Il diserbante del cuore

di Armando Polito

 

Al papavero avevo già dedicato un post in tre puntate1 e nel frattempo non mi sono certo stupidamente cullato nella folle idea che tutto fosse stato detto. Eccomi, infatti, tornare sull’argomento, stimolato da un recente contributo di Maria Grazia Presicce in cui questo fiore compariva come strumento di un antico gioco2. Di questo e del mio precedente lavoro il post odierno vuole essere la dovuta, mai definitiva, integrazione.

Teocrito (III secolo a. C.) condensa in tre versi la pena d’amore di un capraio per la bella Amarilli: Me ne sono accorto da poco tempo, quando a me, preoccupato di sapere se mi ami,/il telefilo3 schiacciato non scoppiò,/ma invano appassì nel (suo) morbido spessore.4

Neppure il ciclope Polifemo, la cui delicatezza nell’immaginario collettivo è paragonabile a quella di un elefante5, sembra sottrarsi al fascino di questo gioco, e il suo omaggio floreale in forma di accorato rimpianto all’amata Galatea sotto sotto nasconde, forse, la stessa intenzione di controllo del capraio precedente: Ahimè!, poiché mia madre mi ha generato senza branchie e non posso immergermi per baciarti la mano se non vuoi che ti baci le labbra; ti porterei o bianchi gigli o un tenero papavero che ha il platagonio rosso.6 Vedremo tra poco che cos’è questo platagonio.

Polluce (II secolo d. C.), Onomasticon, IX, 127: Gli innamorati e le innamorate giocavano al (gioco del) platagonio; così si chiamano infatti anche il sonaglio e il sistro con cui le balie addormentano col canto vincendo la resistenza al sonno dei bambini.  Ma, dopo aver messo sulle  prime due dita della (mano) sinistra poste in cerchio anche le foglie di quello che è chiamato telefilo, battendo  col palmo dell’altra mano, se la foglia squarciata dal  colpo produce un rumore sonoro, ritenevano che gli amanti si ricordassero reciprocamente.7

Ecco la definizione che del platagonio dà la Suda (enciclopedia in greco bizantino risalente al X secolo): Platagonio: niente (di particolare da dire).  Propriamente la foglia del papavero e quella dell’anemone. Da πλατάσσειν (leggi platàssein; significa far rumore), cioè ἠχεῖν (leggi echèin; significa echeggiare). Inesattamente (riferito) a ciò che ha πλάτος (leggi platos; significa ampiezza). Da qui (da πλατάσσειν) anche πλαταγή  (leggi plataghè; significa crotali, strumento per produrre strepito). Da esso interpretavano la passione degli innamorati ponendolo sul pollice e l’indice  e battendo contro. E se c’era rumore si amavano, altrimenti  era il contrario8.

Molto interessante, infine, è una glossa in volgare salentino (scritta però in caratteri greci, come la voce commentata) contenuta in un manoscritto9 risalente al XII secolo custodito nella biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze: πορφύρας κουλουρε δε σκιαττουλλα. La lettura è: porfiùras culure de schiattulla; porfiùras è la voce greca, genitivo di πορφύρα (leggi porfiùra)=porpora; culure de schiattulla è la definizione in dialetto salentino. Questo schiattulla non è altro che il padre di scàttuddha registrato col significato di fiore del papavero nel vocabolario del Rholfs con la sigla L29, corrispondente a Cose nosce, la raccolta di poesie pubblicata nel 1906 dal neretino Francesco Castrignanò, del quale ripetutamente mi sono già occupato. Infatti scàttuddha compare nel verso 17 di Forte nu ndore (la leggeremo quanto prima). Il verso in questione è un endecasillabo … di dodici sillabe, come vuole la metrica quando l’ultima sua parola è sdrucciola; e che scàttuddha sia sdrucciola lo ribadisce inequivocabilmente il fatto che il Castrignanò ha rappresentato il suo accento nel verso in questione ma anche nel vocabolarietto in appendice ove la voce è registrata col significato di papaverina. Ciò consente di dire che lo schiattulla del manoscritto fiorentino va letto schiàttulla. Lo conferma la variante scàttula registrata dal Rohlfs col significato traslato di gota rossa con la sigle L6 (Fernando Manno10, Dizionario del dialetto salentino leccese, rimasto inedito) e L17 (Giuseppe Costa, Vocabolario di nomi vernacoli per alcune piante e frutti col riscontro dei nomi scientifici, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1881). Lo schiàttulla del manoscritto ci consente inoltre di affermare che molto probabilmente scàttuddha e scàttula furono voci effettivamente in uso fino ai primi decenni del secolo scorso, già obsolete, però, al tempo in cui il Rohlfs dava corpo alla sua opera.

Schiàttulla e i più recenti scàttula e scàttuddha sono perfettamente in linea, semanticamente parlando, con l’etimo che la Suda propone, come abbiamo visto, per platagonio. Le tre voci derivano, infatti, da scattare=scoppiare, che ha il suo corrispondente nell’italiano schiattare, che è una voce di origine onomatopeica, forse da un latino *exclappitare, composto da ex (preposizione con valore intensivo) e da una forma verbale iniziale *clapetare dal latino medioevale clapetum=sonaglio. Connessi con scattare sono il frequentativo scattarisciare=scoppiettare, scattone=pollone, scattiddhu=colpo dato con l’indice fatto scorrere sul pollice e scattalora=gioco consistente nel gonfiare col fiato una busta e farla esplodere sbattendola contro una mano.

Di tanti derivati, dunque, scàttuddha, non è più in uso a Nardò; ma come non pensare che il suo ricordo, per quanto inconsapevole, non sia rimasto in scattùsu (anche lui, volutamente lasciato per ultimo, da scattare) che significa di colore rosso e, per traslato, vivo e, per ulteriore traslato, irritante, puntiglioso?

Quanto riportato nella parte iniziale conferma, nel caso ce ne fosse stato bisogno, la pratica, molto diffusa nel mondo antico, della fillomanzia, cioè della divinazione praticata per mezzo delle foglie ascoltando il loro stormire o osservando il fumo esalante dalla loro combustione. Qui l’applicazione della fillomanzia è limitata ai problemi d’amore, ma è questo il filo che unisce strettamente l’esperienza del passato con quella dell’antico gioco praticato da Lisa che, cito dal post che mi ha ispirato, staccava un petalo rosso, ne faceva un piccolo involucro e con forza lo batteva sul dorso della mano. Se lo schiocco repentino s’avvertiva, rivelava che il suo segreto si sarebbe avverato.

Forse non sarà la poesia a cambiare il mondo (o, forse, se non ci fosse stata, ora ci saremmo trovati in una situazione peggiore di quanto non sia quella che stiamo vivendo) e io non sono neppure un poetastro. Però, questo mio post non sarà stato inutile se qualche lettore particolarmente sensibile ci penserà su due volte prima di sterminare un campo (e non solo di papaveri, come quelli che compaiono nella foto di testa che scattai più di dieci anni fa; oggi la reperibilità del soggetto sarebbe, purtroppo, meno facile) con un diserbante (e non solo con quello, penso ai nostri ulivi-patriarchi …) che insieme con la vita cancella anche la storia e, inteso anche laicamente, l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Siccome, però, mi piace chiudere in bellezza, non potendolo fare di persona né letteralmente né metaforicamente, ricorro all’aiuto di Albino Pierro (1916-1995), il grande poeta lucano pluricandidato sfortunato al premio Nobel; e mi piace farlo, tra l’altro, per due ragioni: in primo luogo perché le parole che sto per citare sono parte della traduzione che egli stesso fece di una sua poesia11 in dialetto di Tursi e poi perché in esse l’autore, sfruttando in modo felicemente originale l’immagine antica, canta l’amata così: Ti ho vista in sogno stanotteavvampata e fresca come la foglia/dei papaveri12 da afferrare e far scoppiare. 

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/28/tra-le-verdure-piu-gustate-dai-salentini-li-paparine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/29/la-paparina-il-papavero/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/30/la-paparina-il-papavero-iii-parte/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/10/quellantico-gioco-con-il-papavero/

3 Da τῆλε (leggi tele)=lontano+φίλος (leggi filos)=caro, amato.

4 Idilli, III, 28-30: Ἔγνων πρἀν, ὀκ’ἔμοιγε μεμναμένῳ εἰ φιλέεις με/οὐδὲ τὸ τηλέφιλον ποτιμαξάμενον τι πλαταγῆσαν,/ ἀλλ’αὔτως ἀμαλῷ ποτὶ πάχει ἐξεμαράνθη.

5 Altra similitudine idiota inventata da noi umani, come se la delicatezza fosse inversamente proporzionale alle dimensioni. Sull’argomento in generale vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/19/strinculu-c-metafore-animalesche-o-idiozia-umana/

Idilli, XI, 54-57: ῎Ωμοι, οτ’οὐκ ἔτεκέν μ’ἁ μάτηρ βραγχι’ἔχοντα,/ὡς κατέδυν ποτὶ τὶν καὶ τὰν χέρα τευς ἐφίλασα,/αἰ μἠ τὸ στόμα λῇς, ἔφερον δέ τοι ἣ χρίνα λευκά/ἣ μάκων’ἁπαλὰν ἐρυθρὰ πλαταγώνι’ἔχοισαν.    

7 Onomasticon, IX, 127: Τὸ δὲ πλαταγώνιον οἱ ἐρῶντες ἢ αἱ ἐροῦσαι ἔπαιζον· καλεῖται μὲν γὰρ οὕτω καὶ τὸ κρόταλον καὶ τὸ σεῖστρον, ᾧ καταβαυκαλῶσιν αἱ τίτθαι ψυχαγωγοῦσαι τὰ δυσυπνοῦντα τῶν παιδίων. Ἀλλὰ καὶ τὰ τοῦ τηλεφίλου καλουμένου φύλλα ἐπὶ τοὺς πρώτους δύο τῆς λαιᾶς δακτύλους εἰς κύκλον συμβληθέντας ἐπιθέντες, τῷ κοίλῳ τῆς ἑτέρας χειρὸς ἐπικρούσαντες, εἰ κτύπον ποιήσειεν εὔκροτον ὑποσχισθὲν τῇ πληγῇ τὸ φύλλον, μεμνῆσθαι τοὺς ἐρωμένους αὑτῶν ὑπελάμβανον.

8 Πλαταγώνιον· τὸ μηδέν. Κυρίως δὲ τὸ τῆς μήκωνος φύλλον, καὶ τὸ τῆς ἀνεμώνης. Ἀπό τοῦ πλατάσσειν, τουτέστινἠχεῑν. Καταχρηστικῶς δὲ ῴτινιοῦν πλάτος ἔχοντι. Ὄθεν καὶ ἠ πλαταγή. Ἐσημειοῦντο δὲ ἀπ’αὐτοῦ τὴν τῶν ἐρωμνέων στοργήν, τιθέντες ἐπί τε τοῦ ἀντίχειρος καὶ τοῦ λιχανοῦ καὶ ἀντικόπτοντες. Καὶ εἰ μὲν ἤχησεν, ἐστέργοντο· εἰ δὲ μή, τὸ ἀνάπαλιν.

9 Si tratta del palinsesto Plut. 57.36, f. 104v. Notizie sul manoscritto e testo del gruppo di glosse di cui fa parte la nostra in Daniele Arnesano, Davide Baldi, Una nota storica sull’assedio di Gallipoli, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n. 41, 2004, pp. 113-139.

10 Nato a San Cesario di Lecce nel 1906, pubblicò solo Secoli fra gli ulivi per i tipi di R. Pajano a Galatina nel 1958. Morì a Roma l’anno successivo.

11 Le sàpese cche facère? (fa parte della raccolta Nun c’è pizze di munne, Mondadori, Milano, 1992), vv. 1-12: T’agghie viste nsonne, stanotte,/avvampechète e frische com’’a frunne/d’i scattabbotte/Ma le sapèse che facère, mó?/L’ancappére belle belle, a chilla frunne,/e cch’i dìcete a tinàgghie ma cchiù pisue/d’’a vammèce,/ cchi na santa paciènze,/ duce duce li chiichère/come cchi ci fè nu pallunelle/ca po’, tutte na vote,/supr’u palme d’’a mène le scattére (T’ho vista in sogno, stanotte/avvampata e fresca come petalo di papavero. Ma lo sai che farei ora? Lo prenderei piano piano quel petalo/e con le dita a tenaglia ma più delicatamente [pisue corrisponde al neretino pèsule pèsule=penzoloni, sospeso] della bambagia/dolce dolce lo piegherei/come chi ci fece un palloncino/che poi tutt’a un tratto/sul palmo della mano fece scoppiare).

12 Scattabbotte nel testo originale nel dialetto di Tursi.

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3 Commenti a Il diserbante del cuore

  1. Come sempre dai completezza alle parole semplici con delle precisazioni che è sempre un piacere leggere e conoscere. La conoscenza e l’approfondimento della conoscenza dovrebbero essere il motore di ogni umana azione solo così anche il diserbante del cuore non avrebbe motivo di esistere!

    • Tentare di completare e ancor più complicare le cose semplici è molto facile; preferirei essere in grado di semplificare quelle complicate e incomplete …

  2. Se ben ricordo, a Giuggianello con la parola “scatalora” indicava il fiore del papavero ed il gioco che si faceva con i petali tra pollice ed indice chiusi ad anello. “lu scattune” indica la gemma, il pollone, di una pianta. “lu scattiddhu” indica un gesto che veniva fatto con l’indice poggiato sul pollice e che veniva proiettato a scatto sul padiglione auricolare a scopo scherzosamente molesto, ma anche si diceva “ne facimu nu scattiddhu” per indicare il boccone fatto di “scapece” con un pezzo di alice che, poggiato sull’ultima falange del pollice, veniva proiettato in bocca “dallu scapisciaru” che così poteva ripetere l’operazione senza il rischio di essersi contaminato sulle labbra dei clienti.

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