Cavallo in cucina ovvero la preistoria a tavola

di Massimo Vaglio

G.D. Ferretti (1692-1766), Arlecchino cuoco, olio su tela, Sarasota (Florida), The John & Mable Ringling Museum

E’ notorio come le carni equine non siano apprezzate univocamente in tutta la penisola italiana, bensì, come il loro uso, sia circoscritto a piccole aree sparse a macchia di leopardo, tanto a Nord, quanto nel Centro-Sud.

Una delle più estese, è senza dubbio il Salento, ove il consumo di carni equine o ferrate, come vengono localmente denominate, è quantitativamente paragonabile a quello delle carni bovine e suine.

Nessuno azzarda a ipotizzare una continuità storica, ma è un dato scientificamente comprovato, che le carni di un piccolo equide: l’Asino Idruntino (Equus asinus hydruntinus), fossero qui, già cospicuamente consumate, sin dal Paleolitico Medio e Superiore, come una grande mole di reperti, ritrovati in molte grotte del Salento testimoniano. Forse, ma è sempre un’ipotesi, l’estinzione di questo simpatico asinello dalla testa di mulo, sopravvissuto persino alla terribile glaciazione wurmiana, è imputabile proprio alla predilezione dei nostri progenitori per le sue carni.

Diffuso era anche il cavallo Equus caballus, come ci dicono alcuni resti fossili, conservati nel Museo di Maglie, che rivelano l’esistenza di animali giganteschi, di gran lunga più grandi del Cavallo di Moshach, considerato l’equide di maggior mole.

Molti millenni più tardi sempre qui troviamo i Messapi, anche questi abilissimi cavalieri, grandi allevatori e domatori di cavalli.

Un feeling con il cavallo, dunque, quello degli abitatori del Salento, datato e inossidabile.

In tempi molto più recenti, troviamo ancora gli equini in genere protagonisti in cucina, con tutta una serie di originali ricette, ancora oggi in auge, infatti, in questa terra, come sappiamo non particolarmente opulenta, quando i feudatari volevano blandire i loro sudditi o gratificarli nella ricorrenza di grandi eventi, organizzavano dei banchetti nei quali di norma, non facevano da protagonisti le pire di legna e gli spiedi su cui arrostire, bensì enormi calderoni. Il motivo era naturalmente di natura economica; gli animali vecchi hanno la carne molto dura e arrostendola diviene pressoché immangiabile, ragion per cui la scelta ricadeva sulla cottura in calderone in cui, con perizia e tempo, si riusciva ad avere ragione persino delle carni derivanti dalla “rottamazione” del parco muli, ed in più, si riusciva ad utilizzarne tutte le parti.

L’arte della cottura in calderone, in questa terra, si è così perfezionata tanto da essere adattata con ottimi risultati alla preparazione di qualunque tipo di carni e frattaglie, ma in particolare di quelle equine; preparazioni che oggi, pur essendo enormemente migliorate le condizioni economiche, sono tuttora molto gradite.

La tradizione resta particolarmente in auge a Galatone, Guagnano, Nardò, Seclì e in alcuni paesi della Grecìa Salentina.

IL CALDERONE ovvero LU QUATARONE

Il calderone, in gergo detto quatarone o quatarottu,a seconda delle dimensioni della caldaia che si adopera per cuocerlo, è un piatto che abitualmente si prepara in diversi paesi del Salento con cadenza settimanale, di solito nella serata o nel giorno avanti a quello di macellazione, poiché, la sua base, è costituita da ogni tipo di frattaglie, di ritagli e interiora, quasi sempre o prevalentemente equine, sapientemente lavate e talvolta sbollentate, per attenuarne eventuali odori forti.

Generalmente vengono preparati da esperte massaie in locali attigui alle macellerie equine e venduti a porzioni che impazienti avventori consumano sul posto o portano a casa riempiendo recipienti, dalle più disparate fogge, che si sono portati dietro.

Proprio nel valorizzare nell’insieme parti altrimenti poco appetibili, risiede il segreto di questa intramontabile preparazione. Le varie parti devono essere tagliate a pezzi, operazione che ne facilita la pulitura, e le interiora devono essere preventivamente lavate in acqua e limone, raschiate e sbollentate; le altre parti quali le spolpature della testa, la coda, la lingua, la trachea, la milza ed i nervetti ricavati dagli stinchi verranno pure ben lavati e sbollentati.

Altra caratteristica è che la cottura debba essere eseguita obbligatoriamente sul fuoco di legna o, se si tratta di piccoli quatarotti, anche nei grandi forni a legna ove le massaie salentine più tradizionaliste portano a cuocere settimanalmente il pane fatto in casa.

Assodato questo importantissimo particolare passiamo alla preparazione: versate un filo d’olio sul fondo della caldaia e preparate un intingolo composto da pomodori pelati, conserva di pomodoro, cipolla, carota, sedano e prezzemolo, sale, peperoncino, qualche foglia di alloro e poca acqua e fate stufare lentamente il tutto sino a quando i componenti si saranno quasi completamente disfatti ed amalgamati.

A questo punto, allungate con acqua, portate ad ebollizione e aggiungete le carni preventivamente sbollentate e tagliate a pezzi. La cottura dovrà essere lenta e si dovrà protrarre per almeno tre quattro ore sotto attenta sorveglianza; il sapore e l’odore vi avviseranno quando sarà pronto.

Ovviamente il quatarotto può essere anche preparato utilizzando solo pezzi di carne prelevati da tagli di maggior pregio, ma il risultato, a detta dei cultori, è decisamente inferiore, anche perché la carne sazia molto di più delle frattaglie, ed il piacere di questa preparazione consiste proprio nel farsi delle grandi scorpacciate.

I generosi vini rossi salentini di Negramaro o di Primitivo accompagneranno egregiamente questo piatto.

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