Quando un’agenda vale come e più di un libro

di Armando Polito

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L’agenda (dal latino agenda, nominativo neutro plurale del gerundivo di àgere, alla lettera cose da fare) può essere considerata figlia del calendario perché nella sua veste più scarna rispetto ad esso presenta solo una data per ogni foglio e sullo stesso uno spazio bianco per annotare non solo impegni, anniversari, ricordi e rimpianti ma tutto ciò che è legato allo scorrere inesorabile del nostro tempo. In quel nostro non mi riconosco minimamente perché l’unica agenda da me utilizzata fu a suo tempo quella scolastica in cui annotavo solo i compiti assegnati per casa, tempi in cui i libri si portavano uniti da una cinghia elastica.

Passò qualche decennio e il consumismo rese bisogni insopprimibile lo zainetto e l’agenda firmati, pardon … griffati.  Quest’ultima prese il nome di diario, dal latino diàrium che in epoca classica (usato di solito al plurale diària) significava vitto giornaliero e in quella tarda passò  a significare registro giornaliero. Col tempo, poi, la voce diaria non subì un’evoluzione democratica, nel senso che, con riferimento esclusivo al significato assunto in epoca classica, c’è, per esempio, la diaria dell’insegnante, impegnato negli esami di stato (lo scrivo volontariamente con la s minuscola …), non sufficiente neppure a comprarsi un panino e quella del rappresentante del popolo che permette di comprarsi (?) non solo un piatto di ostriche ma tutta la pescheria …

Anche per il diario il potere ha segnato un crinale, perché, se esso riguarda tutta la collettività (cioè, se, in un certo senso, è un atto pubblico), si identifica in epoca antica nei fasti e negli annali e in epoca medioevale nelle cronache; se riguarda un singolo personaggio importante (ai nostri tempi, ma forse in tutti, può essere anche un delinquente importante …) si identifica nel memoriale. Poi c’è il diario del povero disgraziato, che ha speranza di assurgere (magari post mortem …) agli onori della cronaca solo se viene acquisito agli atti in un procedimento giudiziario.

Ma il potere, soprattutto quando sfocia nel delirio dell’onnipotenza, non ha mai il senso del ridicolo. Così, accanto al nos maiestatis (che spesso sancisce solo la moltiplicazione del tasso di idiozia …) mi piace ricordare l’esempio di Cesare che, com’è noto, nei suoi resoconti sulla guerra contro i Galli (Commentarii de bello Gallico) anziché la prima persona singolare (io Cesare diedi ordine di attaccare …) usa la terza (Cesare diede ordine di attaccare): in pratica si sentiva già consegnato alla storia,  a quella dei genocidi…  Se poi qualcuno mi dovesse obiettare che l’autore dell’opera probabilmente è Aulo Irzio, ricordo, a beneficio di chi non lo sapesse, che era il luogotenente di Cesare e che nella circostanza, se veramente è lui l’autore delle memorie, assolse allora alle funzioni oggi esercitate dall’addetto stampa che, pur dovendo districarsi tra carta stampata, comunicati ufficiali e profili sul web, resta sempre un leccaculo …

È meglio che ritorni all’agenda per dire che spesso essa assume il ruolo di specchietto per le allodole quando è un gadget: la parola alla lettera significa pezzo di un meccanismo, mai adatto come in questo caso, in quanto ingrediente indispensabile della pubblicità che, cosa arcinota e accettata ormai con rassegnazione, è l’anticamera del profitto, onesto e disonesto. Compagnie di assicurazione,  banche e associazioni sindacali in primis facevano a gara, quando le vacche erano grasse, a regalare (?) ai loro clienti o iscritti un’agenda, sempre che la scorta non fosse stata dilapidata prima dai soliti estranei ma raccomandati …

Nemmeno i quotidiani ancora oggi si sottraggono a questo espediente, ma, come è sempre più raro trovare in politica personaggi di alto profilo, così il più delle volte il gadget che accompagna, sovente con integrazione del prezzo della confezione base, questo o quel numero, non rivela un elevato spessore culturale.

Quando questo succede è particolarmente doveroso ricordarlo, anche perché, essendo passato tanto tempo, nessuno può tacciarmi di stare a fare pubblicità peggio di un piazzista, come oggi succede in rete anche con  pubblicazioni delle quali nemmeno la carta è all’altezza per assolvere funzioni igieniche di sorta …

Mi riferisco al Babbarabbà1, l’agenda allegata al Quotidiano per la prima volta nel 1990 in quattro fascicoli, la seconda in volume unico nel novembre 1991, la terza, sempre in volume unico, nel dicembre 1996 (a questa si riferisce la foto) a cura di Antonio Maglio2. La pubblicazione mantiene brillantemente tutte le promesse già formulate nel sottotitolo (I soprannomi paesani nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto tra storia e fantasia) fornendo una vera e propria miniera di dati ordinatamente esposti ed esaurientemente commentati in una veste tipografica accattivante nella sua ariosità. Non manca in ogni pagina un ampio spazio per le annotazioni giornaliere, anche se secondo me il testo che vi compare non merita certo la compagnia di locuzioni come comprare i fiammiferi e simili ma solo eventuali personali integrazioni alle varie schede: da Acquarica del Capo a Zollino sono 187 e a Lecce, Brindisi ,Taranto, Casarano, Castro, Fasano, Francavilla Fontana, Galatina, Gallipoli, Grottaglie, Maglie, Manduria, Martina Franca, Massafra, Mesagne, Monteroni, Nardò, Ostuni, Otranto, Porto Cesareo,  San Vito dei Normanni, Santa Cesarea Terme e Tricase è dedicata più di una pagina. A Nardò in particolare sono dedicate quattro facciate che riproduco di seguito.

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Il lettore, soprattutto quello neretino, riconoscerà l’edicola dell’Osanna prima del restauro e le Tre palme prima … che morissero. Nel testo si sottolinea come stranamente Nardò fa eccezione: non ha un epiteto con cui sono indicati i suoi abitanti. Sinceramente non credo che ci sia da vantarsi perché, per come la vedo io, la situazione potrebbe equivalere ad un anonimato che finisce per coincidere  con una labilità o, addirittura, assenza di solidale identità. Per fortuna i soprannomi individuali [da Anca ti jaddhina (Gamba di gallina) a Tacchi e minzetti (Tacchi e mezza suola)   ] sono 28 e sarebbe bello se qualche lettore più attempato di me, informato e supportato, se non sa usare il pc, da qualche nipote avvezzo alle nuove tecnologie ci offrisse a tal proposito i suoi ricordi, i suoi aneddoti e, perché no?, le sue identificazioni.

Un’iniziativa, dunque, quella del Babbarabbà, degna di elogio senza riserve, che non sarebbe male replicare ogni anno (basterebbe aggiornare il calendario) e alla quale tutti perdonerebbero volentieri anche l’integrazione del prezzo …

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1 È il nomignolo degli abitanti di Uggiano La Chiesa (LE), usato per stigmatizzare la loro presunta dabbenaggine. La voce è un’ingegnosa costruzione formata da babbàra, terza persona plurale del passato remoto di babbàre [stessa radice onomatopeica dell’italiano babbeo e, indietro nel tempo, dei latini bàbulus=fanfarone, baba (interiezione di approvazione e meraviglia) e dei greci βᾶ (leggi ba), βαβαί (leggi babài), interiezioni con lo stesso valore della corrispondente latina baba, e βάβαξ (leggi babax)=chiacchierone] e da per bah. Infatti, secondo una leggenda riportata nella scheda relativa alla cittadina, in un giorno di festa capitò a Uggiano La Chiesa un ciarlatano. Questi  si mise ad allestire nella piazza principale del paese una specie di baldacchino da cui, diceva, avrebbe pronunciato un comizio importante. Tutt’intorno, intanto, gli abitanti, spinti dalla curiosità, avevano fatto capannello e già prima che lo sconosciuto cominciasse a parlare, una grande folla si era radunata nei paraggi. Iniziò finalmente l’atteso comizio, ma l’improvvisato oratore, non sapendo di che parlare, cominciò con l’esclamazione propria di chi non sa cosa dire: “Bah”. Inaspettatamente seguì un applauso, per cui l’uomo, incoraggiato, ripetè nuovamente “bah” a cui il pubblico rispose con un altro applauso più fragoroso del primo. Per la terza volta il ciarlatano disse “bah”, e per la terza volta il battimano si ripetè.  Ci furono una quarta, una quinta e sesta volta, e sempre con applausi. Alla fine, rivolgendosi verso quell’ingenuo auditorio, l’uomo esclamò: “Ma allora qui siete dei babbarabbà”, e scappò via, lasciando tutti a bocca aperta.

Come faccio a non ricordare a tal proposito, e non solo per ragioni di assonanza, il quaquaraquà usato da Crozza (ma la voce, felicemente onomatopeica, aveva già avuto, come si sa, la sua consacrazione letteraria in Leonardo Sciascia) nella sua parodia di Bersani? Siamo veramente il paese delle meraviglie e, purtroppo, pure dei meravigliati …

2 Non fu l’unica geniale (qui il termine non è assolutamente sprecato, come troppo spesso avviene oggi …) iniziativa editoriale dell’aletino che fu il fondatore e il vicedirettore (sul vice non mi soffermo …) del giornale. Insieme con Babbarabbà vanno doverosamente  ricordati, come altri preziosi strumenti della conservazione delle memorie di Terra d’Otranto, titoli parecchi dei quali parlano da soli (altra genialità …), tanto da rendere superfluo ogni commento:

Racconti sotto la luna (raccolta di storie e leggende)

Lecce (racconto di un percorso nella città barocca)

Pani, pesci e briganti: piatti da leggere, storie da mangiare. Cosa e dove si mangia nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto. Storie, leggende, curiosità

Santi: il regno dei cieli raccontato dalla terra (storie popolari, aneddoti, miracoli dei santi patroni di 145 comuni)

Ieri (collezione di fotografie d’epoca)

Gli approdi: il mito (collezione di foto scattate in esclusiva per il giornale da Ferdinando Scianna)

Maleparole: insultario ragionato per chi non ama il prossimo suo come se stesso

Nelle notti di luna piena ( antologia di favole, storie e leggende già note e inedite dei 145 comuni in cui il giornale era distribuito)

Gli stemmi raccontano (storie e leggende dei diversi emblemi comunali)

La Japigia: la più antica guida delle nostre province

Concittadini (i personaggi e le famiglie più note delle diverse città)

Rucola e caviale (ricette dei più prestigiosi ristoranti della Puglia)

 

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