La guerra d’Otranto del 1480/81

turchi a otranto

di Maurizio Nocera

Gennaio 2011: il presidente del Circolo “Athena” di Galatina, prof. Rino Duma, mi dona un opuscolo che cito per intero: “Salvatore Panareo, Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)”.

Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle Memorie di studiosi che si sono interessati e continuano ad interessarsi di quegli eventi. La cronologia essenziale della guerra d’Otranto ci dice che dall’11 agosto 1480 al 10 settembre 1481, gli ottomani tennero occupata la città. Finora gli studiosi ci hanno fatto sapere le stragi e le violenze che essi compirono in Otranto, ma pochi sono stati quelli che si sono posti domande del genere: “Cosa fecero gli ottomani, stando dentro le mura della città? E dopo la tremenda strage degli Ottocento, che tipo di rapporto s’instaurò fra gli abitanti e gli occupanti? Il vettovagliamento come fu organizzato?”.

Salvatore Panareo, nell’opuscolo sopracitato, si pone tali domande precisando che, «malgrado gli sforzi per terra e per mare delle armi cristiane, bisognò tollerare la presenza degl’invasori» (p. 1). Inoltre, egli spiega qual è il motivo della sua indagine: cercare di conoscere quali furono i «tentativi di pace col Turco avvenuti durante la guerra e sulle trattative svoltesi alla fine per il ricupero della città» (p. 3).

Egli ne cita una, questa: «Re Ferrante, allora in Foggia, che, malgrado qualche promessa e qualche sussidio, si vedeva isolato, si aggrappò allora a un disegno che più volte gli s’era affacciato alla mente, quello cioè di ottenere dal Turco pacificamente la restituzione di Otranto» (p. 6).

Furono diversi gli stratagemmi a cui il re ricorse, primo fra tutti quello di servirsi di un ambasciatore ferrarese, che, sia pure conalterne vicende, riuscì ad incontrare, nell’aprile 1481, in Albania (Saseno e Valona), Achmet Pascià e parlargli, magari, come scrive il Panareo, «offrirgli una somma di denaro» come riscatto per la liberazione della città, ma alla fine, tutto sommato, la missione fallì. Questo accadeva prima dell’estate 1481. Dalle cronache, sappiamo che in agosto ci furono gli assalti dell’esercito del duca Alfonso d’Aragona per il ricupero di Otranto, ma senza grandi risultati, che invece arrivarono dopo un altro incontro diplomatico, di cui re Ferrante si servì attraverso tal Dalmaschino, un turco «ritenuto prudentissimo e discreto e fornito anche del privilegio d’intendere e parlare la lingua italiana» (p. 12).

Ci furono ancora altre trattative, alla fine però, scrive il Panareo, ciò che fece precipitare la situazione a favore di Otranto, fu la morte del Sultano Maometto II. Scrive: «Gli assedianti, quantunque avessero i mezzi di resistere ancora qualche mese, pensarono allora a mantenere fedelmente i patti stabiliti e restituirono la città il 10 settembre» (p. 14). Era il settembre 1481, e gli ottomani avevano occupato Otranto per 54 settimane. Oltre che tenere militarmente occupata la città, oltre alle scorrerie fuori dalle mura per rubare e approvvigionarsi dei generi alimentari, cos’altro fecero al suo interno?

Al momento, gli studiosi non hanno approfondito tale tematica, per cui non si conosce molto di quel che accadde durante i 13 mesi dopo il sacco della città. Qualcosa possiamo leggere in alcuni saggi di studiosi stranieri presenti al convegno di Otranto del 1980, le cui relazioni furono pubblicate nel 1986 dall’editore Congedo di Galatina in due tomi intitolati “Otranto 1480. Atti del Convegno internazionale di studio promosso in occasione del V Centenario della caduta di Otranto ad opera dei Turchi (Otranto, 19-23 maggio 1980)”, a cura di
Cosimo Damiano Fonseca. A parere di molti, quello fu il convegno che segnò una svolta negli studi della guerra otrantina del 1480 perché, per la prima volta nella storia, vi presero parte due studiosi turchi, i proff. Sakiroglu e Nejat Diyarberkirli. Dei due, però, conosciamo solo il saggio del secondo, cioè quella del prof. turco Nejat Diyarberkirli, “Les Turcs et l’Occident au XVème siècle”. In essa ci sono alcuni passaggi importanti che ci fanno comprendere da parte turca qual era la situazione politico-militare nel Canale d’Otranto. Eccone alcuni di quei passaggi, ovviamente sommariamente tradotti: «Nel 1479 finalmente, la pace fu segnata tra i Veneziani e gli Ottomani, ma lo stesso anno cominciò la campagna di Otranto da parte degli Ottomani [che] l’11 agosto 1480» (p. 22) assediano la città sotto il comando del’ammiraglio turco Gédik Ahmet Pascià.

assalto-a-otranto

Dopo avere fatto una ricognizione storica sugli avvenimenti collaterali alla guerra di Otranto, Diyarberkirli presenta un percorso che vede «Gedik Ahmed Pascià, prima di mettersi alla testa di questa spedizione [quella di Otranto], conquista le isole di Zacinto, Cefalonia e Aya-Mavra, appartenenti alla famiglia dei Tocco intervenendo così negli affari interni del regno di Napoli. L’anno successivo; Gedik Ahmet Pascià, incaricato di conquistare l’Italia del Sud, vale a dire il regno di Napoli, lascia Valona il 26 luglio 1480 con una forza di 18.000 uomini e 132 navi e arriva l’11 agosto sulle coste della Puglia impadronendosi di Otranto. Costringe poi il principe Alfonso, erede del regno di Napoli, a ritirarsi» (p. 24).

Sostanzialmente, la tesi di Diyarberkirli è che la presa di Otranto da parte degli Ottomani fu il frutto di uno scellerato scambio bellico tra alcuni stati italiani dell’epoca, quali il Vaticano, Venezia e Firenze. Ma oltre a ciò, lo studioso turco nulla aggiunge a quanto già sapevamo dell’occupazione ottomana della città.

Qualcosa in più riusciamo a sapere dalla relazione tenuta quello stesso giorno del convegno dal prof. Charles Verlinden, “La presence turque a Otranto (1480-1481) et l’esclavage”, dalla quale veniamo a sapere qualcosa sul numero degli otrantini ridotti a schiavi e dispersi nell’impero turco. Il dato che a noi interessa è quello che una volta occupata Otranto, ripulite le strade delle centinaia e centinaia di militari e civili morti nella difesa
della città (gli 800 martiri verranno invece ammazzati sul colle della Minerva e lì lasciati a decomporsi), gli occupanti, agli ordini di Achmet Pascià, riducono allo stato di schiavitù i cittadini che si erano salvati. Secondo lo studioso francese in Otranto, all’epoca della tragica guerra, «la popolazione […] non doveva superare le 5.000 – al massimo – 6.000 persone. In effetti, Nicola Sadolet, ambasciatore d’Ercole d’Este a Napoli, informò, attraverso il segretario del re di Napoli, […] che il 16 agosto 1480, Otranto contava 1.000 fuochi e poteva contenere 1.500 uomini armati. Lo stesso Sadolet, dieci giorni più tardi, annota “hanno mandato ala Valona, in una nave più de 500 anime cristiane”. Un altro informatore, Montecatino, parla, il 24, di “dove etiam li
haveno conducte mille anime”. Ammettendo che egli ordinò due invii di prigionieri, ridotti in schiavitù, a Valona e all’interno dello Stato turco e soprattutto verso la sua capitale, complessivamente si arriva ad un totale di 1.500 schiavi. Questa sembra una cifra abbastanza credibile, tenendo conto che ad essa vanno aggiunti gli 800 decapitati e gli uomini uccisi durante i combattimenti e massacrati immediatamente dopo l’ingresso dei Turchi, si arriva sicuramente ad un totale situato tra 2.500 e 3.000 “anime”. […] D’altra parte,
una località di 1.000 fuochi probabilmente si avvicina di più ad una popolazione di 5.000 piuttosto che di 6.000 anime, come dimostra la maggioranza dei dati sui fuochi conosciuti dalla demografia storica, questo sta a dire che i Turchi deportarono ugualmente un certo numero di giovani uomini e donne – sicuramente quelli meglio dotati fisicamente (pp. 148-149).

Secondo me, cogliendo le intuizioni e le domande che si pose a suo tempo Salvatore Panareo nell’opuscolo citato, quasi l’intera popolazione di Otranto del 1480/81 fu estirpata dalla propria città: chi massacrato sotto i colpi delle sciabole ritorte dei giannizzeri; chi invece ridotto alla stato di schiavo e trasferito prima nella città albanese di Valona e dintorni e chi, infine, disperso nel vasto impero ottomano.

Molto probabilmente, all’indomani della partenze degli occupanti, nella città di Otranto non rimase che qualche abitante più la moltitudine dei militari aragonesi. La ricostruzione dei fuochi abitativi di Otranto avvenne sulla base di un sostrato demografico di nuovo e inedito impianto, sicuramente importato da altre zone limitrofe della stessa Terra d’Otranto oppure da altre regioni del regno di Napoli.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

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5 Commenti a La guerra d’Otranto del 1480/81

  1. Per ragioni lavorative in questi giorni ho fatto conoscenza con il figlio dell’Ammiraglio Salvatore Pelosi, l’Avvocato Giancarlo Pelosi con sede Piazza A.Diaz,7 adiacente al Duomo di Milano,Vice Presidente Italy America Chamber of Commerce Southeast,inc. con sede a Miami , fl., quando ha sentito che ero Salentino mi ha messo a conoscenza della presenza di suo Padre nella nostra terra. Con molto piacere vi presento l’Ammiraglio Salvatore Pelosi questo Ufficiale di primo grado che durante la guerra ha avuto compiti militari di proteggere dal nemico il nostro Canale d’Otranto.

    Ammiraglio Salvatore Pelosi a difesa del Canale di Otranto nasce il 10/04/1906 a Montella (Avellino) il 21/10 1974 perde la vita causa incidente stradale a (Terranova Sibari )

    Il Salvatore Pelosi (S 522) è un sottomarino della Marina Militare Italiana appartenente alla 3ª serie della Classe Sauro.

    Storia
    Il battello, costruito nei cantieri di Monfalcone è stato impostato il 23 luglio 1986, varato il 29 novembre 1986 e consegnato alla Marina Militare Italiana il 14 luglio 1987.

    L’unità, in servizio di base a Taranto, tra il 1999 e il 2002 è stata sottoposto a radicali lavori che hanno interessato la piattaforma e il sistema di combattimento.

    Il battello prende il nome dal capitano di corvetta Salvatore Pelosi, decorato durante la seconda guerra mondiale di medaglia d’oro al valor militare. Salvatore Pelosi, comandante del sommergibile Torricelli nel Mar Rosso il 23 giugno 1940, costretto ad emergere per i danni subiti da precedenti azioni nemiche, al largo di Aden affrontò in un combattimento di superficie tre cacciatorpediniere e due cannoniere della Royal Navy colpendo mortalmente il cacciatorpediniere HMS Khartoum che sarebbe affondato più tardi e danneggiando la cannoniera HMS Shoreham. Nell’ìmpari combattimento, accerchiato e senza scampo, per evitare la cattura il comandante è costretto all’autoaffondamento dell’unità e ferito e privo di sensi, viene trascinato a mare dai suoi uomini. Gli inglesi, ammirati, Gli tributano subito gli onori delle armi.

    Dal sito di Mamma Marina:

    Nacque a Montella (Avellino) il 10 aprile 1906. Allievo dell’Accademia Navale di Livorno dal 1921, nel 1923 conseguì la nomina a Guardiamarina, prendendo imbarco prima sulla nave da battaglia Caio Duilio a quindi sull’incrociatore Libia dislocato in Estremo Oriente, dal quale sbarcò poi in Cina per essere destinato presso il Distaccamento Marina di Tientsin tenuto da un Reparto del “Battaglione San Marco”.

    Rimpatriato per la frequenza del Corso Superiore all’Accademia Navale, dove si specializzò nella direzione del tiro, promosso Tenente di Vascello, imbarcò sul cacciatorpediniere Bettino Ricasoli e sull’esploratore Pantera con l’incarico di Direttore del Tiro e poi sull’incrociatore Bolzano con l’incarico di Ufficiale di rotta. Nel 1933 imbarcò sull’incrociatore Gorizia con il quale partecipò alle operazioni militari durante il conflitto italo-etiopico (1935 – 1936).

    Nel 1966: L’ammiraglio Salvatore Pelosi è Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dello Ionio e del Basso Adriatico ( a difesa e sbarramento ai nemici del Canale di Otranto);

    Successivamente ebbe il comando di una Squadriglia di MAS in Sicilia e, al comando di una torpediniera, partecipo poi alle operazioni militari in Spagna. Promosso Capitano di Corvetta ebbe il comando di vari sommergibili ed all’inizio del secondo conflitto mondiale quello del Torricelli, dislocato in Mar Rosso. Ferito nel combattimento del 23 giugno 1940 – che lo vide impegnato in un aspro duello d’artiglieria contro soverchianti forze navali di superficie inglesi alle quali inflisse notevoli danni – e perduta l’unitàal suo comando, fu tratto in salvo dai suoi stessi marinai e successivamente fatto prigioniero dagli inglesi.

    Rimpatriato nel 1945 e promosso Capitano di Fregata con anzianitàretroattiva 1942, fu prima nominato Capo di Stato Maggiore del Comando Sommergibili e successivamente Comandante Superiore dei Sommergibili. Nel 1948, dopo il periodo di comando sul cacciatorpediniere Alfredo Oriani, fu promosso Capitano di Vascello; frequentò l’Istituto di Guerra Marittima e dal dicembre 1949 all’agosto 1951 ebbe prima il comando della Marina Militare italiana in Somalia, nel periodo di protettorato fiduciario italiano in quella ex colonia, e poi assunse l’incarico di Capo di Stato Maggiore presso il Comando in Capo del Basso Tirreno. Dal 1952 al 1953 ebbe il comando delle Forze Navali Costiere e quindi, con imbarco sull’incrociatore Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi, l’incarico di Capo di Stato Maggiore della 2a Divisione Navale, che mantenne fino al luglio 1954, quando assunse l’incarico di Capo di Stato Maggiore presso il Comando Militare Marittimo della Sicilia.

    Promosso Contrammiraglio il 1° gennaio 1957, frequentò poi il Centro Alti Studi Militari e fu Ispettore delle Scuole C.E.M.M.. Promosso Ammiraglio di Divisione assunse prima il comando del Dragaggio e poi quello del Comando Militare Marittimo Autonomo in Sicilia e con la promozione ad Ammiraglio di Squadra nel 1964, fu nominato Comandante in Capo del Dipartimento Marittimo dello Ionio e del Basso Adriatico e Presidente della Commissione Ordinaria di Avanzamento. Fu, inoltre, Presidente del Consiglio Superiore di Marina. Nel 1969 fu posto in ausiliaria per raggiunti limiti di eta.

    rilevatore Ersilio Teifreto http://www.torinovoli.it

  2. Vi prego cortesemente di inserire sul mio commento del 28/01/2013 la foto che invio a parte, per gentile concessione del figlio dell’Ammiraglio comandante in Capo a difesa del Canale d’Otranto Salvatore Pelosi.
    un saluto
    Ersilio Teifreto

  3. Interessante il pezzo, è però da rivedere la formattazione (tipo e dimensione dei caratteri differenti, a capo inutili).

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