Tessere del tempo che fu

di Armando Polito

Sembra essere tornata di moda la citazione dotta, meglio in lingua originale, ammesso che chi la esibisce sia in grado poi di tradurla, correttamente,  allo sfortunato destinatario. In passato essa era la spia non solo di erudizione (la quale, però, se fine a se stessa, è solo una sottospecie della cultura, puro esibizionismo intellettuale) ma di una saggezza che aveva radici molto lontane, anzi costituiva le nostre stesse radici. Progressivamente ma rapidamente si è passati, secondo me, dalla saggezza più o meno profonda all’esibizionismo più o meno patente, e peraltro virtuale ma non per questo meno deleterio, favorito oggi in modo esponenziale da questo o da quel social network; sicché la citazione che in passato poteva essere pure sostanza oggi è quasi sempre apparenza.

Per non sembrare (sarebbe un successo già se riuscissi in questo intento…) anch’io un vacuo intellettuale da strapazzo lascerò chiudere al pensiero altrui questo post e mi abbandono, perciò, all’onda dei ricordi nel tentativo di dare concretezza ad un titolo che sembra grondare retorica da tutti i pori …

In origine (parlo degli inizi degli anni ‘50) ci fu la bicicletta, anzi uno strano quadriciclo che mostrava, montate su bracci laterali sullo stesso mozzo della ruota posteriore, due rotelle. Fungevano da stabilizzatori continui: il primo aliscafo di linea in Italia, la mitica Freccia del sole, sarebbe arrivato solo nel 1956.

immagini tratte da http://www.bicigiri.it/m01_001.htm
immagini tratte da http://www.bicigiri.it/m01_001.htm

L’eliminazione delle rotelle corrispondeva a quei tempi, in termini emotivi,  press’a poco al primo rapporto sessuale di oggi, sicché il bambino poteva cominciare ad utilizzare una bicicletta normale, magari da adulto (allora non c’erano le taglie, nemmeno per le biciclette), cioé sovradimensionata, il che comportava, specialmente se era una bicicletta da maschio con la sua brava canna (quella oggi più in voga era praticamente sconosciuta …), movimenti degni di un contorsionista per poterla usare.

Non mi meraviglierei che qualche psico- (o pseudo-?) sociologo avanzasse l’ipotesi che la presenza della canna nel modello maschile, così come la sua assenza in quello femminile, avesse un riferimento, magari inconscio (ma consapevolissimo, di messaggio subliminale,  nel progettista; ma che dico, allora pure la pubblicità era innocentemente diretta …), di natura sessuale , in senso specifico anatomica, quasi la canna, data anche la posizione del pedalatore, fosse un prolungamento del pene e la sezione di telaio curva nel modello femminile corrispondesse, in qualche modo, alla vagina. Io, appena uscito da  Ladri di biciclette e da Bellezza in bicicletta, appena entrato in Sesso di biciclette o Sesso in bicicletta1, ritengo che la presenza della canna in quella maschile non fosse neppure dovuta all’esigenza di rafforzare il telaio (anche perché all’epoca l’ideale femminile era quello della donna, se non obesa, certamente in carne e mi pare esagerato che, nonostante la scarsa considerazione del gentil sesso, le si lesinasse la sicurezza) e neppure (nonostante il fatto che i pantaloni indossati da donne che non fossero amazzoni fosse all’epoca motivo di scandalo) al fatto che l’eventuale canna avrebbe conferito alla gonna un movimento sali/scendi che sarebbe coinciso con un peccaminoso (per la donna, non per l’uomo chi si fosse trovato o si fosse dato da fare per guardare …) vedo/non vedo. E allora? Il motivo rimane sempre legato al sesso o, almeno, all’elemento che contraddistinguerebbe quello maschile, cioè la pura forza fisica, per cui era assolutamente impensabile che una donna potesse portare (o, peggio, rimorchiare) qualcuno in canna. E forse non era nemmeno solo per questo, considerando il fatto che chi pedalava manovrava pure il manubrio e i freni, insomma faceva tutto lui, era l’unico detentore del potere: e chi ha visto mai un detentore del potere (oggi maschio o femmina che sia) disposto a cederlo?

Comunque fosse, da maschio o da femmina, la bicicletta era un simbolo di movimento, di indipendenza, di libertà. All’epoca, però, c’era anche il Mosquito2, fabbricato dalla Marelli, che trasformava la bici in ciclomotore (insomma, l’antenato del Ciao, che la Piaggio avrebbe prodotto dal 1967 al 2006).

È da sempre nelle corde dell’umanità aspirare a qualcosa di più evoluto, specialmente se questo già esiste; solo che nei bambini di una volta, a differenza degli adulti che firmavano cambiali, ciò era possibile con l’unica dote che, forse  (non mi meraviglierei se fosse solo un presuntuoso abbaglio umano …), ci distinguerebbe (il condizionale rafforza la riflessione prima in parentesi e contemporaneamente rende ancor più fragile il forse precedente) dagli animali: la fantasia.

Bastava, così, nu ccappèttu3 (una molletta da bucato, solo di legno, allora … ma quasi eterna) e un cartoncino rettangolare che, dopo essere stato piegato attorno a un braccio della forcella in prossimità di una delle due ruote, vi veniva fermato con la molletta. Mentre si pedalava, il cartoncino, sbattendo contro i raggi, produceva un rumore che nella fantasia del ragazzo  equivaleva a quello del motore. C’era chi, addirittura, optava per il bimotore e applicava il dispositivo su entrambe le ruote, dopo opportuna valutazione delle controindicazioni: il doppio meccanismo, infatti, raddoppiava sì il rumore ma con la sua resistenza ai raggi anche la fatica di chi pedalava.

Passarono gli anni  e col boom economico anche in casa mia entrò la 600. Non appena conseguii la patente, siamo nel 1963, usai tutti i miei risparmi per cambiare il pomello del cambio con una cloche degna di un aereo, il cruscotto, il volante con uno dalla corona in legno e dalle razze, credo, in alluminio; quello, però, che, almeno nelle intenzioni, doveva fare scena, specialmente in accoppiata con la doppia debraiata o con il punta-tacco, fu il cambio della rachitica e asfittica marmitta in dotazione con una a doppio scarico; il tutto, poteva essere altrimenti?, marcato Abarth. Nella fantasia di un giovane di allora era come avere sotto il sedere (la macchina, per chi non lo sa, si guida col sedere, non solo per motivi scaramantici ma perchè è questa parte del corpo che per prima avverte le reazioni della strada e del mezzo) una Ferrari. Quello di oggi possiede un’astronave,  ma è come se avesse una carriola…

Il tocco finale, poi, fu la scritta metallica FIAT ABARTH da applicare nella parte inferiore (io scelsi la sinistra, quasi forse un avvertimento per chi avesse avuto l’ardire di sorpassare simile  bolide …) del cofano posteriore. Un sussulto di residuo buon gusto mi impedì di completare l’arredo interno con il famigerato pupazzo sospeso con una ventosa al cristallo posteriore o applicando ai sedili copertine leopardate …

 

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immagini tratte da:

http://www.subito.it/accessori-auto/fiat-600-fiat-600-abarth-pomello-cambio-nuovo-catanzaro-57818790.htm

http://www.abarth-andronico.com/ricambi/cruscotti/crus_19.jpg

http://www.abarth-andronico.com/ricambi/volanti/volant_2.jpg

http://www.abarth-andronico.com/ricambi/marmitte/marm_18.jpg

http://www.ebay.it/itm/SCRITTA-FIAT-ABARTH-METALLO-CROMATO-FIAT-500-EPOCA-/370450022734

 

Chissà quanti ricordi le immagini appena viste, riproducenti fedelmente gli unici, o quasi, optionals dell’epoca, hanno evocato in chi ha i miei anni!

Un terzo ed ultimo quadretto, avente come oggetto del ricordo sempre il rumore, lo voglio dedicare alla tròzzula, cioè alla raganella di Pasqua, vale a dire quello strumento di legno costituito da un perno che funge da manico, sul quale è montata una ruota dentata che, sfregando contro una lamella di legno o di ferro, produce un suono secco e fragoroso simile al verso del maschio della raganella. Questo strumento ha il nome di tròzzica a Squinzano; a Nardò è chiamato trènula, di origine onomatopeica, voce usata pure, sempre a Nardò (in altre zone minòscia, trascrizione dell’italiano minugia, dal latino minùtiam, da minùtus, da minus) per indicare la schiuma di mare o latterini, pesciolini appena nati usati anche per esca; in tal caso, però, la voce o è diminutivo di trena=trina, perché il loro branco ricorda un merletto, o più probabilmente deformazione di trèmula per i loro movimenti caratteristici. A Gallipoli tròzzula è tanto la raganella di Pasqua quanto la carrucola del pozzo; ricordo, infine, che da tròzzula sono derivati, con l’aggiunta in testa di n-,  dalla preposizione in con aferesi, i verbi ntruzzulàre che a Nardò è sinonimo di procedere a passo molto spedito e ‘ndruzzelà che a Cisternino  è sinonimo di avvolgere, abbindolare), La tròzzula accompagnava tromba e tamburo in occasione delle processioni immediatamente precedenti la Pasqua per annunciare le funzioni della Settimana santa nei giorni in cui è vietato suonare le campane, poi, ridotto al rango laicale, divenne uno dei giocattoli d’obbligo esposti, sempre nel periodo pasquale, sulle bancarelle.

http://www.memoriapopolare.it/storie/tradizioni/lu-terremotu/69
http://www.memoriapopolare.it/storie/tradizioni/lu-terremotu/69

Non è da escludersi che la tròzzula sia un’invenzione tutta salentina se corrisponde al nostro strumento quello descritto nella Suda (o Suida, lessico bizantino probabilmente del X secolo ), dove alla voce Ἀρχύτας (si tratta di Archita di Taranto,  matematico e filosofo della scuola pitagorica fiorito nella prima metà del IV secolo a. C.) si legge: Καὶ παροιμία Ἀρχύτου πλαταγή ὅτι Ἀρχύτας  πλαταγή εὗρεν ἥτις ἐστὶν εἶδος ὀργάνου ἦχον καὶ ψόφον ἀποτελοῦντος (Anche il detto la raganella di Archita poiché Archita inventò quella che è l’immagine di uno strumento che produce suono e rumore). Ho tradotto πλαταγή con raganella, anche se alla lettera la parola greca significa genericamente strumento ligneo o metallico per produrre strepito (da πλαταγέω=battere le mani, rumoreggiare, percuotere rumorosamente, a sua volta da πλατύς=largo, prolungato, diffuso).

Prima di chiudere voglio stemperare, come al solito, la nostalgia del ricordo con la distrazione etimologica ; e non sarà una distrazione di poco conto, visto che entreremo in contatto con pozzi e con vasi, questi ultimi addirittura  messapici …

Se l’italiano raganella è diminutivo di ragano, voce centro-settentrionale sinonimo di ramarro (probabilmente di origine onomatopeica), qual è l’origine di tròzzula?

Spero che il lettore comune (cioè, nella fattispecie, digiuno di filologia) come lo sarei io se mi si dovesse spiegare, per esempio, un fenomeno geologico, non proverà fastidio se lo guiderò passo passo, come avrei fatto se ancora esercitassi il mestiere privilegiato (non mi riferisco certo all’aspetto economico o, peggio ancora,  burocratico …) dell’insegnante. Userò, perciò, all’inizio il metodo induttivo (dal particolare al generale, dal concreto all’astratto, dal fenomeno alla regola).

Chiedo al lettore e a me stesso  se voci come pàssulastìpula presentano qualche dettaglio in comune con tròzzula. Non ci vuole molta fatica per constatare che sono tutte sdrucciole e tutte presentano la terminazione –ula. È ancora troppo presto per dire che questa terminazione è un suffisso dalla funzione semantica tutta da definire. Nulla vieta, però, di ipotizzarlo. In tal caso, eliminandolo dalle parole in questione, mi rimarrebbero rispettivamente: pass-, stip– e trozz-, tre radici che dovrebbero contenere il significato fondamentale. Per avere con buona probabilità la parola di partenza debbo aggiungere a queste tre radici la desinenza, che sarà –a perché è legittimo presumere che, se la parola di partenza è un sostantivo, quella derivata ne abbia conservato il genere, femminile nel nostro caso. Ottengo, così, passa, stipa e trozza. Vado ora a controllare la loro congruità semantica con i presunti derivati: passa (pure in italiano femminile di passo, sinonimo di appassito, avvizzito) si accorda perfettamente con pàssula (per il momento faccio notare solo che la perdita di acqua connessa con l’essiccazione comporta una diminuzione di volume, dunque di dimensioni); stìpula è deverbale da stipulàre, ma questo, a sua volta è dal latino stipulàri=esigere un impegno solenne, impegnarsi formalmente; stipulàri è da stìpula=pagliuzza, quella che veniva spezzata al momento dell’atto; stìpula è diminutivo di stipa non attestato nel latino classico, anche se probabilmente usato in quello volgare, ma in quello medioevale col significato di piccolo albero; per quanto detto stìpula si accorda perfettamente con stipa del quale appare chiaramente diminutivo; per quanto riguarda trozza rinvio per brevità all’indirizzo https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/03/la-ngegna-forse-figlia-di-una-radice-molto-prolifica/

Dopo la lettura di quanto lì ebbi a scrivere il lettore non avrà difficoltà a concludere che tròzzula è diminutivo di trozza, tenendo conto che una ruota in entrambe è l’elemento costitutivo fondamentale.

Trozza di villa Scrasceta a Nardò. Foto di Marcello Gaballo
Trozza di villa Scrasceta a Nardò. Foto di Marcello Gaballo

Oltre al pozzo (appunto, la trozza), però, avevo messo in campo il vaso messapico. Come ognun sa, il suo nome è trozzèlla, dopo tròzzula altro diminutivo di trozza. Ma che ci azzecca, direbbe qualche nostalgico di Antonio Di Pietro, il vaso con il pozzo? –Come,- potrebbe ribattere qualcuno -il vaso non serve per attingere acqua dal pozzo?-. Le cose non stanno così, anche perché mi sembra problematico farlo con una trozzella senza far saltare almeno uno o entrambi i manici.

In realtà il rapporto tra trozza e trozzèlla sta ancora una volta nella somiglianza di elementi costitutivi: la ruota della carrucola e la corda che vi passa nella trozza, le quattro rotelline  e  i segmenti dei manici che ad esse si uniscono nella trozzella.

immagine tratta da http://win.tuttocasarano.it/cultura/trozzella_V_sec.a.c..jpg
immagine tratta da http://win.tuttocasarano.it/cultura/trozzella_V_sec.a.c..jpg

 

Chiudo, come avevo preannunciato, con tre pensieri altrui,  disposti in ordine cronologico (nel vir bonus del primo non c’è alcun riferimento autorefenziale dell’autore e tanto meno di me che l’ho citato …) :

Ampliat aetatis spatium sibi vir bonus; hoc est/vivere bis, vita posse priore frui (Marziale, Epigrammi, 10, 23, 7-8): L’uomo buono si amplia lo spazio della vita. Questo significa vivere due volte, poter godere della vita passata …

La fantasia … altro non è che memoria o dilatata o composta. (Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, I, 50)

Il corso della nostra vita somiglia a un mosaico: non possiamo conoscerlo e giudicarlo prima di esserci messi ad una certa distanza. (Arthur Schopenhauer, Nachlaβ, da Anacleto Verrecchia, Arthur Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale,  Rusconi, Milano, 1992, s. p.

__________________

1 Tra i vari titoli ammiccanti dei film sexy degli anni ’60 (oggi roba da centro di penitenza …) avrebbero fatto la loro brava figura …

2 Dallo spagnolo mosquito (o moschito)=zanzara, da mosca. Divenne nome commerciale, prima ancora del motore Marelli, di un aereo da combattimento (il De Havilland DH.98 Mosquito realizzato alla fine degli anni ’30).

3 Da ccappàre=fissare, prendere; corrisponde all’italiano incappare, con sostituzione della preposizione in con ad, assimilazione (*accappàre) e successiva aferesi. La voce dialettale è sempre transitiva, anche quando è sinonimo di imbattersi in qualcosa di spiacevole (mo ti contu cce àggiu ccappatu=ora ti racconto cosa mi è successo).

 

 

 

 

 

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