Il delfino e la mezzaluna, per la Fondazione Terra d’Otranto

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di Paolo Vincenti

 

Il delfino è da sempre considerato il più intelligente degli animali marini e ad esso si riferiscono innumerevoli storie, leggende, favole, le quali tutte suggellano un elemento sempre ricorrente quando si parla di questo simpatico mammifero: la sua amicizia con l’uomo. Quella del delfino è una simbologia molto complessa: solare e mercuriale da un lato, infera e ctonia dall’altro. Infatti, nell’antichità, oltre ad essere considerato salvatore dai naufragi, e quindi vera e propria divinità nelle religioni pagane, il delfino era anche psicopompo, cioè traghettatore delle anime da questo all’altro mondo. Presente nel mito, questo animale solca i mari e incrocia più di ogni altro pesce le rotte e il destino dell’uomo.  Il delfino è considerato amico dei bambini, amante della musica, compagno di avventure dei marinai e complice dei pescatori. Rappresentazioni di delfini sono state ritrovate su dipinti, affreschi, monete e mosaici diffusi nelle antiche civiltà, in particolare quelle greca e romana.  Nella mitologia greca il delfino è strettamente legato al dio Apollo che segue spesso nelle caratterizzazioni iconografiche del dio. Ma ancor prima di soffermarci su Apollo, bisogna dire che il delfino era l’animale sacro al dio Nettuno o Poseidone, insieme al cavallo. Vi è una doppia leggenda su questa associazione. Una leggenda dice che Nettuno, che anelava la mano delle nereide Anfitrite, ebbe come intermediario il messaggero Delfino, il quale riuscì a convincere la bella ninfa d unirsi al possente signore del mare. E Nettuno, per riconoscenza, immortalò Delfino nel cielo fra le costellazioni. Quella del delfino, infatti, è una costellazione boreale non molto estesa che si fa vedere soprattutto sul finire dell’estate e in autunno. L’altra leggenda vuole che Poseidone si fosse unito alla ninfa Melanto, sotto forma di delfino. Da questa unione nacque un figlio, Delfo, dal quale prese il nome l’isola di Delfi, dove egli era Signore, proprio quando Apollo giunse sull’isola. Il delfino inoltre veniva associato alla dea Venere: infatti simboleggiava la nascita della dea emersa dalla spuma delle acque e venne anche raffigurato insieme ad Eros. Lo si trova effigiato, oltre che a Delo, nella Casa dei Delfini, nel palazzo di Cnosso ( infatti i Cretesi credevano che i morti si ritrovassero ai limiti del mondo, nelle isole dei Beati, e che i delfini li trasportassero sul dorso alla loro dimora finale ), nelle  decorazioni musive di Ostia, su monete, vasi, anelli, orecchini, ecc. Presso i greci, l’associazione con il dio Apollo era  molto frequente. L’Inno ad Apollo di Omero infatti narra che il dio arrivò sull’isola di Delfi sotto forma di delfino. Una leggenda sul l’origine di Delfi  narra che Icadio, figlio di Apollo,  fece naufragio e venne salvato da un delfino, che lo trasportò fino ai piedi del Parnaso. Fu qui che Icadio volle fondare una città cui diede nome Delfi per rendere onore al delfino che lo aveva salvato. Un’altra leggenda narra del mitico cantore Arione. Secondo Erodoto, riportato da Pausania, Arione era un musico, originario di Lesbo, e aveva ottenuto dal tiranno di Corinto il permesso di girare per la Magna Grecia per arricchirsi con  il suo canto; della bravura di Arione come musicista parla anche Ovidio nei “Fasti”.  Al momento di  tornare in patria i marinai decisero di ucciderlo per derubarlo, ma il dio Apollo in sogno lo avvertì del pericolo. Quando fu aggredito, Arione chiese di poter cantare un’ultima volta: al suono del suo  canto accorse un branco di delfini, Arione si gettò in acqua e fu raccolto da un delfino che lo condusse a riva. Qui giunto, dedicò un ex-voto ad Apollo e tornò a casa, dove raccontò l’accaduto al tiranno. Quando la nave giunse a Corinto, i marinai riferirono al tiranno che Arione era morto durante il viaggio ma a quel punto Arione si mostrò e i colpevoli vennero messi a morte. A perenne ricordo  dell’episodio Apollo trasformò la lira di Arione e il delfino in costellazioni.  Plinio il Vecchio, nella “Naturalis Historia”, narra di un bambino che aveva fatto amicizia con un delfino, nelle vicinanze di Baia: ogni giorno andando a scuola gli offriva la merenda e lo cavalcava per essere traghettato sulla sponda opposta del lago. Quando il bimbo morì, il delfino continuò ad aspettarlo, fino a  quando morì di dolore. Anche Eliano ci racconta la storia dell’amicizia fra un delfino e un ragazzo; il ragazzo era solito cavalcare il delfino per giocare fra le onde, ma un giorno si ferì a morte con l’aculeo della pinna dorsale. Il delfino, disperato, si gettò sulla spiaggia e si lasciò morire. Ancora Plinio ci racconta di come i delfini collaborerebbero con i pescatori, spingendo verso le reti i banchi di pesce, in cambio di una parte del pescato. Secondo Plinio, i pescatori chiamavano a gran voce i delfini con l’appellativo di “Simone”, dal greco simòs, da cui il latino simus, per  “camuso”, come viene definito il muso dell’animale. Anche Taranto deve la propria fondazione a  un delfino: narra Pausania che Falanto, spartano, dopo un naufragio fu salvato proprio da un delfino, e trasportato sulla costa dell’Italia meridionale, dove fondò la città. Nella mitologia greca il delfino si lega anche a Dioniso. Il dio dell’ebbrezza e del furore selvaggio chiese ad alcuni pirati di traghettarlo da Argo a Nasso, ma scoprì che costoro avevano ordito un complotto per venderlo in schiavitù. Per punirli, il dio trasformò i loro remi in serpenti, avviluppò la nave in una cortina di edera e la bloccò con tralci di vite finché i pirati, impazziti, non si gettarono in mare, venendo trasformati in delfini. Da allora essi sono amici degli uomini e si adoperano per salvarli dai flutti, come memoria del pentimento dei pirati da cui discendono. Della complessa simbologia di questo pesce poi si impossessò anche il Cristianesimo che raffigurò spesso Cristo sotto forma di delfino. Inoltre, essendo esso da sempre considerato simbolo di salvezza per  i naviganti, nell’iconografia più usata gli si affiancò l’ancora. E attorcigliato ad un’ancora lo troviamo molto spesso negli stemmi araldici, accanto al motto “festina lente”. Questa raffigurazione è stata ripresa dalle monete romane del I secolo d.C.. Il motto “festina lente” era attribuito all’imperatore Augusto dallo scrittore latino Svetonio nella sua opera “Vita di Augusto”, e può essere tradotto come “affrettati lentamente”, a significare prudenza nella velocità, calma anche quando gli eventi sembrano sopraffare, caratteristiche queste certamente attribuibili al mitico mammifero.

La mezzaluna, come si sa, rappresenta il simbolo dell’Islam e ha un particolare valore nello stemma civico della nostra Provincia di Lecce, l’antica Terra D’Otranto, con riferimento alla secolare lotta fra cristiani e musulmani. Per i paesi arabi, è un simbolo antichissimo sebbene adottato, quasi ufficialmente, solo dal Quattrocento in poi. Infatti la storia racconta che nel IV secolo a.C.  Filippo di Macedonia, precisamente intorno al 340-341 a. C.,  quando mise sotto assedio la città di Bisanzio, essendo una notte molto scura, contava di prendere di sorpresa gli abitanti della città e di poterla facilmente sottomettere. Accadde invece che, alzandosi un forte vento a disperdere le nuvole, il chiarore della falce di luna che campeggiava nel cielo di quella notte epocale favorisse la difesa da parte degli abitanti della città i quali riuscirono ad allertare l’esercitò, che scacciò prodemente gli invasori. Da quel momento venne visto nella mezzaluna un simbolo portafortuna ed esso iniziò ad essere inciso sui muri e in ogni angolo della città come riconoscenza. La mezzaluna diventò quasi una divinità alla quale essere eternamente grati. Fu però nel 1453, in occasione dell’assedio da parte dei Turchi alla città di Bisanzio, che questo simbolo diventò universalmente noto  fino ad essere inscindibilmente associato al mondo musulmano. L’impero Ottomano infatti  rispettò la cultura delle comunità musulmane e ne mantenne iconografia, culti e tradizioni. Tutti gli stati islamici oggi amano questo simbolo e si riconoscono nella mezzaluna  con la stella che campeggia sulla bandiera ufficiale di molti di essi ( come Azerbaigian, Turchia, Maldive, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Algeria, Libia, Tunisia, Mauritania e Comore)

Il delfino e la mezzaluna convivono dal 1481 nello stemma araldico della nostra antica Terra D’Otranto e sono anche oggetto dello studio di Maurizio Carlo Alberto Gorra, “Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica”, nel suo bel saggio introduttivo alla neonata rivista “Il delfino e la mezzaluna”, alla quale offro, come modestissimo contributo, la mia piccola ricerca di cui sopra che non ha certo il carattere di originalità che hanno invece i preziosi scritti che compaiono nella rivista stessa. Si tratta del numero del luglio 2012 del periodico della “Fondazione Terra D’Otranto”, ente costituito a Nardò nel 2011. Presidente del nuovo sodalizio culturale è Marcello Gaballo, deus ex machina di una ensemble di ricercatori, giovani e meno giovani, noti e meno noti, che hanno già fatto parlare molto bene del precedente cenacolo culturale, vale a dire “Spigolature Salentine”, sito on line e rivista cartacea, che ora passa il testimone a questa nuova pubblicazione e al sito web www.fondazioneterradotranto.it. Verso questo sito web anche chi scrive le presenti note ha più di un debito di gratitudine. La  Fondazione Terra D’Otranto vara allora questo nuovo strumento editoriale, una rivista dall’elegante formato, che vanta un Comitato Scientifico di tutto rispetto.  Direttore Responsabile è Pierpaolo Tarsi, il quale nel suo scritto introduttivo ricorda gli obbiettivi che si propone  la fondazione, sottolinea il criterio di severa valutazione e di scientificità a cui vengono sottoposti i testi che giungono in redazione, la molteplicità e varietà delle tematiche trattate fin da questo primo numero e il respiro internazionale della rivista testimoniato anche dalla tradizione in inglese  dell’abstract, cioè il sommario dei testi presentati .

Nel primo numero della rivista, oltre al già citato saggio di Gorra, compaiono contributi di Alessandro Laporta, “Il Plinio di Nardò. Un incunabolo da riscoprire”;  Roberto Spaventa, “Successioni feudali a Seclì dal XIII al XIX secolo”; Eugenio Imbriani, “Le parole degli altri”; Valentina Antonucci ,“Contributo alla storia dell’arte sacra: riflessi di una strategia controriformistica nella produzione pittorica della diocesi di Lecce”; Francesca Talò , “Un’inedita testimonianza della famiglia Del Balzo Orsini nella storia del santuario di San Pietro in Bevagna, agro di Manduria”; Paolo Agostino Vetrugno, “La Colonna di S.Oronzo a Lecce tra monumentum e documentum”; Pier Paolo Tarsi, “Il lieto fine invisibile del Capitan Black: una rilettura del pensiero politico ed etico nei Canti de l’autra vita di Giuseppe De Dominicis”; Liliana Qafa, “Intervista a Stefania Casini, regista del film-documentario <Made in Albania>”; Angelo Salento, “Cultura popolare,territorio, sviluppo: genesi, forza e rischi dell’immaginario turistico del Salento”;  Tommaso Ariemma, “La struggente meravigliosa poesia delle cose. Intorno all’opera di Annunziata Martiradonna”; Schede restauri e Recensioni. Seguono le Norme redazionali della rivista, lo Statuto della Fondazione e l’Indice.

Una pregevole pubblicazione che segue a due precedenti uscire editoriali con le quali la Fondazione si era già messa in luce nei mesi precedenti, vale a dire “Salvatore Napoli Leone. Genio di Terra D’Otranto (1905-1980)” di Gianni Ferraris, a cura di Marcello Gaballo,  e “La Cattedrale di Nardò”, a cura di Marcello Gaballo, Giovanna Falco e Giuliano Santantonio. Particolare importanza viene riservata dagli animatori del gruppo culturale alla veste grafica delle pubblicazioni impreziosite da un corredo fotografico da far invidia ad esperti e collezionisti.

Albo signanda lapillo, per dirla in latino, “da segnare con pietra bianca”, come con i giorni fausti del calendario romano, questo lieto evento che  è la nascita nel nostro Salento di una nuova creatura editoriale alla quale rivolgo, ultimo di tanti a me maggiori, i miei migliori auguri.

 

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