non ci comportavamo, a volte, bene, poiché avevamo commesso qualche marachella o che non avevamo voglia di studiare, i nostri genitori ci dicevano “Mo’ te mandu cu ggiri la rota de lu zzucaru”, che vuol significare “ti mando a fare un lavoro duro e dispendioso di forze per farti mettere giudizio”.

Caddararu era la ‘ngiuria appioppata a chi si occupava a riparare le pentole di rame: cazzalore, farsure, caddarotti e bbadelle varie. E questa persona sostituiva e aggiustava i manici sconnessi di questi utensili, batteva il rame se il recipiente presentava qualche gobba. Però la cosa più difficile era quando il recipiente presentava qualche foro. Allora subentrava la maestria de lu caddararu. Prendeva prima una pallina di rame e la batteva con un martello sino a renderla in una lamella molto sottile. Poi, resa incandescente su una forgia la parte da riparare, vi applicava quella lamella di rame e la batteva con tanta forza sino a che non si amalgamava il tutto otturando i buchi. Per rendere l’idea era come se si applicasse a una camera d’aria di gomma, forata, una pezza tip top. E da questo lavoro è scaturito presso il popolo il modo di dire: “Batti culettu ca la rame è ddoppia”.

Uno che volesse affilare forbici e coltelli si affidava allu mmulaforbici, che esercitava la “professione” in Via Cavazza, qui a Galatina, sull’entrata posteriore di Palazzo Tondi-Vignola di Via Garibaldi, laddove c’è una rientranza, rispetto alla via, di circa un metro e mezzo. Qui adagiava il suo “trabiccolo”, ossia la sua “macchina da lavoro”, consistente in una specie di scanno in legno a forma di tronco di piramide, alla cui destra era fissata una ruota, che, tramite una cinghia collegata agli ingranaggi di una piccola mola, premendo con il piede su di un pedale di legno posto alla base dello scanno, girava mettendo in movimento la mola. Sulla mola pendeva, a debita distanza, una minuta lattina di rame piena d’acqua, che, a seconda delle circostanze, gocciolava da un beccuccio sulla mola diminuendo così l’attrito con gli oggetti che dovevano essere affilati.

Un’altra figura caratteristica era quella persona che aveva il nomignolo di cconzambrelli. Andare in giro per il paese prestando la sua opera ad aggiustare gli ombrelli. Non si era ancora arrivati all’epoca dell’usa e getta e acquistare, allora, un ombrello nuovo significava togliere un pezzo di pane dalla bocca dei propri figli. I ferri del mestiere erano pochi: una tenaglia, una pinza, dei pezzi di ferro filato, alcuni raggi di cerchi di bicicletta, un martello, una forbice, tutti ben riposti in un piccolo contenitore di legno a forma di parallelepipedo che veniva portato a tracolla tramite una cinghia. Era un mestiere povero, che aiutava, in certi frangenti a sbarcare il lunario.

Ci sono poi delle ‘ngiurie di origine prettamente greca, come di derivazione greca sono molti cognomi galatinesi. A tempo debito ne parleremo; ora ne citerò un paio proprio per stuzzicare la curiosità di voi lettore: Nnai (gr. nai, sì) e Criu (gr. cryos, freddo).

 

Sull’argomento si veda anche, dello stesso Autore:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/23/cognomi-e-soprannomi-di-origine-greca/

 

 

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