Mia madre e Orazio

di Armando Polito

Non è la parodia del famoso spot pubblicitario della Ferrero riassumibile nel titolo mai adottato di La contessa e Ambrogio in cui una contessa (anonima, una volta tanto!) si rivolge ammiccante al suo autista/maggiordomo (anche la nobiltà è costretta a risparmiare …)  con la frase Ambrogio, avrei voglia di qualcosa di buono. Si sarebbe trattato, oltretutto, di una parodia scomoda, se si pensa agli sviluppi hard che a suo tempo lo spot ebbe nell’immaginario collettivo (da qui il suo calcolato successo …).

fotogramma tratto dallo spot dell'epoca
fotogramma tratto dallo spot dell’epoca

 

Mia madre, Rosa,  non era contessa e, credo, nemmeno genericamente nobile anche se, essendo il suo cognome Giulio, ebbe una volta a sostenere di essere discendente dalla gens Iulia; a dire il vero sotto l’aspetto formale debbo precisare che lei, avendo solo la terza elementare (corrispondente, comunque, ad una maturità, autentica, di oggi) più semplicemente diceva di discendere da Giulio Cesare. Ancora oggi ricordo come, studente di ginnasio, le fornii la scheda del personaggio in questione: genocida e pure omosessuale.

All’epoca il secondo dettaglio era molto più vergognoso del primo, ma forse, a distanza di tanto tempo, nulla è cambiato, anche se, al posto del genocida talvolta è subentrato il ladro di stato, politico o no, che sempre genocida rimane se per soddisfare i suoi vizi impedisce, solo per fare un esempio, alla Sanità di essere efficiente; lo stesso vale, con una responsabilità solo apparentemente meno diretta e meno coinvolgente la sopravvivenza e la vita, per l’evasore fiscale, anche e soprattutto per il politico che lancia fulmini contro il fenomeno e poi si scopre che è detentore di qualche conto depositato nel solito paradiso ….

Nel frattempo, son tornato alla narrazione,  mio padre (ferroviere, con un diploma di maturità classica che oggi corrisponderebbe a tre lauree e ad altrettanti dottorati, sempre autentici, a parte la sua cultura generale senza confini) mi sorrideva compiaciuto.

Se qualcuno, perciò,  avesse ricordato, per caso o a bella posta, a mia madre Orazio, il poeta latino del I secolo a. C., lei avrebbe sicuramente detto: – Orazio? Non ricordo nessun parente con questo nome . Mio padre, invece, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di una lectio magistralis immensamente più profonda di tante, ridicole, dei nostri tempi.

frontespizio di un'edizione del XVI secolo di tutte le opere di Orazio
frontespizio di un’edizione del XVI secolo di tutte le opere di Orazio

 

Oggi (nel senso quasi etimologico del termine: da hoc die=in questo giorno) , perciò, mi meraviglio che mio padre (si chiamava Antonio, anzi, si chiama, in ossequio incondizionato al concetto foscoliano dell’immortalità, meglio della sopravvivenza alla morte, coincidente con il ricordo) non sia intervenuto a dire la sua in rapporto a quanto sto per dire.

Mia madre, ritorno a lei, si era inventato la locuzione signura scarciòppula (signora carciofo) per definire una donna scontrosa, che stava sempre sulle sue, difficile da trattare. I ricordi sono piuttosto vaghi e credo che all’origine la locuzione si riferisse solo a qualche rappresentante femminile della nostra famiglia o razza, successivamente estesa all’altrui razza, sempre ed esclusivamente umana …

Ho parlato prima della mia meraviglia per il mancato intervento di mio padre. Lascio alle mie figlie il compito di sputarmi in faccia perché solo dopo tanti decenni e per giunta dopo aver insegnato esclusivamente latino e greco nel ginnasio, per pura coincidenza con una recentissima ricerca sul carciofo e con l’ausilio del pc (mio padre ne aveva preconizzato le rivoluzionarie potenzialità …), son venuto a sapere (alla mia età!) che Cìnara era il nome, credo fittizio, di una donna amata e immortalata da Orazio: Di nuovo rinnovi, o Venere, le battaglie per lungo tempo interrotte? Risparmiami, ti prego, ti prego. Non sono quello che ero sotto il regno della buona Cinara.1; Gli dei hanno ascoltato, o Lice, i miei voti: diventi vecchia e tuttavia vuoi sembrare bella e giochi e bevi senza ritegno e ubriaca con un tremulo canto stimoli il lento desiderio. Esso veglia a cantare sulle belle gote della giovane e dotta Chia; infatti crudele sorvola le aride querce e ti evita perché ti deturpano i denti giallastri, le rughe e le nevi del capo (bella metafora per capelli bianchi). Né ti fanno andare indietro nel tempo  le porpore di Coo né le dilette pietre (preziose), quel tempo che una volta per tutte il giorno che vola ha chiuso seppellendoli nella nota storia. Dove è fuggita Venere, dove sono il suo [di Lice] colore e il movimento soave? Che hai di colei, di colei  che ispirava amore, che aveva rapito me a me stesso, dopo Cinara nota felice e bellezza di arti gradite?  Ma a Cinara il destino assegnò pochi anni, per conservare a lungo Lice pari alla vita di una vecchia cornacchia, affinché giovani ardenti no senza riso ti potessero guardare ridotta in cenere. 2; E ti avevo promesso che sarei stato in campagna cinque giorni; ti ho mentito e sono stato assente per tutto agosto. Ma se vuoi, o Mecenate,  che io viva sano e nel pieno delle forze, quanto concedi a me quando sono ammalato concedimelo ora che temo di ammalarmi, mentre il fico primaticcio e il caldo ornano l’ordinatore di pompe funebri di neri littori, mentre ogni padre ed ogni madre palpita per i figli, la preoccupazione per il lavoro e i magri guadagni del foro causano febbri e dissigillano testamenti. Quando l’inverno stenderà le nevi sui campi di Alba il tuo poeta scenderà al mare, si riguarderà e si ritirerà a leggere; ti rivedrà, dolce amico, insieme con gli zefiri e, se me lo permetterai, con la prima rondine. Tu mi hai reso ricco, non come l’ospite di Terra d’Otranto mi invita a nutrirmi delle sue pere: – Saziatene,  se vuoi! -; – Mi basta -; – Ma prendine quanto ne vuoi! -; – Grazie! -, – Porterai un regaluccio gradito ai bambini -; – Fa finta che abbia accettato il dono, come se me ne andassi carico -; – Come vuoi; oggi lascerai delle cose che darò da mangiare ai porci -. Il prodigo e sciocco dona ciò che disprezza ed odia. Questa semente produrrà ingrati ogni anno. L’uomo buono e sapiente dice di essere preparato alle persone degne e tuttavia non ignora quanto siano distanti le monete dai lupini; mi mostrerò degno davanti alla lode di chi lo merita. Se vuoi che io non mi allontani mai da te ridammi il forte corpo, i neri capelli sulla fronte bassa3, di poter parlare dolcemente, di ridere allegro e di piangere  la fuga della petulante Cinara nel bel mezzo di una bevuta4.

Ho ritenuto opportuno riportare i brani in un’estensione più ampia di quanto non avrebbe richiesto la sola enucleazione della sequenza contenente il nome e l’ho fatto per la loro estrema attualità, non escluso, per il penultimo, un maschilismo che ancora non accetta che una donna avanti negli anni abbia un rapporto con un giovane, mentre ritiene assolutamente normale il contrario. Ho volutamente usato la voce rapporto senza alcun attributo (come sessuale o affettivo) e lascio al lettore fare l’aggiunta che ritiene opportuna, nonché riflettere sugli interessi materiali che a mio avviso fanno, nel rapporto, del soggetto più debole (naturalmente è il più giovane) un mantenuto o una mantenuta.

L’ultimo, invece, non è certamente un inno alla tradizionale ospitalità della nostra gente,  e lo spocchioso Orazio forse si è meritato il trattamento riservatogli dal cafone meridionale, a parte le altre mie considerazioni che chi ha interesse può leggere, se non l’ha già fatto, nella nota 3.

Ritorno a mia madre ed alla sua espressione signura scarciòppula. Per quest’ultima voce, per carciofo e per Cinara rinvio ai posts

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/27/attenti-alla-rete/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/21/dalla-scalera-al-cynar-un-veloce-viaggio-nel-tempo-senza-escludere-il-ritorno-al-passato/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/29/certi-cardi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/30/certi-cardi-22/

Concludo sottolineando la certamente involontaria eco oraziana presente nella locuzione materna. Molto probabilmente Cinara5 era, se non un nome fittizio, un nomignolo (cognomen) che sottolineava felicemente la compresenza di un carattere esteriormente difficile, che il poeta, piantato in asso durante un banchetto, stigmatizza quando lei è ancora in vita (la fuga della petulante Cinara) e di un’intima bontà  che viene apprezzata solo dopo la morte precoce (a Cinara il destino assegnò pochi anni) con rimpianto della giovinezza di entrambi (non sono quello che ero sotto il regno della buona Cinara).  Insomma, il pungente e il tenero insieme, un ossimoro (figura retorica che per me è la sintetica definizione della nostra esistenza), proprio come nel carciofo e, forse, nella signura scarciòppula.

_____________

1 Carmina, IV, 1-4:  Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves? Parce precor, precor./Non sum qualis eram bonae/sub regno Cinarae …

2 Carmina, IV, XIII: Audivere, Lyce, di mea vota, di/audivere, Lyce: fis anus et tamen/vis formosa videri/ ludisque et bibis inpudens/et cantu tremulo pota Cupidinem/lentum sollicitas. Ille virentis et/doctae psallere Chiae/pulchris excubat in genis/importunus enim transvolat aridas/quercus et refugit te quia luridi/dentes, te quia rugae/turpant et capitis nives./Nec Coae referunt iam tibi purpurae/nec cari lapides tempora, quae semel/notis condita fastis/inclusit volucris dies. Quo fugit Venus, heu, quove color, decens/quo motus? quid habes illius, illius,/quae spirabat amores,/quae me surpuerat mihi,/felix post Cinaram notaque et artium/gratarum facies? Sed Cinarae brevis/annos fata dederunt,/servatura diu parem/cornicis vetulae temporibus Lycen,/possent ut iuvenes visere fervidi/multo non sine risu/dilapsam in cineres faciem.

3 Mi sarebbe fin troppo facile dire che Orazio, offeso dal cafone meridionale (e meno male che era nato, come si sa, a Venosa in Basilicata!) dopo, però, che lui stesso lo aveva offeso rifiutandone il dono (oltre al fatto, ancora più grave, che l’episodio, autentico o no, serve al poeta per esercitare il suo leccaculismo nei confronti di Mecenate e di Augusto e per sputare una sentenza), abbia indovinato l’autodiagnosi, anticipando in questo le teorie lombrosiane, che, però riguardavano il delinquente.  Non sarei, però, corretto, perché in passato la fronte bassa non era indizio di scarsa intelligenza (come oggi, secondo me altrettanto stupidamente, si associa, non a livello scientifico, all’idea di una fronte alta quella di una maggiore intelligenza), dunque, un difetto. Era, al contrario, un pregio. Lo dimostrano lo stesso Orazio (Carmina, I, 33, 5) con insignem tenui fronte Lycorida (l’insigne Licoride dalla piccola fronte) e Petronio (Satyricon, 126) con frons minima et quae radices capillorum retro flexerat (una fronte piccolissima e che aveva piegate all’indietro le radici dei capelli); in questa seconda testimonianza è ben evidente che l’acconciatura ha lo scopo di esaltare anziché mascherare il dettaglio fisico.

Poiché si è ritenuto, evidentemente sulla scorta di un perdurante pregiudizio, che fosse indegno di Orazio avere la fronte bassa, questo dettaglio è reso diversamente in parecchie traduzioni rinvenibili in rete:

1) la fronte chiusa da neri capelli in 4 (dopo la quarta, assolutamente identica alle prime tre, mi sono stancato a cercare …)

http://www.latin.it/autore/orazio/epistulae/!01!epistularum_liber_i/07.lat

http://professoressaorru.files.wordpress.com/2010/02/orazio_epistole.pdf

http://www.progettovidio.it/goto.asp?id=42

http://www.parlandosparlando.com/view.php/id_1026/lingua_0/whoisit_1

 2) la chioma bella, la fronte giovane in

http://www.rikimirandola.it/Letteratura_latina/Orazio_Testi.pdf

Nel primo caso c’è stato un primo terremoto nella funzione grammaticale e logica dei singoli componenti per cui la restituzione non ha riguardato i neri capelli, come nel testo originale, ma la fronte; per tradurre (?) il resto, poi, ad angusta, che è un aggettivo, è stato attribuito arbitrariamente il valore di participio passato (chiusa), il che, a cascata, ha portato a rendere con un complemento di causa efficiente (da neri capelli) ciò che nell’originale era in caso accusativo, cioè complemento oggetto. Naturalmente dal terremoto grammaticale non poteva fuori che un secondo terremoto, quello che distrugge tutto: il terremoto semantico o, se preferite, interpretativo.

Solo se non fossimo stati in possesso del canone di bellezza emerso dalle testimonianze riportate avremmo potuto accettare l’interpretazione appena respinta mettendo in campo quella figura retorica che si chiama ipallage, e che consiste nel riferire grammaticalmente e semanticamente un aggettivo  a un sostantivo del contesto diverso da quello a cui dovrebbe essere riferito: nel nostro caso angusta (stretta) non si sarebbe dovuto più riferire alla fronte ma ai capelli e avremmo dovuto pensare, in aggiunta, ad uno slittamento da un significato passivo (stretta) ad uno attivo (che stringono) in modo da ottenere l’immagine finale dei neri capelli che con la loro lunghezza cingono e nascondono in gran parte la fronte facendola sembrare bassa.

Per evitare, poi, di usare parole volgari lascio al lettore giudicare la traduzione del caso n. 2, in cui i capelli non sono più neri ma solo belli (nemmeno io, che prediligo le brune, sarei stato tentato di tradurre così …) e la fronte da bassa è diventata giovane (diamine!, non è vero che tutto cresce con l’età? E allora vuol dire che col passare del tempo la fronte da bassa diventa alta …, strano, perché io sapevo che, se si è sani, tutto cresce in proporzione.  Qui, a parte l’ironia, ci si è lasciati troppo condizionare, evidentemente, dall’equazione capelli neri e belli=giovane età.

4 Epistulae, I, 7, 1-29: Quinque dies tibi pollicitus me rure futurum,/Sextilem totum mendax desideror. Atqui/si me vivere vis sanum recteque valentem,/quam mihi das aegro, dabis aegrotare timenti,/Maecenas, veniam, dum ficus prima calorque/dissignatorem decorat lictoribus atris,/dum pueris omnis pater et matercula pallet/officiosaque sedulitas et opella forensis/adducit febris et testamenta resignat./Quodsi bruma nives Albanis inlinet agris,/ad mare descendet vates tuus et sibi parcet/contractusque leget; te, dulcis amice, reviset/cum Zephyris, si concedes, et hirundine prima./Non quo more piris vesci Calaber iubet hospes/tu me fecisti locupletem. «vescere, sodes.»/«iam satis est.» «at tu, quantum vis, tolle.» «benigne.»/«non invisa feres pueris munuscula parvis.»/«tam teneor dono, quam si dimittar onustus.»/«ut libet; haec porcis hodie comedenda relinques.»/Prodigus et stultus donat quae spernit et odit:/haec seges ingratos tulit et feret omnibus annis./Vir bonus et sapiens dignis ait esse paratus, nec tamen ignorat quid distent aera lupinis:/dignum praestabo me etiam pro laude merentis./Quodsi me noles usquam discedere, reddes/forte latus, nigros angusta fronte capillos,/reddes dulce loqui, reddes ridere decorum et/inter vina fugam Cinarae maerere protervae …

5 A beneficio di chi per pigrizia o per mancanza di tempo non fosse disponibile a visitare i links segnalati dico solo che cìnara o cýnara in latino è il nome di una specie non precisamente identificabile di cardo, che probabilmente è l’antenata del carciofo. Come nome proprio accanto al Cìnara di Orazio compare il maschile Cìnarus in una sola iscrizione sepolcrale rinvenuta a Reggio Calabria (AE 1990, 00213) e risalente al II secolo d. C.: M(ARCO) FABIO COLENDO / LIBRARIO NOTARIO/ VIXIT ANNIS XIX/ CINARUS PAEDAGOG(US) SIBI ET SUIS  (A Marco Fabio Colendo copista di libri. Visse 19 anni. Il pedagogo Cinaro a sé ed ai suoi). Poiché cìnara non è altro che la trascrizione del greco κυνάρα (leggi chiunàra), tanto la donna amata da Orazio (sempre che non sia una finzione poetica …) quanto il pedagogo molto probabilmente erano di origine greca.

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