I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 
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Un commento a I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

  1. Ottimo pezzo giornalistico, tendente a sottolineare la complessita’ della vicenda dei Martiri e le difficolta’ di una valutazione oggettiva dei fatti e dei moventi, individuali e collettivi. Certo, sarebbe bello sapere con certezza con che atteggiamento gli Ottocento affrontarono il martirio, se con la serenita’ di chi non vuole abiurare alla propria fede o con il terrore di morire che tipicamente avrebbe preso ogni uomo in quei tragici istanti.A parer mio, un dato “antropologico” non va trascurato: il diverso atteggiamento che i nostri avi avevano rispetto alla fede cristiana, che di fatto permeava ogni loro gesto quotidiano, dalla nascita alla morte.Atteggiamento per noi oggi impensabile.Per questo , forse, non e’ priva di verita’ l’affermazione di uno studioso salentino secondo cui gli Ottocento si sarebbero avviati sereni al martirio, senza tutto l’alone di tragicita’ che noi tenderemmo ad attribuire a quel momento.

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