La Fòcara di Sant’Antonio: diamo un po’ di numeri!

di Mimmo Ciccarese

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All’inizio dell’inverno, una vecchina, vicina di casa, usava ravvivare il fuoco del suo braciere lasciandolo per alcuni istanti al soffio della tramontana del suo orto. I toni accesi della carbonella ardente erano l’immagine di un’altra storia, quella che pianificava l’accesso ai freddi tramonti di gennaio.

I giorni di gennaio sono ancora oggi per le comunità salentine, quelli del fuoco. In questo periodo è possibile ritrovare tra le campagne le tradizionali focareddrhe a scandire le pause delle lunghe giornate di raccolta delle olive o della potatura secca. Qualcuno, ha già iniziato a potare il vigneto e a recuperare i nuovi sarmenti, quei lunghi e sinuosi tralci arricciati sui loro tutori, che pare quasi non volessero scollarsi dalla loro pianta. Piccoli fastelli posati con ordine lungo i filari prima di essere radunati a formare la poderosa “sarcina te leune” o fascina di tralci di vite, antica unità di misura contadina.

Ci sono ancora vigneti veterani, sopravvissuti ai moderni impianti, alberelli di raro valore, essenze tipiche di una regione, chiamata anche Parco del Negroamaro, di là dal paretone messapico, apprezzata dagli antichi popoli per la sua nota vocazione vitivinicola.

Un saggio vecchietto, mi racconta che da un tomolo di terra, pari a poco più di mezzo ettaro, si riusciva a estrarre con due giornate di lavoro, una quantità pari a circa cento “sarcine de leune” per riempire “ nu trainu ncasciatu” ossia una torre di carretto colma di utile legna.

Nu trainu te leune”, coincideva a circa dieci quintali di rami pronti all’uso, stipate sulle “logge”(terrazze), accantonate nei giardini come scorta per le stagioni fredde o per essere vendute.

Le “sarcine” erano di modesto valore economico ma molto gradite tanto che possederle in famiglia equivaleva ad assicurarsi una certa dose di calore. Bene prezioso un tempo, rifiuto da non sottovalutare oggi per mezzo di un articolo del Dlgs 152/2006 che non chiarisce la sua duplice valenza di riutilizzo. I viticoltori sono obbligati a rispettare molti regolamenti ma anche quello di potare altrimenti la sua filiera produttiva già contrastata dall’aumento dei costi produzione potrebbe decadere.

Le quantità ricavabili dalle potature sono variabili secondo i requisiti del vigneto, tanto che con una produzione di tralci da vite del peso medio di circa mezzo chilo per pianta, si possono ottenere tra i 15-30 qli/ha di residui da potatura. Con misure di venti qli a ettaro e umidità del 30-40% si ottiene circa 12-14 qli di sostanza secca. Valutando che un kg di sostanza secca di tralci di vite corrisponde a 3500 kcal e che un kg di petrolio equivale a un potere calorifico di 9000 cal, si potrebbero azzardare altri conteggi ricorrendo ai coefficienti di conversione in energia elettrica oppure considerando che il potere calorifico di un litro di gasolio (10kw) si ottiene con circa 3 kg di legno con umidità del 30%.

E come se da un ettaro di vigneto si ricavasse un elevato potere calorifico espresso in litri di gasolio e riscaldasse per qualche mese diverse famiglie. Gli scarti della vite presentano per questo una capacità calorifica che dipende in ogni caso, dal contenuto di umidità, che si riduce del 10% ogni quindici giorni, e che può variare dalle 4000 kcal/kg del legno secco alle 2.200-2.300 Kcal/kg del legno umido.

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In questo periodo, i falò sono accesi a riempire le piazze per scaldare la gente, sarebbe interessante azzardare alla luce di tali considerazioni, per curiosità, quanto calore potrebbe generare una pira, ad esempio, del peso di circa 600 tonnellate o con quasi 90.000 fascine.

Il 16 gennaio di ogni anno il comune di Novoli suggerisce il suo tradizionale rito, grande evento che richiama moltitudini, preparativi di una festa smisurata, riconosciuta dalla Regione Puglia come bene culturale, che si snoda in ogni angolo del suo paese in onore del santo protettore. Il sacro clou festivo si commuta la sera nel ciclopico e immenso falò di migliaia di “sarcine di leune” accumulate da altrettante braccia volenterose.

In quel giorno Novoli è l’ombelico del mondo che coinvolge ed emoziona col fuoco acceso dal fuoco; espressione di una terra colorita del suo crepitare; moto popolare che “ mpizzica” e “ stuta”; predispone il suo rito con grande intensità emotiva, “cu lu fuecu te l’aria” o “cu lu fuecu ancuerpu”.

Ci aè bisuegnu te fuecu cu se lu troa”, recita un vecchio dittero salentino, vale a dire essere in grado di riscoprirsi appassionati, risvegliarsi dal torpore invernale e ritrovarsi raggianti intorno allo sfolgorio di un cerchio fuoco.

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4 Commenti a La Fòcara di Sant’Antonio: diamo un po’ di numeri!

  1. Quel che più ricordo del mio sviluppare dimestichezza nel fare sarcine te leune a quindici anni, sono le maledizioni che mi implodevano in bocca dopo aver ricevuto una frustata sull’orecchio congelato dalla leuna che si sganciava libera fralle altre dai cippuni che la trattenenvano. Allora, con furore me la tiravo insieme al resto sotto le ginocchia mentre con piccoli e rapidi passetti in avanti le accumulavo verso e poi sulle gambe. Il freddo gelido fa accelerare i movimenti e raggiunta la quantità giusta per fare lu sarcinu, le voltavo rapidamente in perpendicolare lungo lu filaru per disporle sulle due altre che le avrebbero immobilizzate. “Bbeddhre mei, initi cquai moi!” Sedendomi addosso le immobilizzavo fralle gambe e prendendo le due leune “carceriere” trasversali le legavo tirando vigorosamente, poi incrociando e fissando a “braccia conserte” le leune di legatura. “Inthra’lle recchie jacciàte me shtampagnàti? Nnàh shtingùse: a craunèlla bbe fazzu moi nàh! E correvo verso la focareddhra…

    • buffa la vita e grazie alle sarmente alla focara a fb e al mio prossimo compleanno:proprio il 17,scopro questo scritto e mi torna alla memoria quannu scia fore cu ssirma e frama cu cugghimo le sarmente.
      mio fratello lottava irritato con questi rami sottili contorti ca ‘ntissicavanu. Io un pò curva li raccoglievo muovendomi a piccoli passi e si acquietavano a fare la fascina,legata cu autre leune.
      Mi sembrava straordinario che rami sottili e sturtigghiati si accomodassero grazie alle mie mani.
      Le mani di mia madre poi li stuccavanu ,con quel suono secco del legno cu mpiccia lu fuecu

  2. Grazie Enzo Fina! S’impara molto dalle “ntissicate” dei“sarmenti”indomiti sugli orecchi intorpiditi dall’inverno. Già,ci sono i tralci corti e senza troppe sinuosità, banali, troppo facili da raccogliere e quelli saldamente ancorati al loro sostegno che sono auspicio con la loro vigoria di una migliore carica germinativa; quelli da addomesticare, con la dovuta abilità, per farle divenire potere calorifico per un focolare. Il fuoco acceso dal fuoco,craune ardente,come metafora di riscatto e occupazione contadina, non diminuisce ancora, anzi, palpita, riscalda e riveste, in ogni centro del Salento, la memoria e la sua storia. Quella che un mio amico chiamerebbe “lu fuecu sutta la cinnere”!!

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