Taranto. Il cappellone di san Cataldo, capolavoro dell’arte barocca

di Angelo Diofano

Noti critici d’arte, tra cui Vittorio Sgarbi, sono concordi nel definire così il cappellone di san Cataldo, vero trionfo del barocco, situato a lato dell’altare principale del duomo di Taranto. È un vero trionfo di affreschi e di marmi policromi, con colori e immagini che s’inseguono e si fondono in un turbinio di emozioni.

Molti interrogativi permangono sulle tappe più importanti della sua storia. I primi passi per la realizzazione dell’opera furono mossi nel 1151 con l’arcivescovo Giraldo I che ordinò la costruzione, (nell’area dell’attuale vestibolo) di una cappella quale dignitosa sepoltura al corpo del Patrono. Nel 1598 mons. Vignati ne ideò la trasformazione, sollecitando l’autorizzazione di Clemente VIII e trasferendovi il sepolcro marmoreo rinvenuto ai tempi del Drogone.

Nel 1658 con l’arcivescovo Tommaso Caracciolo Rossi il cappellone iniziò ad avere il suo assetto definitivo così come siamo abituati a vederlo oggi. I lavori furono proseguiti nel 1665 dall’arcivescovo Tommaso de Sarria, con il contributo generoso di tutta la comunità. L’ultimo tocco, nel 1759 con l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli che fece realizzare l’artistico cancello di ottone.

Alla cappella vera e propria, di forma ellittica, si accede dal vestibolo quadrangolare, in un ambiente reso suggestivo da giochi di marmi verdi e gialli che si alternano alle belle volute bianche ad intarsio delle quattro porticine.

Le statue di san Giovanni Gualberto a destra e di san Giuseppe a sinistra sono opera dello scultore napoletano Giuseppe Sammartino. L’organo, collocato al piano superiore, è del 1790, opera di Michele Corrado, in sostituzione di quello più antico, realizzato dal leccese Francesco Giovannelli, distrutto in un incendio.

Nel cappellone attirano l’attenzione i coloratissimi marmi intarsiati alle pareti, fatti porre dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1576, probabilmente ricavati dalle rovine degli edifici classici, sparse in gran quantità nel sottosuolo. Lo sguardo poi si perde in alto, verso l’affresco della cupola, dove il vescovo irlandese è ritratto nella gloria dei santi. Neppure dopo l’ennesima visita è possibile abituarsi a tanta bellezza.

L’opera fu commissionata nel 1713 dall’arcivescovo Giovanni Battista Stella all’artista napoletano Paolo De Matteis, allievo di Luca Giordano, per un compenso di 4.500 ducati. Ne La gloria di san Cataldo (così s’intitola l’opera) il vescovo irlandese appare inginocchiato di fronte a Maria Santissima che lo invita ad accostarsi al trono di Dio; la scena è sovrastata dalla Santissima Trinità attorniata dagli angeli mentre in basso appare la folla dei santi, soprattutto francescani e domenicani, appoggiati su nuvole rocciose nell’atto di scalare la montagna dell’Empireo.

I sette affreschi del tamburo ritraggono, invece, gli episodi più importanti vita di san Cataldo. A partire da sinistra: la resurrezione di un operaio addetto ai lavori di scavo delle fondazioni di un tempio alla Vergine, finito sotto le macerie; il ritorno alla vita di un bambino in braccio alla madre; il cieco guarito all’atto del Battesimo; San Cataldo mentre prega sul sepolcro di Gerusalemme e che riceve l’ordine di recarsi a Taranto; il ritorno della voce a una pastorella muta mentre indica all’illustre pellegrino la strada per la città ionica; la liberazione di una fanciulla indemoniata mentre è in preghiera davanti alle spoglie mortali del santo. L’affresco di fronte all’altare mostra infine san Cataldo mentre predica al popolo tarantino.

Di pregevole fattura anche le dieci statue di marmo, collocate nel in apposite nicchie, di epoche e autori differenti. Da destra a partire dall’ingresso, raffigurano nell’ordine: san Marco, santa Teresa d’Avila, san Francesco d’Assisi, san Francesco di Paola, san Sebastiano, sant’Irene, san Domenico e san Filippo Neri. Ai due lati dell’immagine del Patrono appaiono i simulacri di san Pietro e di san Giovanni. Secondo una suggestiva ipotesi, ancora tutta da avvalorare, pare che questi ultimi due fossero di antica fattura greca (naturalmente in seguito adattati alla fede cristiana) e che rappresentassero rispettivamente Esculapio ed Ercole.

Visibile attraverso una grata marmorea e finestrelle laterali, la tomba del Santo è posta all’interno dell’altare marmoreo. Quest’ultimo fu realizzato nel 1676 da Giovanni Lombardelli, artista di Massa Carrara, impreziosito da madreperle e lapislazzuli. Alzato su tre gradini, ha struttura lineare caratterizzata da un decorativismo dei marmi ora finissimo nei ricami dei gradini del postergale e del paliotto, ora nervoso nelle ornamentazioni scultoree dei putti capialtare.

Le decorazioni marmoree, tutte policrome, hanno temi diversi; sui due pilastrini laterali vi sono gli stemmi, dai vivissimi colori arricchiti da inserti di madreperla, del capitolo e della città di Taranto, committenti dell’opera.

Sul ciborio lo stemma con le tre pignatte del vescovo Francesco Pignatelli, a testimonianza del suo intervento all’abbellimento della cappella avvenuto nel 1703.

Sovrastante l’altare, ecco la nicchia ove è posto l’argenteo simulacro di san Cataldo, il quarto nella storia di Taranto. Di una prima statua di san Cataldo si iniziò a parlare nel 1346 quando l’arcivescovo Ruggiero Capitignano-Taurisano, accogliendo le richieste della popolazione, volle realizzarla con l’argento del sarcofago, ove nel 1151 il suo successore, Giraldo I, volle riporre il corpo del Santo. Il prezioso metallo fu però insufficiente per un simulacro completo, tanto da costringere a ripiegare su un mezzo busto.

Per il completamento della statua si attese il 1465, anno in cui la città fu liberata dal flagello della peste. Il merito fu attribuito all’intercessione di san Cataldo, tanto che l’intera popolazione a gran voce chiese il completamento del simulacro. Il sindaco Troilo Protontino indisse perciò una sottoscrizione che ebbe l’effetto auspicato, con l’allungamento del mezzobusto. La statua fu rifatta ad altezza d’uomo (sette palmi) a spese della civica università con l’esazione del catasto e con il personale contributo dell’allora sindaco Troilo Protontino. Pareri contrastanti, nel tempo, accompagnarono l’esistenza di quella statua. La popolazione vi era affezionata in quanto realizzata con l’argento ricavato dal sarcofago che aveva toccato il corpo del Patrono. Inoltre il volto del Santo era di grande espressione, tanto che i devoti lo credettero finito per mano angelica. Altri però ritenevano l’opera dalle forme troppo rigide e stilizzate, in quanto proveniente da un mezzobusto. Senza contare che le ripetute riparazioni e le aggiunte in breve lo ridussero in condizioni davvero pietose.

Fu così che nel 1891 l’arcivescovo mons. Pietro Alfonso Jorio commissionò la nuova statua d’argento all’artista Vincenzo Catello dell’istituto Casanova di Napoli. L’artista completò il lavoro in appena sei mesi. Furono impiegati oltre 43 kg di argento, di cui 37 provenienti dalla vecchia immagine. La statua era smontabile per facilitare le operazioni di pulitura e lucidatura. Il simulacro giunse il 7 maggio del 1892 alla stazione ferroviaria di Taranto da dove, dopo la solenne benedizione, fu portato in grande processione fino alla cattedrale. L’opera piacque per la perfezione della lavorazione e l’espressione del viso.

Così descrivono le cronache dell’epoca: “L’argenteo simulacro di san Cataldo misura due metri in altezza: il patrono è in atto di camminare, con la destra benedicendo la città che gli è fedele, mentre con la sinistra stringe il pastorale… Indovinatissimi la posa e l’atteggiamento… Assai bello il panneggiamento della pianeta della stola, il merletto del piviale, il camice che sembra cesellato”. Gli occhi, poi, neri e lucenti da sembrar veri; questo grazie alla devozione di una nobildonna tarantina che in periodo più recente donò alla cattedrale due artistici e preziosi spilloni a testa nera (forse di onice) e con al centro una piccolissima pietra preziosa da far pensare a una pupilla. Un’opera, insomma, vanto dell’intera comunità ma destinata a durare non per molto.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre del 1983, mentre imperversava il maltempo, la statua fu rubata assieme a molti altri reperti (candelieri, calici, reliquiari ecc.). Qualche anno dopo, grazie alla soffiata di un recluso tarantino, gli autori del furto (quattro napoletani specializzati in furti nelle chiese) furono arrestati e condannati, ma della statua non fu possibile recuperare nulla in quanto fusa e ridotta in lingotti. Un’impresa davvero poco fruttuosa e per giunta finita male per i malfattori ma ancor più per la comunità, privata di uno dei suoi simboli più importanti.

L’attesa per una nuova statua, la terza della storia, non durò a lungo. Il 14 gennaio ’84 l’arcivescovo Guglielmo Motolese incaricò un apposito comitato presieduto dal priore del Carmine, Cosimo Solito, di provvedere in merito.

Fu contattato l’artista grottagliese Orazio Del Monaco, che approntò in breve il bozzetto in argilla. Valutate alcune proposte, si decise di realizzare il nuovo San Cataldo in ottone e di rivestirlo in argento (tranne testa, mani e braccia che furono interamente di quel metallo prezioso) donato dagli orafi tarantini (in tutto ben 35 kg). Finalmente l’opera fu completata. Il volto era quello felice del pastore che finalmente torna dal suo gregge dopo l’esilio. Molti però non furono d’accordo con quella scelta perché avrebbero preferito la copia conforme a quella derubata. Portata in un furgone a Palazzo del Governo, l’8 settembre del 1984 alla rotonda del lungomare la nuova statua fu ugualmente accolta da una gran folla festante; nella stessa sera si svolse quella processione a mare che non poté aver luogo nel maggio precedente. Ma tanti non si riuscivano a rassegnare, ostinandosi a fantasticare sul san Cataldo di Catello esposto nella residenza di qualche emiro amante delle opere d’arte e chissà un giorno da recuperare: tanto era anche il sogno dell’allora parroco della cattedrale mons. Michele Grottoli.

Ben presto si dovette fare i conti con l’eccessivo peso del manufatto. Le operazioni concernenti lo spostamento dalla nicchia in preparazione ai solenni festeggiamenti di maggio destavano parecchie preoccupazioni per l’incolumità sia degli addetti sia dei preziosi marmi dell’altare. Inoltre ci voleva la gru per le complicate e laboriose operazioni di imbarco e di sbarco sulla motonave per il giro dei due mari. Così dopo vent’anni dall’arrivo dell’opera di Del Monaco si cominciò a pensare a una nuova statua.

L’arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa accolse la proposta dell’arcidiacono mons. Nicola Di Comite che, agli inizi del 2001, dette il via all’operazione “Una goccia d’argento per la nuova statua di San Cataldo”, per la raccolta del prezioso metallo. I tarantini aderirono generosamente all’iniziativa, donando medagliette, catenine ed oggetti fra i più disparati. La realizzazione del simulacro fu affidata all’artista Virgilio Mortet, del laboratorio di Oriolo Romano (Viterbo).

Sue opere si trovano nei Musei Vaticani e in chiese, conventi e gallerie d’arte; per la cattedrale di Osimo eseguì un artistico sarcofago per custodire le reliquie di san Giuseppe da Copertino e una sua croce pettorale di ottima fattura fu donata a Giovanni Paolo II. A Mortet fu posta solo una condizione: che le sembianze della statua fossero, finalmente, quanto più possibile simili a quelle dell’opera di Catello. L’iniziativa ebbe buon fine. Così il 4 maggio del 2003 il nuovo san Cataldo (fuso in un unico pezzo) fu pronto e arrivò via mare alla banchina del castello aragonese. Tanta gente, affacciata su corso Due Mari, partecipò alla cerimonia. Ancor più massiccia fu l’affluenza di popolo alle successive processioni a mare e a terra, porgendo così il più caloroso benvenuto alla nuova effige del santo Patrono.

Una grande manifestazione di fede che continua a mantenersi inalterata ogni anno nei tradizionali festeggiamenti di maggio.

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