Racconti di Galatina. La còcula de l’anime

di Pippi Onesimo

 

La chiesetta delle Anime, in silenziosa contemplazione, sembra riunire insieme, quasi tenendole per mano, due porzioni squarciate di antiche mura, attraverso le quali sfiora, voltando le spalle con comprensibile pudore, Piazza Lillo.

Non vi è più traccia, non solo di queste mura, ma neanche della cosiddetta Porta delle Anime, o meglio, come sembra, di un piccolo varco abusivo aperto fra le mura originarie, molti anni dopo.

E’ sparita anche, come tutte le altre, una delle meravigliose cinque “torri”, che sembra lì si ergesse (come “congettura” la instabile e confusa tradizione popolare) imponente, solenne e severa a difesa della città, prima ancora che via Lillo, da sempre costretta a risalire per via Vignola, avesse la possibilità di affacciarsi sulla l’estrema periferia del paese, scivolando su via Soleto giù e ancora più giù, verso il Rione Italia.

Qui, troviamo la più grande, spettacolare, delittuosa testimonianza di speculazione edilizia, ideata e realizzata in questo comune.

Lo scempio, minuziosamente disegnato in perfetti riquadri simmetrici tutti perfettamente allineati, senza piazze, senza polmoni di verde e senza menamentu, mancu de nu metru quatru, in una scacchiera, che solo la follia del business poteva concepire, allora non era stato ancora compiuto.

Oltrepassata la chiesa, al di fuori delle Mura, precisamente alla destra di chi scende dalla via de lu Cazzasajette, si trova la “Còcula de l’Anime”, che è uno slargo ovale, ora di pochi metri quadri, ma un tempo molto più spazioso.

E’ lievemente ristretto rispetto al suo originale, perché rimodellato dalla strada (via Giuseppina del Ponte) asfaltata per esigenze di viabilità e delimitato da un marciapiede fino a Vico Topazio.

Mattonato con arruffate soluzioni geometriche, e occupato in parte, sino a pochi giorni fa, da una cabina telefonica in indecente stato di abbandono, è arredato con frettolosa approssimazione con una panchina di pietra, mascherata con assi di legno.

Lo custodisce l’ombra fitta e odorosa di un solenne, solitario albero di pino, corrucciato e indispettito per la presenza di due robinie anoressiche, piantumate di recente, che offendono la sua maestosa eleganza

Così come si presenta oggi, la “còcula“ è la dimostrazione concreta della improvvisazione e della confusione culturale, in salsa arruffata, che regna sovrana a Palazzo, quando si affronta il problema dell’arredo urbano.

E Piazza San Pietro è stata anch’essa, sino a ieri, vittima illustre ed incolpevole di quella incoltura, quando è stata offesa e deturpata dal posizionamento scriteriato di alcune cùcume ricolme anche de scisciariculi e marve.

La Piazza grida ancora vendetta con tutta la forza della sua legittima disperazione, perchè ha subito, a memoria d’uomo, il quinto tentativo di violenza : prima le catine pe lli scjurnatieri, poi un albero di abete piantumato al centro della Piazza in occasione di un Natale, poi le palle, poi li sedili e, infine, lo scempio delle cùcume.

Ora, finalmente, è libera !

La còcula, allora, era completamente sgombra, ricoperta solo di ghiaia e di terra battuta.

Era, di sicuro, meno adatta igienicamente ad accogliere le bancareddhre de nuceddhre, de cupeta, de mantaji e zacareddhre cu lle tine de schipece, ma era più familiare e più paesana.

Alcuni pethroji a carburiu, o citilene (lumi ad acetilene), anneriti dal fumo e cagionevoli per l’età, con le loro fiammelle tenaci e resistenti anche alle capricciose e improvvise folate di vento, le illuminavano con luce stentorea e traballante, a tratti intermittente, durante la festa de Cristu Risortu.

Spandevano nell’aria un odore soffusamente gradevole, che infondeva allegria e vivacità alle conversazioni e allo scambio di saluti in un caratteristico, ciarliero brusio di festa paesana, e, in particolare, rionale.

In precario equilibrio, vi sostavano anche sparute combriccole di avventori, vivacemente loquaci, perché “brilli e spiritosi”, di una antica e attrezzata osteria, di cui è rimasta solo traccia in un vecchio portone.

Questa festa, che cade ogni anno la domenica immediatamente successiva a quella della Pasqua, era molto sentita e seguita, anche se… tristemente famosa (a parte i fatti di sangue avvenuti agli inizi del secolo scorso, che hanno tutt’altra matrice e significato sociale) per le risse, a volte violente, provocate per futili motivi, che, a ricorrenza costante, vi accadevano.

Era risaputo che il Rione de l’Anime pretendeva di essere considerato il Rione più capicaddhu (testa calda) del paese, anche se doveva fare i conti con quello della Porta Luce, col quale stava sempre a discrazzia de ddiu (in eterna rivalità).

Comunque, lì convenivano, durante la festa, tutti li sbelisciati degli altri Rioni, in cerca di divertimento, di baldorie o… cu ssi trovanu la zzita (fidanzarsi).

Il campanilismo rionale era ben coltivato e simpaticamente sostenuto. Gli scherzi e i dispetti, a volte pesanti, erano la manifestazione esteriore della loro rivalità.

Adesso non più!

Oltretutto il rione delle Anime, come tutti gli altri del centro Antico, è desolatamente spopolato, nonostante i timidi, sporadici tentativi di rivitalizzarlo attraverso il recupero e la ristrutturazione edilizia di corti e palazzi, finanziata da privati acquirenti, sopratutto stranieri.

Le antiche mura, o meglio quelle virtuali, scendono dalla via de lu Turrione (via D’Enghien) e si accostano delicatamente alla Porta Cappuccini.

Poi proseguendo verso le scaleddhre, cha pòrtanu rretu llu Ràttulu (Vico Dolce, che, dall’imboccatura di C.so G. Del Ponte, si congiunge con Vico Freddo) e superata la chiesa delle Anime, abbracciano, ansimando per la ripida salita, il costone della chiesa della Madonna del Carmine e si ricollegano alla Porta Nova, o Porta San Pietro.

Di quelle vere sono rimaste poche tracce: ad ondate storicamente susseguenti, sin dalla notte dei tempi, hanno subito l’accanimento barbarico di chi, per l’insipienza, o l’assenza, o l’indifferenza del Palazzo, ha sgretolato con rozza spavalderia porzioni di mura, o divelto cornicioni per realizzare vere e proprie abitazioni, o per aggiungere qualche vano a quelle preesistenti.

Altri le hanno violentate con scandalosa impunità per l’apertura di finestre o per il passaggio di canali di gronda.

Le imprese autorizzate (da chi?) per gli allacci della corrente elettrica, acqua, telefoni e gas hanno poi completato l’opera, senza che mai nessuno si sia preoccupato di controllare, di vietare e, al limite, di chiedere conto degli enormi danni procurati.

Oh che bella Città!

Speriamo ca lu Patreternu ce la conservi a lungo, nonostante i barbari e le colpevoli collusioni o insipienze (di ieri, di oggi e di domani) del Palazzo.


Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

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