Il canestraio: un artigiano contadino

angelo il canestraio 2

testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.

Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.

Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo
Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo

Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.

Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.

Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.

Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.

la bordatura del canestro
la bordatura del canestro

I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.

Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.

Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!

“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro)  sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.

Una dolce storia d’amore realmente accaduta: La falce di luna

Una dolce storia d’amore realmente accaduta

LA FALCE DI LUNA

Le mamme ricorrono a qualsiasi espediente per meglio educare i propri figlioli

di Rino Duma

Il professore Mauro aveva da poco perso la cara mamma e, nonostante avesse chiesto al preside un lungo permesso per riprendersi dallo sconforto, non riusciva a staccarsi da quella figura dolce e amorevole, che lo aveva accompagnato e protetto per tanti anni. Era tornato a far lezione, ma senza impegnarsi con la necessaria serenità e con quel modo di fare premuroso e gentile con cui porgeva l’insegnamento quotidiano.

Di giorni ormai erano trascorsi oltre una trentina, ma Mauro continuava ad essere imbronciato e poco comunicativo, tanto da mettere a disagio persino i suoi amati alunni. In molti avevano cercato di schiodarlo da quella profonda afflizione e di rincuorarlo con le dovute maniere e affettuosità, ma lui non aveva saputo reagire.

Ad alcuni alunni, che cercavano in ogni modo di lenirgli il dolore, rispondeva che sarebbe tornato pian piano ad essere l’insegnante d’un tempo.

Una mattina a scuola, durante l’intervallo, Peppiniello, uno ragazzino napoletano tra i più stravaganti e negligenti di seconda media, che da un anno aveva perso la madre in un incidente stradale, rivolse al suo amato professore un inconsueto invito.

Professò, posso farvi compagnia in questi quindici minuti di ricreazione?… Non mi va di stare con i compagni e di giocare con loro”.

Perché ti rifiuti di stare con loro, perché continui a mantenere questo assurdo distacco?… In fondo sono tuoi compagni e ti hanno accolto molto bene due anni fa”.

No, professò, non ho niente contro di loro, anzi. Il guaio è che, dopo aver perso la mia cara mamma, la parte migliore di me è andata via con lei…” – gli rispose con molta amarezza il ragazzo – “…Professò, per certi versi, noi due siamo uguali: solo io posso capire quanto voi soffriate”.

Nell’ascoltare quelle dolci parole, Mauro gli passò dolcemente la mano sul viso, accarezzandolo più volte e dandogli infine un affettuoso pizzicotto.

Io… io non dormo più la notte, sebbene sia trascorso quasi un anno da quando mi ha salutato…” – continuò il ragazzo nel suo dire – “…Se ben ricordi, professò, m’ero rimesso a studiare di lena, perché soltanto voi eravate riuscito ad infondermi il necessario coraggio e l’amore per lo studio… Papà, d’altra parte, pensa soltanto a lavorare e a tirare innanzi la famiglia. Non posso pretendere da lui di essere amato per come mi amava la mamma. Professò, mi manca tanto il suo amore, ma mi manca anche il vostro!… Vi prego, venite fuori dai vostri tormenti: state spargendo ovunque un malumore esagerato. Vi prego, professò, tornate a sorridere come un tempo!”.

Te lo prometto, Peppiniello…” – rispose Mauro, con un groppo alla gola – “…Sarà questione solo di qualche giorno!”.

Peppiniello riprese fiato e fiducia. Mauro gli si avvicinò, ponendogli il braccio sulla spalla, quasi a volergli manifestare piena gratitudine per le sincere esternazioni.

Professò, vi posso offrire una tazza di caffè?… Non lo prendete da diversi giorni!… Proprio voi che eravate tanto legato al caffè!…” – rispose il ragazzo, ora più rinfrancato – “…Se non vado errato, ne prendevate due-tre qui a scuola, figuriamoci quanti in tutta la giornata!… Allora, mi date quest’onore, professò?… forse vi aiuterà a farvi riprendere!”.

Mauro si fermò all’istante a fissare con dolcezza il ragazzo e a concedergli un sorriso appena abbozzato. Sembrava che quel figliolo fosse stato mandato dalla Provvidenza a strappargli dal cuore ogni pena.

Sì, Peppiniello, lo accetto ben volentieri, ma pretendo da te una solenne promessa!”.

Di che si tratta, professò!”.

Devi promettermi che cambierai subito il tuo modo di essere. Non mi piaci come sei e come ti rapporti con i compagni… Tu sei molto disordinato e arruffone, lasci a desiderare anche sul piano dell’impegno e inoltre non curi molto la tua persona, l’aspetto, il comportamento. Sono dell’avviso che se tu migliorassi, saresti di gran lunga superiore ai tuoi compagni. Grazie a Dio, in quanto ad intelligenza, intuito e sensibilità, tu ne hai da vendere”.

Professò, avete ragione, ma da quando è andata via la mamma, ho una tale malinconia e una sfiducia nella vita, che non mi va di far nulla… Sono un po’ come siete voi adesso…” – rispose il ragazzo con sincerità – “…Se voi foste più vicino a me… io… io vi giuro che sarei più diligente ed educato… sarei il primo della classe!… Professò, vi prometto che cambierò… ma dovete cambiare pure voi!”.

Va bene, Peppiniello, mi sta bene… accetto l’impegno!…” – promise Mauro con tono rassicurante – “…Ora, però, considerato che stiamo parlando delle nostre mamme, intendo raccontarti un aneddoto legato a lei, a mamma Francesca. La singolare storiella che sto per raccontarti è stata per me fondamentale, poiché ha contribuito in maniera determinante alla mia formazione umana e professionale. Perciò, seguimi con molta attenzione!”.

Professò, iniziate pure, sono tutt’orecchi!”.

Quand’ero bambino, t’assomigliavo in tutto… ero confusionario, disobbediente, ribelle, trasandato, superficiale e intento solo ai miei dolci trastulli. Mia madre era sempre in pena per me: mi sgridava, mi metteva in castigo, mi dava qualche ceffone per farmi rinsavire, mi accusava a mio padre, ma io non cambiavo mai nei comportamenti. Poi, modificò completamente tattica. Cominciò ad usare le buone maniere, mi inondò di sorrisi, di carezze e di buoni consigli. Per ammansirmi, farmi studiare e lavare più spesso, mi raccontava che i desideri di ogni bimbo crescono rigogliosi soltanto in mezzo alle stelle, nei giardini di Dio, e si possono raccogliere utilizzando unicamente una falce di luna”.

All’improvviso, qualcosa di diverso e meraviglioso stava sbocciando in me.

Mamma, come faccio ad averne una!” – osservavo candidamente.

Basta sognarla, figlio mio, ma, quel che più conta, è necessario svegliarsi stringendola in mano, a riprova di aver mietuto durante la notte le tue brame, i tuoi piccoli progetti. Essi si avvereranno pochi per volta, a seconda della loro importanza”.

Ma è impossibile!…” – le dicevo incredulo – “…E’ un sogno strano, molto strano… non ci riuscirò mai!”.

Sta’ tranquillo, amor mio… Con un po’ di pazienza e tanta buona volontà, ce la farai. A patto, però, di studiare molto e di lavarti ogni due giorni i capelli per scacciare i pidocchi e i cattivi pensieri. Se coltiverai i buoni sentimenti, la luna non tarderà a calarsi nei tuoi sogni e si avvicinerà tanto, ma così tanto, da poterla afferrare con un semplice gesto di mano. Quindi, stai attento e ricòrdati che nella tua mente non deve esserci neanche l’ombra di una cattiva idea, né il residuo di una piccola bugia o la traccia di una disobbedienza. Promesso, allora?!”.

Sì, mamma, promesso!… Ci tengo tanto che i miei sogni si avverino!”.

Lei non avrebbe mai immaginato che, in cima a miei desideri, ci fosse la voglia ardente d’averla per sempre accanto a me. Per accelerare i tempi, non trascorreva sera senza rivolgere in cielo l’avido sguardo per catturare la virgola d’oro e condurla tra i sogni. Ma invano.

Sei ancora piuttosto monello, devi lavarti a lungo e più spesso!…” – si giustificava quella santa donna di fronte alle mie ripetute lamentele – “…Anzi, làvati tutto, sino in fondo… e studia, studia più che puoi!… Solo se ascolterai i miei consigli, la luna verrà a visitarti in sogno. Ne sono sicura, tesoro mio!”.

Ed io, sebbene fossi diventato un angelo, un candido angelo dall’odor di bucato, uno studente modello, non fui mai premiato al risveglio.

Evidentemente non ti sei impegnato al massimo, oppure ti sei lasciato ammaliare da qualche piccola tentazione…” – concludeva la mamma, quando ormai non bastavano due mani per contare i miei anni.

Le ho sempre creduto… e tuttora mi viene da crederle. Eppure sono convinto di aver mancato per un nonnulla l’aggancio ai miei sogni. Di essi, solo pochi si sono avverati nel tempo.

Perciò, Peppiniello, attendo impaziente e sicuro che un giorno non molto lontano qualcuno mi svegli su uno spicchio di luna, su un mondo diverso, più dolce, più umano, in mezzo alle stelle ad un passo da Dio, per poter finalmente godere dei miei desideri innocenti, rimasti ancora sospesi… lassù!”.

E’ finita, professò?!” – disse mezzo estasiato Peppiniello.

Sì… è finita”.

Quanta è stata bella, professò!… E come avete parlato bene!… L’avete raccontata come se fosse una favola…” – osservò molto intenerito il ragazzo – “…Solo ora riesco a spiegarmi il motivo della vostra tristezza”.

Sai perché ci ho tenuto tanto a raccontarti la storiella su mia madre?”.

Sì, professò, ho capito tutto. Vostra madre vi ha preso continuamente in giro… ma nel senso buono della parola. Vi ha fatto credere che tutti i desideri, anche quelli impossibili, si possono avverare, si possono realizzare, ma a costo di meritarseli. Vostra madre s’è comportata un po’ come la mia, che ha tentato ogni giorno e con ogni mezzo di addolcirmi la vita e di presentarmela non come una stracciona, qual è, ma come un’elegante signora dal volto di Madonna”.

Bravo, Peppiniello, bravo!… Finalmente hai capito perché sono tanto depresso. Dopo la sua scomparsa, mi sono ritrovato immensamente povero, pur vivendo tra tante premure, affetti e attenzioni” – concluse il professore con un filo di voce – “…Credimi, Peppiniello, ogni qualvolta vedo in cielo la falce di luna, è come se vedessi lei… mamma Francesca!”.

Quindi, professò, la falce di luna è vostra madre?!”.

Sì, Peppiniello, è proprio lei!”.

Professò, rispondetemi sinceramente… esiste anche la falce di sole?”.

Sì, solo che non si chiama con questo nome!”.

E con quale, allora?!”.

Si chiama… eclissi di sole… e si manifesta quando la luna s’interpone tra la terra e il sole, lasciando filtrare solo una parte della stella e pertanto si verifica l’eclissi di sole”.

Che brutto termine, professò!… Non mi piace, io la chiamo meglio… falce di sole!”.

Fa’ come vuoi!”.

Ora, professò, perdonatemi se per voi faccio un paragone, un accostamento”.

Quale paragone?!… Peppiniello, non capisco!”.

Professò, se mamma Francesca è stata per voi una falce di luna… voi per me siete un astro più splendente ancora… voi… voi siete… una falce di sole!”.

Stavolta Mauro s’azzittì, piegò la testa, rimise il braccio sulle spalle di Peppiniello ed insieme rientrarono in classe.

La stupenda storiella d’amore era servita ad entrambi.

Oggi Peppiniello è un valente professionista.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Nel novero dei bei ricordi: c’era una volta la “Campurra”

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Marittima e il tuo territorio visti con Google Maps

di Rocco Boccadamo

 

Adesso e, per la verità, ormai da lunga pezza, il luogo è contraddistinto da una moderna targa toponomastica recitante “Piazza Vittoria”, strumento segnaletico di cui, peraltro, i paesani nativi neppure si accorgono e che, quindi, si pone a svolgere un ruolo di denominazione e indirizzo, esclusivamente a beneficio dei turisti di passaggio e dei villeggianti estivi.

Giacché, invece, un altro, completamente diverso, è, da giorni lontani, l’appellativo del sito in questione, vale a dire “Campurra” o, volendo ampliare il dettaglio di battesimo, “Largo Campurra”.

Per completezza di riferimento, si sta parlando, in certo qual modo, dell’anima di un paesello, del cuore ideale di Marittima (LE), organo alloggiato, di fatto, fra la piazza storica contermine alla parrocchiale di S. Vitale, in gergo dialettale “chiazza”, e, giustappunto, la “Campurra”.

A parte l’aggiornamento nell’intitolazione, lungo i solchi del tempo, è intervenuta, per gradi, una radicale metamorfosi anche nella fisionomia materiale dell’area di che trattasi, nonché nell’abbecedario di volti, usi, fatti e suoni, radicati, viventi e promananti lì e d’intorno.

Ieri, in senso lato ed esteso, vi insisteva, primariamente, una chiesa, non aperta ordinariamente al culto e, però, cara ai marittimesi, nota come cappella di S. Giuseppe, a motivo della sua espressa dedicazione dal punto di vista sacro, oltre che della presenza, all’interno, di un simulacro del Santo Patriarca, realizzato da esperte mani artigiane nella caratteristica cartapesta leccese.

Le alte pareti dell’edificio recavano, qua e là, all’esterno, una serie di fenditure o fessure, negli obsoleti intonaci, prescelte a dimora di famiglie di rondinelle, nella stagione del loro ricorrente immigrare e, particolare rimasto maggiormente impresso, a punti d’appoggio di nugoli di pipistrelli, “cattiviule” in dialetto, saettanti a voli bassi nel corso delle serate viepiù scure e delle prime ore notturne.

La facciata in direzione mezzogiorno era abitualmente una sorta di posteggio per le “baracche” ambulanti di scarpe e/o tessuti a metraggio, allestite in occasione della tradizionale fiera in onore della Madonna Odegitria (o di Costantinopoli), regolarmente ogni prima domenica di marzo.

Il retro della cappella, fra settentrione e levante, segnava, di contro, l’area di sosta dei provvidenziali maestri artigiani forestieri, che, periodicamente, convenivano nella località: conzalimmi e ‘ggiusta cofini (riparatore di recipienti in terra cotta per il bucato), quadararu (calderaio), ‘mbrellaro (ombrellaio) e mmulaforfici (arrotino).

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Appena a fianco, era collocata, chiacchierina senza soluzione di continuità, una solida fontana in ghisa, tuttora in piedi, pur con utilizzi assai sporadici, e portante alla sommità l’impressione a rilievo dello stemma del regime dominante verso la metà del secolo ventesimo. Agli inizi, vi attingeva una notevole porzione della comunità paesana, per il fabbisogno d’acqua potabile, in sostituzione e a integrazione della materia prima piovana raccolta nelle cisterne dei singoli nuclei familiari, che, talvolta, per via dell’usura, finivano col “rompersi” sull’intonacatura della base impermeabilizzata sommariamente e, di conseguenza, col “bere”, in pratica arrivando a prosciugarsi in breve volgere di tempo.

Quanti ozzi (otri), capasuni e capase, riempiti sotto quel rubinetto e portati a braccia e a spalla sino ai cortili domestici!

piazza

Lo spazio circostante la cappella era un’area preziosa, trasformata momentaneamente in un’autentica propaggine operativa, anche in occasione delle feste del Protettore e degli altri Santi venerati nel paese. Lo occupavano, servendosene per l’appoggio dei materiali e degli attrezzi da lavoro, le ditte aggiudicatarie delle gare per l’allestimento delle luminarie (fra esse, viene in mente, specialmente la “Palmisano” di Soleto (LE), quasi di casa a Marittima e divenuta poco a poco pressoché familiare, ai fini dei rapporti e contatti di un curioso bambino e poi ragazzino del posto, il quale, per naturale istinto, s’accostava e interagiva ovunque gli fosse dato).

Fondamentale e indimenticabile dettaglio, un figlio del “paratore” di Soleto, appena più grande d’età, con l’aiuto di un prodigioso zolfanello, insegnò, al giovanissimo indigeno, a soffiarsi normalmente il naso.

PIPPISEMIRA E MARIO
Pippisemira e Mario

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A far da pendant al luogo di culto, in pratica di fronte, si ergeva, ancora oggi c’è, il palazzo di donna N., una gentilissima nobildonna appartenente alla famiglia più abbiente di Marittima, andata sposa senza la gioia di figli e, purtroppo, rimasta vedova precocemente. Insieme con lei, occupava il palazzo, lo zio don F., dotto e rispettato religioso, per oltre mezzo secolo arciprete del posto.

Gli anzidetti padroni abitavano al primo piano, fatto di ambienti molto vasti e dalle volte altissime, aiutati e assistiti per le loro necessità da una collaboratrice domestica, secondo la qualifica ufficiale, ma, in realtà, vero e proprio terzo membro del nucleo familiare.

Il palazzo comprendeva anche grandi locali terranei, utilizzati per la conservazione di cereali, legumi, olio, vino e altre provviste alimentari, tranne uno, adibito a forno pubblico, e l’atrio, in parte coperto e per il resto a piena aria, ove era parcheggiato il calesse privato, a uso dei signori per gli spostamenti di un qualche rilievo.

Vive, a tutt’oggi, al paesello, il carrettiere, contadino, factotum e uomo di fiducia dei benestanti in discorso, figura giovanissima e scattante nei richiamati tempi lontani: chi scrive ha avuto, proprio qualche giorno addietro, l’opportunità d’incontrarlo, sospinto dal bisogno di chiedergli un’informazione, datata ma fondamentale ai fini di ricordi rievocati con la penna.

Caratteristica di don F., era il suo vezzo di fumare “a fiuto”, sicché egli si trascinava perennemente e ovunque, con sé, il particolare odore di quel genere di tabacco polverizzato e aromatizzato. In aggiunta, a furia di pescare nella scatoletta di provvista e di portare le dita, unite, a contatto delle narici, i suoi polpastrelli e l’epidermide fra labbra e naso avevano assunto l’inequivocabile sfumatura cromatica fra il giallo e il marrone.

Anche in età avanzata, l’arciprete serbava vivi i segni di una profonda cultura umanistica, storica e sulla morale, le espressioni latine fluivano sovente dalla sua voce; alla luce di ciò, uno studente delle medie, di tanto in tanto, magari per un tema particolare assegnatogli a scuola, non esitava a far tesoro del suo sapere.

gente

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A considerevole distanza dalle stagioni di dimora di donna N. e del reverendo don F., il palazzo affacciato sulla “Campurra”, è, al momento, assolutamente chiuso e vuoto.

La relativa titolarità patrimoniale è andata a una nipote e pronipote dei suddetti, a sua volta assente da Marittima da svariati decenni, la quale, amica d’infanzia dello scrivente, si limita a ritornarvi per le vacanze estive, prendendosi, nondimeno, cura della casa e del retrostante giardino tramite un fiduciario, che sovraintende anche ai lavori di manutenzione e agli interventi straordinari per la salvaguardia dell’immobile.

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arrotino01Al centro della “Campurra” della mia fanciullezza, pare di scorgere ancora, come su una consunta fotografia, il puteale e la “bocca” del profondo pozzo che raccoglieva le acque pluviali dalla lamia della cappella di S. Giuseppe.

In pari tempo, grazie a un miracoloso processo di sinestesia, si ha l’impressione di udire il rombo o gorgoglio delle fiumare di precipitazioni che, dalle strade del paese e grazie a pendenze non casuali, andavano a confluire rapidamente in una grande cavità o voragine, in dialetto “ora”, che si apriva all’interno di un fondo o giardino, attiguo al largo, a buon titolo denominato “Ortu ‘u puzzu”, appellativo divenuto, di riflesso, soprannome di riferimento della famiglia proprietaria del medesimo fondo.

calderaioProcedendo, ancora una visione: quante traversate, di primo mattino e al tramonto, su e giù, da destra a manca, per la “Campurra”, per opera del gregge (o murra) di ovini, di proprietà della famiglia N. e affidato a un pastore, che, di notte, era custodito in un ulteriore spazio rurale, con annesso precario manufatto in funzione specifica di ovile, situato su un altro versante della piazza!

Apparirà strano, e, tuttavia, la condivisione, con capi di bestiame, di tale spazio nel centro abitato, all’epoca non faceva alcuna notizia, non rappresentava un limite o un’anomalia, forse perché la natura era mantenuta integra, non intaccata da sostanze chimiche e/o inquinanti, forse perché i bianchi armenti, condotti giornalmente al pascolo brado, si nutrivano di erbaggi profumati, con l’esito, se si vuole fantasioso, di non ingenerare disturbi olfattivi all’indirizzo degli abitanti umani.

Ragazzi e giovanotti giocavano a pallone nel largo “Campurra”, rincorrendosi sul fondo sterrato, alla buona, senza recinzione, senza delimitazioni e senza porte, per pali, unicamente due pietre a metà di due lati dello spiazzo, e basta.

Pratica sportiva avulsa da precise regole, eppure, specie nei pomeriggi domenicali, non mancavano gruppi di compaesani che si fermavano, sostando ai lati, sulle strade “brecciate”, a godersi quello spettacolo pedatorio.

Sul rudimentale e sommario campo sportivo della “Campurra”, avevano analogamente luogo le esibizioni dei gruppi di militari polacchi venuti ad acquartierarsi, sul finire della seconda guerra mondiale, nella piccola località del Basso Salento e lì rimasti di stanza e ospiti per alcuni mesi.

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Salvatore Malorgio, Vecchi contadini del Salento -1981- olio su tela, cm. 50×70

A un certo punto, intorno alla metà degli anni cinquanta, è venuta a maturare la svolta radicale: giù la cappella di S. Giuseppe, con correlata messa a disposizione di una maggiore superficie fruibile pubblicamente, e l’immediatamente successiva realizzazione di una moderna villetta comunale, con, al centro, una vezzosa fontana circolare a vasca di pietra leccese e con zampillo.

Si è tracciata, così, l’attuale immagine del sito, gradualmente impreziositosi mercé aiole, sedili, piante, fiori e verdi prati rasati.

Non c’è che dire, fa indiscutibilmente piacere, al ragazzo di ieri dai capelli bianchi e diradati, notare, adesso, la presenza di bambini e ragazzi sorridenti e giocosi e/o di turisti e visitatori, fra i viali o sulle panchine di Piazza Vittoria, in Marittima: un luogo che, nel suo personale sentire, resterà, però, sempre e comunque, la “Campurra”.

 

Giovani marittimesi negli anni '70
Giovani marittimesi negli anni ’70

Hansel e Gretel sperduti nel Salento

di Raffaella Verdesca

                                       

La solita brutta storia: Italia in crisi economica, allarme recessione, spread alto, tasse da capogiro e, dulcis in fundo, rivolta degli autotrasportatori, degli agricoltori, dei pescatori e chi più ne ha più ne metta! Rallentamento economico nel già rallentato sud.

Lu Totò Cicaleddha, coltivatore diretto, ascoltava con attenzione ogni edizione del telegiornale sprofondato nella sua poltrona ‘massaggiante’.

Era da due giorni che non usciva di casa, tanto i carciofi erano rimasti a marcire in magazzino, i mandarini li aveva svenduti un mese prima a 24 centesimi al chilo e quei pochi ortaggi che portava ogni mattina al mercato erano rimasti a fare concime in un pezzo di terra che lo Stato voleva per 40 centesimi al metro quadro. Certe persone di un comitato di cui non ricordava neanche il nome dicevano che avrebbero lottato per difendere i diritti dei contadini di Capo di Leuca contro l’esproprio coatto delle loro terre. Lu Totò capiva poco tutti questi paroloni, ma una cosa gli era chiara: qualcuno lo voleva morto o quasi.

La gente non comprava niente da giorni, sia perché qualche furbetto aveva triplicato i prezzi di frutta e verdura approfittando della confusione, sia

Salvatore Carbone. L’arte come rivelazione

di Eugenio Giustizieri

 

Se, in qualche modo, non si entra nella deliberata ma utile complessità di Salvatore Carbone, si rischia di non intendere il suo magnifico e seducente modo di fare arte. Guardare le opere di grafica, di pittura, di scultura spiega poco dell’unicità e diversità dell’artista, che è rappresentato soprattutto dal metodo, dal processo ideativo, da un sistema tutto personale. Una diversità che ha origini storiche; fra le altre cose, sta dentro la sua formazione da autodidatta, in un atteggiamento “altro”, ancora oggi, rispetto al sistema dell’arte e del suo consumo che pone al centro del proprio lavoro la questione del senso del progetto del mondo contemporaneo, del ruolo dell’artista che sembra debba essere sempre al servizio della collettività. L’artista sottopone alla comune riflessione desuete parole-ideali, come dignità, uguaglianza, necessità di coniugare qualità e produzione artistica.

Salvatore Carbone propone una sfaccettata configurazione dello spazio con l’intenzione di far emergere quanto sta dietro e attorno al lavoro progettuale e produttivo; articola la sua ricerca in tre punti di allegorie, che illustrano rispettivamente il disegno, le riflessioni concettuali, il percorso dell’arte moderna. Tre momenti che in realtà poi s’intrecciano organicamente in una metodologia unitaria. Ne ha collocato il percorso dentro il suo lavoro e le sintesi allegoriche all’interno di una pietra d’ambra, che come la divinità greca della luce Elettra, illumina figure e oggetti svelandone altre implicazioni, diversi possibili livelli di lettura per il fatto che insinua dubbi e propone riflessioni.

La pittura, come la scultura, deve essere soprattutto confessione, diario, mezzo di scandaglio o di protesta, messaggio. Salvatore Carbone elabora un segno che sa cogliere l’attimo fuggente, nel quale profonde il suo coraggio, la sua volontà di parola. Crede in un’arte che sia impuramente compromessa con la vita, testimone delle sue sofferenze, delle sue battaglie, della sua moralità.

Sembrerebbe che obiettivo principale di ogni sua opera sia l’etica. L’artista porta alle estreme conseguenze il suo linguaggio, fatto di archetipi primordiali, in cui la cultura mediterranea e salentina, con i suoi segni severi, si fonde con gli stimoli culturali elaborati nel tempo.

Dagli anni Novanta ad oggi i segni della memoria fluiscono come continuità della vita e attivano all’interno dell’immaginario una sorta di campo sensitivo infinito. Sembra che la pittura non possa più vivere mimando la realtà, si vuole invece un’arte che si fondi sulle ragioni autonome della propria esistenza. Ne escono tele di sofferta concentrazione, mentre nel manto di colore s’inibisce ogni preoccupazione di grazia, s’ascolta quasi la voce d’un animo che vive in una proiezione continua oltre se stesso, finché non si manifesta in un “oltre” che è insieme fisico e concettuale.

Le reminiscenze sono metafore del vissuto, luogo dell’intimo, meccanismi osservatori di immagini che costruiscono il pensiero soggettivo. In questa zona di recessi e delle derive s’incontrano ombre e respiri inquieti, si rivelano e si svelano enigmi imperscrutabili, esplodo desideri ineguagliabili, che diventano passione desiderante, intensità visiva, vertigine visionaria.

Le sue opere raccontano mondi rinvenuti, disegnano corpi in caduta libera, delineando sagome. Il ricordo si scandisce attraverso la durata e la memoria ricompone l’essere, diviene territorio anarchico, una zona di confine, dove immaginazione ed esistente s’intersecano per ricomporre frammenti. È soprattutto l’inconscio che in questo stratificato procedere rende incandescente il ricordo, deopalizzando le immagini di istanti della propria esistenza e costruisce universi nati da sguardi amati, da voci sentite, da umori vissuti che, una volta manipolati dall’effetto decostruttivo del procedimento artistico, modificano la vaghezza del ricordo in disidentità.

L’immagine diventa oggettiva, tende a perdere la familiarità con se stessa, diviene icona inedita e ineffabile. Perché ognuno ha il suo posto e il suo procedere, il mondo è sinfonico e, nelle sfumature cromatiche, la varietà dei destini si placa e riposa. Il verde tenero della primavera, il bianco calcinato delle case e della luna, il rosso acceso del tramonto e, su tutto, la patina di ruggine, che riporta al Sud, ad ogni sud del mondo, al cullare del tempo e della storia.

Credo che Salvatore Carbone veda i colori così come visti dagli antichi Greci, rinviando non al linguaggio della pittura ma a quello della poesia, dove l’oggettivo risponde più a un sentimento che a una percezione. Questo vale anche per l’evoluzione della pittura moderna: perché alle percezioni cromatiche dell’impressionismo, con il suo occhio visivo, è subentrato il sentimento deformante dell’espressionismo, con il suo occhio interiore. Così che i colori irrealistici del linguaggio della poesia greca ritornano, in chiave diversa, nel linguaggio della pittura moderna.

Cosciente del potere dirompente di tale visione, Carbone, forte dei risultati ottenuti con la creatività impiegata nella prima parte della sua parte della sua vita artistica, inventa un secondo momento creativo conseguenza obbligatoria, faticosa, a tratti eccitante. Tutti aggettivi che connotano la libertà stessa.

L’impressione è che l’inventiva dell’artista abbia trasformato, il già labirintico processo mentale, in un percorso in cui perdersi nel continente dei sogni perduti. Il buio, il silenzio e le grandi dimensioni delle immagini contribuiscono a creare un’atmosfera coinvolgente di grande impatto visivo, carica di liricità e introspezione, essenziale e ricercata allo stesso tempo. È come se una geniale teoria cosmologica aprisse la possibilità di un nuovo, immenso universo accanto a quello che si credeva totale.

È questo che sfolgora nell’opera di Salvatore Carbone: l’arte come rivelazione, prima ancora che fonte di nuova felicità. Eppure la voce diventa sempre più roca, flebile quasi, sommessa, venata di malinconia e abitata da un senso di sperdutezza profonda. I personaggi che popolano questi lavori divengono maschere, qua e là bagnate di colore: stanno a testimoniare l’ambiguità, la doppiezza, la vanità che, forse, più ineluttabilmente d’ogni altra condizione, segnano la vita e i suoi rapporti. Né tremende, né profetiche ma soltanto dolenti svelano la realtà d’un Carbone segreto che continua a non perdersi, perché continua a credere.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Parola di pasticciere! L’olio extravergine d’oliva salentino batte tutti

di Gianna Greco

Partiamo da lontano, dai tempi in cui gli uliveti dei Messapi rappresentavano una grande risorsa per la loro produttività e per l’ottima qualità delle olive, una in particolare, la Sallentina, menzionata da Catone nel suo “trattato Sull’agricoltura” e da Plinio il Vecchio nella sua opera “Storia Naturale”.

L’olivo selvatico era, ma lo è ancora, chiamato “oleastro”, stesso nome utilizzato dagli anziani della vicina Grecia.

E dopo alcuni millenni ci ritroviamo, ai giorni nostri, a sentirci dire “ma cosa me ne faccio di questi ulivi secolari?”.

…Scusate ma credo sia stata una delle frasi che mi ha maggiormente turbata durante una settimana di studio sull’olio extra vergine di oliva.

Avrei voglia di mantenere vivi e fruttuosi quegli ulivi secolari, solo per la gioia di ammirarli, solo per sdraiarmici all’ombra della enorme chioma con un libro ed un buon bicchiere di rosato a meditare, ma questo è tutto un altro discorso, questo fa parte del mio modo di essere e di amare la mia terra.

Percorrendo la Lecce-Santa Maria di Leuca o risalendo da Lecce verso Bari ed ancora oltre, si può ammirare un panorama che pullula di ulivi stupendi, ognuno dei quali con imponenza attira la mia attenzione. Passerei ore a guardarli, a coglierne le differenze, le posizioni, i segni delle slupature; creature viventi, speciali, quali credo essi siano, almeno per chi ha vissuto sempre in loro compagnia. Una compagnia discreta, silenziosa e gentile, ma allo stesso tempo tanto generosa.

Mi riprendo dalle immagini bucoliche e riparto dalla mia passione per le ricette tradizionali salentine, con delle ricette dolcissime intrise di ricordi come la crostata della nonna preparata con l’olio, quello buono, come diceva sempre lei, le “pastareddhre”, i buonissimi biscottoni da colazione preparati con olio e latte e le “pitteddhre” le crostatine di una pasta sottile fatta con olio e vino, farcite con la “mostarda”, la confettura di uva da vino.

L’olio in pasticceria, purtroppo, è stato soppiantato da altri grassi meno

Dialetti salentini: ‘rrunchiare e ‘rrunciddhare, ovvero il granchio, la roncola e un pizzico di nostalgia … ..

di Armando Polito

Non è il titolo di una favola antica e neppure di una di un autore moderno o contemporaneo o, Dio vi salvi!, mia. È solo un vigliacco espediente per suscitare un minimo di interesse per una materia, la filologia, che a prima vista può sembrare arida e, spesso, aleatoria. Ma quale nostro tentativo di conoscenza, in qualsiasi campo, non è soggetto alla spada di Damocle della provvisorietà del risultato che solo contingentemente appare in esse ma che in una prospettiva nemmeno tanto lontana palesa il suo eterno in fieri? Se pure la filologia è una scienza aleatoria (come tutte le scienze nei risultati, non nel metodo…) essa, tuttavia, si difende molto bene dal rischio di essere arida, perché si occupa della quintessenza della nostra umanità, cioé il linguaggio; e anche solo una parola (talora anche una sillaba o, voglio esagerare, un fonema) può rivelare la fatica del vivere e lo sforzo di tramandarne il ricordo nel tempo. È intuitivo che il dialetto in questa funzione parte, anzi, partiva favorito perché nasceva dall’intrinseca identità territoriale e culturale di una popolazione intesa come maggioranza (sia pure non acculturata e tanto meno letterata), senza il filtro un po’ spocchioso e omologante di una minoranza (acculturata e letterata) che ha guardato da sempre al dialetto con sufficienza, per non dire disprezzo. Mi rallegrerei se l’evoluzione culturale di questi ultimi cinquanta anni avesse portato veramente ad una diffusione della lingua nazionale e, quel che più conta, ad un suo uso corretto e rispettoso della funzione significante. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da una parte un dialetto che celebra la sua agonia nel successo di poche voci per lo più di significato volgare o di origine gergale, dall’altra un uso arbitrario ed opzionale della lingua nazionale nella violazione inconsapevole, perché frutto di ignoranza, (quella consapevole è riservata, da sempre, solo ai poeti) di ogni norma espressiva. Deliranti, poi, sul piano politico, certe posizioni che vorrebbero addirittura imporre la conoscenza del dialetto locale come elemento pregiudiziale per poter lavorare in quel territorio.

E la scuola? Di questo sfacelo non sarà pure l’autrice ma, per la sua responsabilità indiretta (in quanto deve pur sempre obbedire a direttive calate dall’alto), quanto meno complice e connivente, immersa fino al collo in un piano diabolico sotteso dal principio del quanto più il popolo è ignorante tanto più è servo, spudoratamente seguito da tutti i governi alternatisi negli ultimi decenni.

Certo, mi pare di sentir dire, criticare è facile, teorizzare lo è ancora di più, difficile è proporre. Più che difficile, nella situazione che si è creata (emarginazione e scomparsa del dialetto/ignoranza nell’uso della lingua nazionale, a partire dall’esatto significato delle parole), direi che è quasi impossibile. Posso solo ricordare che finché ho insegnato mi è sembrato criminale, oltre che da stupidi, non approfittare del formidabile substrato culturale che il Salento, da sempre porta del Mediterraneo, ha potuto sedimentare nei millenni, tanto più che oggetto del mio insegnamento erano l’italiano, il greco ed il latino. A dire il vero, insegnavo (o avrei dovuto insegnare) pure storia e geografia, però capitava molto spesso (forse con grande piacere non propriamente culturale dei miei alunni…) che le relative ore andassero sacrificate non per parlare dell’economia della Spagna o dell’abilità strategica di Giulio Cesare ma per approfondire, spesso estemporaneamente ispirato dagli alunni più che guidato da una asettica preparazione pregressa della lezione, l’interpretazione di un passo in italiano, latino o greco,  preventivamente smontato nelle sue componenti strutturali  e analizzato in  ogni singola parola.

In questa metodologia didattica era fatale che l’italiano, il latino o il greco evocassero più di una volta nella stessa giornata una voce dialettale e che il tempo trascorresse in un baleno e quasi senza fatica (almeno per me…).

Ecco perché qui posso solo far finta di rivivere una di quelle giornate e, aggirandomi tra i banchi (salivo in cattedra solo per riposarmi e per scrivere tutto quello che andava scritto sul registro di classe e su quello personale, comprese le osservazioni sul malfunzionamento dell’istituto nello spazio destinato alle note disciplinari, che per tutti i miei allievi, nessuno escluso, sono state, invece, un oggetto misterioso) di vedere Pinco Pallino, ragazzo un po’ troppo sviluppato per la sua età, costretto in un banco non adatto alla sua taglia in un disperato tentativo di coniugare una posizione non sbracata con una sufficientemente comoda. Gli avrei subito detto: “Figlio mio, stiracchiati pure un po’ e, se vuoi, fai pure due passi nell’aula, ma non mi chiedere di andare al bagno!”. E, non appena si fosse alzato, approfittando del fatto che in quell’ora  (ma quando si dice la coincidenza…; sì, però, le coincidenze, se non vengono da sole, un insegnante se le deve inventare) si stava leggendo il primo capitolo de I promessi sposi, avrei aggiunto che stava mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate1. Così avrei preso due piccioni con una fava: l’eventuale risata del ragazzo o della classe sarebbe stata la prova che avevano studiato (per esserne totalmente certo, comunque, avrei fatto ulteriori controlli…) e subito mi sarei precipitato ad approfondire aggranchiate. Uno di loro avrebbe preso dall’apposito armadietto il vocabolario di italiano ed al lemma relativo  (visto che la parola cominciava per a gli avrei concesso massimo cinque secondi per trovarla; oggi non basterebbero due minuti…) avrebbe letto pressappoco così: aggranchiàre: intirizzire, rattrappirsi per il freddo; da ad-+granchio+-are. Vedi aggranchire. E ad aggranchire: rendere intirizzito per il freddo; intirizzire, rattrappirsi per il freddo; da ad-+granchio+-ire. Dopo aver chiarito i rapporti tra il concetto espresso dal verbo e il granchio (non bisogna dare niente per scontato, oltre al fatto che ognuno di noi può incorrere in un momento di scarsa lucidità mentale e vergognarsi di chiedere spiegazioni) e l’assoluta innocenza del freddo nel caso di Don Abbondio, avrei chiesto come lo stesso concetto è espresso nel dialetto locale e probabilmente dieci anni fa (difficilmente oggi…) sarebbe venuta fuori (se non da parte dei ragazzi, da parte mia) la voce ‘rrunciddhàre.  A quel punto sarei stato costretto ad invitare i ragazzi a fare una proposta etimologica motivata e se il tentativo fosse fallito, dopo aver chiarito perché le loro proposte non reggevano, avrei solennemente (ogni tanto bisogna pur fare scena!) detto che ‘rrunciddhàre mostrava anzitutto il raddoppiamento della consonante iniziale, il che in qualche caso è dovuto a motivi espressivi ma nella stragrande maggioranza dei casi ad un’originaria preposizione, nel nostro caso ad (perciò, a mio avviso, la voce va scritta, come ho fatto,  con il segno di aferesi ). Dunque: ad+runciddhàre>arrunciddhàre(assimilazione –dr->-rr-)> ’rrunciddhàre (aferesi di a-). Runciddhàre, poi, è da runcèddha che in italiano sarebbe stato roncella, diminutivo di ronca (dal latino runcàre=sarchiare, ben diverso da rhuncàre=russare; dalla stessa radice di runcàre, sempre in latino, è rùncina=pialla) se non si fosse sviluppata la forma ròncola (tutta questione di suffissi) che è sempre dal latino, ma medioevale, rùncula.

Che attinenza abbia la roncola con il nostro verbo lo lascio dire alla relativa immagine di testa e recepire  dall’immaginazione di ognuno.

A quel punto, sicuramente, non Pinco Pallino ma,  (alla strafaccia della privacy!, principio sfruttato secondo me per proteggere più l’intimità dei disonesti che degli onesti i quali, nonostante il famiferato “registro delle opposizioni” al quale hanno provveduto ad iscriversi, continuano quotidianamente a sentirsi, sia pure telefonicamente, rompere le scatole con allettanti offerte) Pier Paolo Giuri (se sta leggendo, un caro saluto!), che si portava ogni giorno appresso il vocabolario del Rohlfs (in parte nella segreta, legittima, per me simpatica e preziosa speranza di cogliermi in fallo…), avrebbe effettuato il suo controllo e, nella fattispecie, la classe si sarebbe lasciata andare ad un applauso che io avrei bruscamente interrotto, colto dal sospetto che mi si stesse prendendo per il culo…

E subito, per vendicarmi (lo ammetto, sono un sano sadico…), avrei chiesto se ci fosse qualche altro termine dialettale che foneticamente in qualche modo ricordasse ‘rrunciddhàre. Probabilmente qualcuno avrebbe detto (in caso contrario l’avrei detto ancora io) ‘rrunchiàre=rannicchiare, il quale, per farla breve, deriva da ad-+*runculàre e *runculàre dal citato rùncula (adrunculàre>arrunculàre> ’rrunculàre> ’rrunclàre>’rrunchiàre).

Altro controllo di Pier Paolo e constatazione che al lemma il Rohlfs non reca etimologia, ma invita solo ad un confronto con il napoletano arronchiare=raggrinchiare. Che per il Rohlfs ci sia un rapporto tra arronchiàre e raggrinchiare, che è alterazione di raggricciare, da griccio=arricciolato, (forse da riccio) incrociato con granchio? Mi pare inverosimile soprattutto per motivi fonetici, dal momento che perfino a me è chiaro che ‘rrunchiàre ha l’etimologia che ho detto nel periodo precedente. Chiedo a Pier Paolo se ha completato la lettura del lemma (di solito un po’ tutti ci si ferma alla prima taverna…) e lui mi dice che alla fine il Rohlfs rimanda ad arrunchiàre. Ci andiamo e troviamo da un latino *adrunculàre=piegare come una roncola, cioè la conferma di quanto da me sostenuto. Questa volta aspetto un po’ per interrompere l’applauso, anche perché non so se è indirizzato a me o al Rohlfs…

Conclusione: per esprimere lo stesso concetto l’italiano ha messo in campo il granchio, dunque l’attività della pesca; il neretino la roncola, dunque l’agricoltura, attività principe della nostra cultura che, non a caso, è essenzialmente contadina.

Sentiamo che la campanella sta suonando e non c’è tempo per altre considerazioni di natura anche non filologica (che qui non riporto per non rubare altro tempo e non certo per paura di beccarmi qualche denuncia per calunnia, che, fra l’altro, mi sarebbe fin troppo facile rimandare al mittente) e noto con piacere che qualcuno stranamente indugia nel preparare l’occorrente per l’ora di educazione fisica che, ufficialmente, è già iniziata.

Forse, dieci anni fa, non era solo un sogno…e oggi ne rimane la nostalgia in tutta la pienezza poetica del suo significato etimologico: dolore del ritorno.


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1 Così il Manzoni dice del procedere di Don Abbondio dopo il suo primo infelice incontro con i bravi.

 

LA SCUOLA A GALATINA NEL 1906

Albert Anker - Passeggiata scolaresca

Scrivevano i nostri padri…

Dal “CORRIERE” del mese di gennaio 1991

 

a cura di Carlo Caggia

Nel mio archivio privato di pubblicazioni antiche galatinesi, esiste un numero di una rivista, “LA SCUOLA PER LA VITA”, datato1 giugno 1906 (anno 1, n. 2).

Il sottotitolo è: Rivista mensile per l’educazione e l’istruzione delle Classi popolari. Redattori i proff. Pietro Papadia-Baldi e Pietro Baldari. Una copia £ 0,15, stampatore “Tipografia economica”.

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Come ogni conoscitore di cose salentine sa, il 1906 è un anno particolarmente importante per le durissime lotte politico-sociali che si svolgevano nel nostro territorio, in particolare da Galatina sino al Sud del Capo di Leuca, per l’emancipazione delle classi contadine ed operaie che rivendicavano, attraverso le Leghe di Resistenza, condizioni di vita e di lavoro più umane e civili (orario di lavoro, paga, ecc.). Non dimentichiamo che nel 1905 a Maglie e nel 1906 a Galatina si hanno i primi contratti di lavoro stipulati in Italia per i contadini e per le raccoglitrici di ulive.

Le organizzazioni operaie si ponevano però anche il problema dell’istruzione popolare, attivando Scuole serali per analfabeti, con l’aiuto e la collaborazione di maestri e professori la cui formazione culturale era positivistica o (quanto meno) socialisteggiante.

È interessante scorrere le pagine di questa rivista di piccolo formato e di sedici pagine perché si potrà avere uno spaccato di qual era la situazione socio-culturale di Galatina. È di particolare rilievo, a pagina 6, una lettera aperta al Cav. Avv. Pasquale Galluccio, Sindaco di Galatina, dal titolo “Pro analfabetismo”. Da questo articolo si ricava che su di una popolazione di 14.086 abitanti (censimento del 1901), solo 4.000 soggetti sanno leggere e scrivere, mentre gli evasori dall’obbligo dell’istruzione elementare (fanciulli dai 6 a 12 anni) sono ben 1.300.

Dice la rivista: “…ci siamo convinti che la maggior parte dei figli dei lavoratori non vanno a scuola o perché i genitori non hanno denaro per comprare loro il pane, qualche vestitino e le scarpe, o perché essi hanno bisogno di sfruttare il lavoro dei teneri figli per provvedere al gramo sostentamento delle famiglie…”.

E continua: “Gli adulti poi non s’istruiscono perché qui mancano le scuole serali e festive”.

Ed ancora: “Ciò premesso, noi ci rivolgiamo alla S.V. per pregarla di fare le pratiche necessarie per istituire, col concorso dello Stato, nel prossimo mese di novembre, corsi regolari serali e festivi per gli adulti…”.

Ed inoltre: “Costituisca dunque la S.V. un comitato delle principali autorità cittadine, di professionisti, insegnanti, ricchi proprietari, caritatevoli e gentili signore, e vedrà, in poco tempo, sorgere nella nostra città le cucine economiche per gli alunni poveri, la refezione scolastica…”.

Sotto il titolo “La sorte di molte idee-pratiche” (pag.14) si riporta un brano apparso sulla rivista “I diritti della Scuola”, in cui si riprende un’idea dell’on. Luigi Cedraro – ex sottosegretario all’Istruzione – che invitava le Società Operaie e le organizzazioni operaie e contadine a fare “obbligo per statuto ai propri soci di mandare a scuola i figlioli”, pena l’espulsione per “coloro che non si sottoponevano a quest’obbligo”.

A circa cent’anni da allora, possiamo rilevare l’ingenuità (per lo meno) di quest’idea, considerando che l’atteggiamento dei genitori-lavoratori era determinato da ben altre motivazioni.

 

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Altre notizie si possono ricavare dalla rivista: in incitamento per l’erezione di un monumento a Pietro Siciliani “gran filosofo, gran pedagogista, grande educatore”; una nota circa il servizio automobilistico in provincia di Lecce (Tricase-Galatina-Lecce, ore 8 di viaggio!), una nota per restauri nella chiesa di Santa Caterina, indirizzata all’on. Antonio Vallone; l’istituzione di una Scuola di Recitazione (ad iniziativa dei signori Pietro Cesari, Giacinto Bardoscia ed Emanuele Bernardini); un corso tecnico-pratico di Lingua Francese, tenuto dal prof. Tommaso Luceri; una serie di lezioni teorico-pratiche sulle concimazioni (Prof. G. Ceccarelli); una conferenza “dell’illustre scienziato Cav. Dott. Cosimo De Giorgi” su “I terremoti salentini e le nostre costruzioni edilizie”.

 

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Ampio spazio viene dato a due scuole superiori: la Scuola Tecnica “P. Cavoti”, con tre sezioni (a tipo comune, commerciale, agrario), con un totale di due classi con 85 alunni, di cui 44 “forastieri” e 25 “giovanette”. Il Consiglio di Amministrazione era composto dal Cav. Avv. P. Galluccio, Presidente effettivo; Cav. Avv. C. Bardoscia, Ing. P. Micheli. Direttore: Prof. Pietro Cesari. Insegnanti: Ceccarelli Giuseppe, Cesari Pietro, Coluccia Maria, Congedo Giuseppe, Leone Emilio, Luceri Pietro, Marra Luigi, Mauro Giuseppe, Panico Giuseppe, Papadia Pietro, Susanna Alessandro.

Il Convitto P. Colonna contava invece 74 convittori, di cui 66 “forastieri” ed era diretto dal Sac. Dott. Rocco Catterina; Censore, Alfonso Castriota, Vice-Censore Ippolito De Maria. I 74 convittori erano divisi in quattro “compagnie” con a testa i relativi “istitutori”.

Circa un secolo è passato da quando si pubblicavano queste cose e si sviluppavano queste tematiche. Quanta acqua è passata sotto i ponti!

Oggi i tempi sono mutati: vecchi problemi sono stati cancellati ma nuovi e più drammatici (basti pensare a droga e disoccupazione giovanile) premono sui nostri giorni.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

VENERINA

 

pizzica

 

di Maria Grazia Presicce

 

Mi disseto al getto fresco della fontana nella piazza e mi ritrovo accanto, lei, la bella ragazza che poco prima avevo ammirato sull’improvvisata pista da ballo.

– Anche voi alla fontana a bere! – Le dico sorridendo.

– Sono assetata e accaldata! – Mi risponde, passandosi una mano sulla fronte imperlata di goccioline luccicanti, sistemandosi delle ciocche che le sfuggivano al controllo.

” VENERINA “, l’avevo soprannominata ed ora Venerina era davanti a me spensierata e aspettava il suo turno per dissetarsi e rinfrescarsi dopo i vorticosi giri di danza.

Per caso, quella sera, mi ero trovata nella piazza prospiciente la Torre a Porto Cesareo: un ritmo musicale a me tanto caro m’aveva attirato e così mi ero avvicinata.

Un Gruppo di musica popolare suonava “la pizzica” su un palco sistemato sulla piazzetta a ridosso del mare e, al di sotto, su una pista delimitata da ” balle” di paglia, la gente ballava al ritmo frenetico di quei suoni.

La fisarmonica e l’organetto aprivano e chiudevano i loro mantici ritmando il respiro della gente e con loro si fondeva e i tamburelli parevano piedi che saltellavano a tempo incuranti della fatica, dell’afa, dimentichi di tutto.

Ero affascinata e sedotta da queste musiche come una calamita e, silenziosa, lasciando indietro gli altri e facendomi largo tra la folla, mi ero portata a ridosso della pista.

L’odore dolciastro della paglia accarezzò le mie nari; rimasi in piedi, qualcuno sedette sul mucchio vicino a me. Per un attimo ebbi la tentazione di gettarmi nella mischia, la pista gioiosa e vibrante pareva invitarmi ma, il mio eterno senso di ritrosia e riservatezza mi trattenne.

Lo supponevo un gesto di sfrontatezza, di disubbidienza.

Avviluppata dalla dolce melodia musicale, guardavo ed ammiravo chi istintivamente e liberamente ballava: gente di qualsiasi età.

Dio, come avrei voluto essere tra loro!

Quel ritmo si dice ” scazzica” chicchessia, ed è vero, bisogna, però avere l’ardimento di lanciarsi nella mischia ed a me quel coraggio mancava.

I miei piedi, però, non riuscivano a trattenersi. Inconsapevolmente accennavano a muoversi furtivamente contro la mia voglia di controllarli, mentre continuavo a guardare estasiata gli altri ballare e gioivo con loro, per loro e per me.

La felicità, l’allegria, la frenesia di quella gente sconosciuta mi contagiava e anche solamente ammirarla mi deliziava, m’inondava l’animo di festosità, facendomi sentire parte di quella marea.

Rimanevo ammaliata: inerte, immobile.

I miei piedi, sotto il lungo vestito, però, tornavano inconsapevolmente a muoversi stuzzicati dal ritmo. Contemplavo tutte quelle gambe saltellanti; il mio sguardo volteggiava festoso con loro. Era come se fossi tra loro e sorridevo compiaciuta, felice inebriata da quei suoni, da quei canti che mi riportavano indietro nel tempo.

Sorridevo a chiunque incrociasse il mio sguardo battendo le mani, allegra come una bimba davanti al suo spettacolo preferito e con la stessa lietezza e schietta naturalezza sorrisi anche a lei che, solitaria, ballava con una grazia e una leggiadria che attrasse la mia attenzione facendo indugiare il mio sguardo.

Bella. Era bella di quella bellezza mediterranea che affascina. Bruna, occhi grandi, vividi, dallo sguardo profondo e spensierato; lunghi capelli neri, lievemente ondulati, le ricadevano sulle spalle incorniciando ed impreziosendo l’ovale del suo volto. Il corpo slanciato e flessuoso era velato da un vestitino aderente, a fiorellini bianchi e blu, con un décolleté che lasciava intravedere il seno sodo. Dietro, il profondo scollo, era ornato da larghe bretelle che s’incrociavano e si chiudevano in vita annodate in un fiocco.

Mi venne spontaneo sorriderle; sorrisi alla sua grazia, al suo fascino, alla sua armoniosità, alla sua semplicità.

Ricambiò il sorriso, compiaciuta e sempre danzando mi si avvicinò e: – Dai!Venga, venga a ballare anche lei -.

-No no grazie! Preferisco guardare – mentii.

Lei, per un po’, continuò a danzarmi vicino. Il caldo umido della sera si faceva avvertire e, sulla pista, attorniata dalla calca, era quasi opprimente. Lei rialzò i capelli con un gesto semplice e consueto e li raccolse in chignon fermandoli non so in che modo e si allontanò.

Era ancora più bella così.

Le sue spalle imperlate di sudore sotto le luci dei riflettori luccicavano. Sembrava ricoperta da piccoli, diafani, diamanti.

I bagliori della luna nuova rischiaravano, di là dalla piazza, i merli dell’alta torre e più in là si riverberavano e s’infrangevano nel mare immoto, che pareva spruzzato d’argento.

E, Venerina, danzava, danzava instancabile: e salterellavano i piedi e volteggiavano le braccia, le mani ed era tutta una movenza che ammaliava e m’inebriava e ogni tanto nel librarsi mi guardava sorridente e, silente, continuava ad invitarmi con un timido cenno.

Ma…. io non potevo raggiungerla.

Volevo, lo desideravo ardentemente, ma rimanevo là, fissa, inchiodata mentre il mio mondo d’immagini si dilatava, si espandeva e il presente ad un tratto si stemperò col passato e: – NO, tu non devi ballare. Non puoi. Le persone perbene non ballano -.

La voce di mio nonno mi ammoniva ed io… rimanevo a contemplare composta, fissa al mio posto.

1 Da Google: Il bosco incantato di Eldy, La Puglia. http://bosco.eldi.it/page/66/?show=gallery&pageid=3803

 

La guerra d’Otranto del 1480/81

turchi a otranto

di Maurizio Nocera

Gennaio 2011: il presidente del Circolo “Athena” di Galatina, prof. Rino Duma, mi dona un opuscolo che cito per intero: “Salvatore Panareo, Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)”.

Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle Memorie di studiosi che si sono interessati e continuano ad interessarsi di quegli eventi. La cronologia essenziale della guerra d’Otranto ci dice che dall’11 agosto 1480 al 10 settembre 1481, gli ottomani tennero occupata la città. Finora gli studiosi ci hanno fatto sapere le stragi e le violenze che essi compirono in Otranto, ma pochi sono stati quelli che si sono posti domande del genere: “Cosa fecero gli ottomani, stando dentro le mura della città? E dopo la tremenda strage degli Ottocento, che tipo di rapporto s’instaurò fra gli abitanti e gli occupanti? Il vettovagliamento come fu organizzato?”.

Salvatore Panareo, nell’opuscolo sopracitato, si pone tali domande precisando che, «malgrado gli sforzi per terra e per mare delle armi cristiane, bisognò tollerare la presenza degl’invasori» (p. 1). Inoltre, egli spiega qual è il motivo della sua indagine: cercare di conoscere quali furono i «tentativi di pace col Turco avvenuti durante la guerra e sulle trattative svoltesi alla fine per il ricupero della città» (p. 3).

Egli ne cita una, questa: «Re Ferrante, allora in Foggia, che, malgrado qualche promessa e qualche sussidio, si vedeva isolato, si aggrappò allora a un disegno che più volte gli s’era affacciato alla mente, quello cioè di ottenere dal Turco pacificamente la restituzione di Otranto» (p. 6).

Furono diversi gli stratagemmi a cui il re ricorse, primo fra tutti quello di servirsi di un ambasciatore ferrarese, che, sia pure conalterne vicende, riuscì ad incontrare, nell’aprile 1481, in Albania (Saseno e Valona), Achmet Pascià e parlargli, magari, come scrive il Panareo, «offrirgli una somma di denaro» come riscatto per la liberazione della città, ma alla fine, tutto sommato, la missione fallì. Questo accadeva prima dell’estate 1481. Dalle cronache, sappiamo che in agosto ci furono gli assalti dell’esercito del duca Alfonso d’Aragona per il ricupero di Otranto, ma senza grandi risultati, che invece arrivarono dopo un altro incontro diplomatico, di cui re Ferrante si servì attraverso tal Dalmaschino, un turco «ritenuto prudentissimo e discreto e fornito anche del privilegio d’intendere e parlare la lingua italiana» (p. 12).

Ci furono ancora altre trattative, alla fine però, scrive il Panareo, ciò che fece precipitare la situazione a favore di Otranto, fu la morte del Sultano Maometto II. Scrive: «Gli assedianti, quantunque avessero i mezzi di resistere ancora qualche mese, pensarono allora a mantenere fedelmente i patti stabiliti e restituirono la città il 10 settembre» (p. 14). Era il settembre 1481, e gli ottomani avevano occupato Otranto per 54 settimane. Oltre che tenere militarmente occupata la città, oltre alle scorrerie fuori dalle mura per rubare e approvvigionarsi dei generi alimentari, cos’altro fecero al suo interno?

Al momento, gli studiosi non hanno approfondito tale tematica, per cui non si conosce molto di quel che accadde durante i 13 mesi dopo il sacco della città. Qualcosa possiamo leggere in alcuni saggi di studiosi stranieri presenti al convegno di Otranto del 1980, le cui relazioni furono pubblicate nel 1986 dall’editore Congedo di Galatina in due tomi intitolati “Otranto 1480. Atti del Convegno internazionale di studio promosso in occasione del V Centenario della caduta di Otranto ad opera dei Turchi (Otranto, 19-23 maggio 1980)”, a cura di
Cosimo Damiano Fonseca. A parere di molti, quello fu il convegno che segnò una svolta negli studi della guerra otrantina del 1480 perché, per la prima volta nella storia, vi presero parte due studiosi turchi, i proff. Sakiroglu e Nejat Diyarberkirli. Dei due, però, conosciamo solo il saggio del secondo, cioè quella del prof. turco Nejat Diyarberkirli, “Les Turcs et l’Occident au XVème siècle”. In essa ci sono alcuni passaggi importanti che ci fanno comprendere da parte turca qual era la situazione politico-militare nel Canale d’Otranto. Eccone alcuni di quei passaggi, ovviamente sommariamente tradotti: «Nel 1479 finalmente, la pace fu segnata tra i Veneziani e gli Ottomani, ma lo stesso anno cominciò la campagna di Otranto da parte degli Ottomani [che] l’11 agosto 1480» (p. 22) assediano la città sotto il comando del’ammiraglio turco Gédik Ahmet Pascià.

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Dopo avere fatto una ricognizione storica sugli avvenimenti collaterali alla guerra di Otranto, Diyarberkirli presenta un percorso che vede «Gedik Ahmed Pascià, prima di mettersi alla testa di questa spedizione [quella di Otranto], conquista le isole di Zacinto, Cefalonia e Aya-Mavra, appartenenti alla famiglia dei Tocco intervenendo così negli affari interni del regno di Napoli. L’anno successivo; Gedik Ahmet Pascià, incaricato di conquistare l’Italia del Sud, vale a dire il regno di Napoli, lascia Valona il 26 luglio 1480 con una forza di 18.000 uomini e 132 navi e arriva l’11 agosto sulle coste della Puglia impadronendosi di Otranto. Costringe poi il principe Alfonso, erede del regno di Napoli, a ritirarsi» (p. 24).

Sostanzialmente, la tesi di Diyarberkirli è che la presa di Otranto da parte degli Ottomani fu il frutto di uno scellerato scambio bellico tra alcuni stati italiani dell’epoca, quali il Vaticano, Venezia e Firenze. Ma oltre a ciò, lo studioso turco nulla aggiunge a quanto già sapevamo dell’occupazione ottomana della città.

Qualcosa in più riusciamo a sapere dalla relazione tenuta quello stesso giorno del convegno dal prof. Charles Verlinden, “La presence turque a Otranto (1480-1481) et l’esclavage”, dalla quale veniamo a sapere qualcosa sul numero degli otrantini ridotti a schiavi e dispersi nell’impero turco. Il dato che a noi interessa è quello che una volta occupata Otranto, ripulite le strade delle centinaia e centinaia di militari e civili morti nella difesa
della città (gli 800 martiri verranno invece ammazzati sul colle della Minerva e lì lasciati a decomporsi), gli occupanti, agli ordini di Achmet Pascià, riducono allo stato di schiavitù i cittadini che si erano salvati. Secondo lo studioso francese in Otranto, all’epoca della tragica guerra, «la popolazione […] non doveva superare le 5.000 – al massimo – 6.000 persone. In effetti, Nicola Sadolet, ambasciatore d’Ercole d’Este a Napoli, informò, attraverso il segretario del re di Napoli, […] che il 16 agosto 1480, Otranto contava 1.000 fuochi e poteva contenere 1.500 uomini armati. Lo stesso Sadolet, dieci giorni più tardi, annota “hanno mandato ala Valona, in una nave più de 500 anime cristiane”. Un altro informatore, Montecatino, parla, il 24, di “dove etiam li
haveno conducte mille anime”. Ammettendo che egli ordinò due invii di prigionieri, ridotti in schiavitù, a Valona e all’interno dello Stato turco e soprattutto verso la sua capitale, complessivamente si arriva ad un totale di 1.500 schiavi. Questa sembra una cifra abbastanza credibile, tenendo conto che ad essa vanno aggiunti gli 800 decapitati e gli uomini uccisi durante i combattimenti e massacrati immediatamente dopo l’ingresso dei Turchi, si arriva sicuramente ad un totale situato tra 2.500 e 3.000 “anime”. […] D’altra parte,
una località di 1.000 fuochi probabilmente si avvicina di più ad una popolazione di 5.000 piuttosto che di 6.000 anime, come dimostra la maggioranza dei dati sui fuochi conosciuti dalla demografia storica, questo sta a dire che i Turchi deportarono ugualmente un certo numero di giovani uomini e donne – sicuramente quelli meglio dotati fisicamente (pp. 148-149).

Secondo me, cogliendo le intuizioni e le domande che si pose a suo tempo Salvatore Panareo nell’opuscolo citato, quasi l’intera popolazione di Otranto del 1480/81 fu estirpata dalla propria città: chi massacrato sotto i colpi delle sciabole ritorte dei giannizzeri; chi invece ridotto alla stato di schiavo e trasferito prima nella città albanese di Valona e dintorni e chi, infine, disperso nel vasto impero ottomano.

Molto probabilmente, all’indomani della partenze degli occupanti, nella città di Otranto non rimase che qualche abitante più la moltitudine dei militari aragonesi. La ricostruzione dei fuochi abitativi di Otranto avvenne sulla base di un sostrato demografico di nuovo e inedito impianto, sicuramente importato da altre zone limitrofe della stessa Terra d’Otranto oppure da altre regioni del regno di Napoli.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Stumpisciàre (calpestare)

di Armando Polito

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È un verbo molto usato nel dialetto salentino ed è sinonimo di calpestare. Esso è la forma intensiva di stumpàre usato tanto per definire l’atto di pigiare l’uva (quando un tempo l’operazione si faceva con i piedi) quanto quello di ridurre in frammenti col pestello una sostanza nel mortaio, come, molto più semplicemente, di pestare i piedi per terra (come fanno di solito i bambini) per esprimere disappunto. Sul segmento -isciàre rinvio il lettore che ne abbia interesse al link:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/

Rimane da chiarire l’etimo di stumpàre. Parto dal maestro: il Rohlfs si limita al confronto “con il greco moderno στουμπόνω (leggi stumpòno)=io pesto”1.

Dopo aver precisato che l’esatta grafia del verbo in questione è στουμπώνω (precisazione, la mia, irrilevante ai fini dell’etimo, tant’è che la lettura rimane sempre stumpòno) aggiungo che nel greco moderno è in uso anche il sostantivo στούμπος (leggi stumpos)=uomo tarchiato. Viene immediatamente da pensare che  στουμπώνω sia derivato da στούμπος con l’aggiunta di un infisso nasale secondo una formazione frequente nel greco classico: per esempio, dal sostantivo τύχη (leggi tiùche)=sorte è derivato il verbo τυγχάνω (leggi tiunchàno)=avere in sorte. Come si fa, poi, a non collegare στούμπος con il salentino stompu/stuèmpu (il secondo è la variante di Nardò) usato come sinonimo di mortaio ma proprio a Nardò nel significato metaforico della voce greca moderna?2

Può essere (me lo dico da solo …), ma cosa si può dire ancora di στούμπος?

Qualche collegamento col greco classico, a parte l’infisso nasale da cui sarebbe nato στουμπώνω, ci dovrebbe pur essere. Credo di averne trovato più di uno: στείβω=camminare sopra, battere (da esso il latino stipàre=accumulare, dal quale l’omologo italiano con lo stesso significato); στέμβω=scuotere, maltrattare: στύφω=condensare, contrarre. Secondo me siamo in presenza di un’unica radice i cui mutamenti fonetici costituiscono il necessario adattamento all’espressione di leggeri mutamenti semantici.

Dopo quella del maestro e quella di chi l’ha, sempre indegnamente, citato per l’occasione, ci sono altre proposte?

Conosco solo quella del Garrisi: “da un incrocio tra greco stumpiz, italiano tombare e leccese zumpare”3.

Disorientato dal prodotto bastardo di tre incroci (spicca il presunto greco stumpiz), sono rimasto senza parole, anche se il silenzio a volte è più eloquente di qualsiasi strillo; infatti il post termina qui …

_______________

1 Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 Per farla completa ricordo pure che stompu a Specchia indicare quel contenitore, prima di creta poi di legno, in cui si metteva il bambino in fasce; sul tema chi ne abbia interesse può andare al link:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/11/23/come-ti-sistemo-il-bimbo/

3 Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino (Le), 1990.

A Lecce nel ’49 il primo caso di obiezione di coscienza

di Giacomo Crippa

 

paceL’allievo ufficiale, Piero Pinna, assegnato alla scuola militare di Lecce, nel gennaio 1949 si dichiarò obiettore di coscienza, rifiutando l’addestramento alle armi. L’ascolto di un discorso di Aldo Capitini* lo portò a questa scelta definitiva. Iniziò cosi per il bancario ferrarese una lunga vicenda giudiziaria,dopo due soli casi precedenti chiusi con l’amnistia togliattana  e una sospensione della pena.

Il Pinna, trasferito da Lecce ad Avellino come soldato semplice, confermò il suo rifiuto; fu così incarcerato e condannato dal Tribunale Militare di Torino per “disobbedienza continuata a 10 mesi di reclusione con la condizionale”. Nel paese si aprì un lungo dibattito, ne scaturirono interrogazioni parlamentari, proposte di legge per il Servizio Civile, già istituito in America ed Inghilterra, da dove indirizzarono petizioni alle più alte autorità italiane.

Richiamato alle armi reiterò l’obiezione, incappando in nuova condanna, ma reso libero dall’amnistia per l’Anno Santo, Pinna si rifiutò di lasciare il carcere di S.Elmo a Napoli. Assegnato al 9° Reggimento di Fanteria di Bari, grazie alla diagnosi invalidante del medico militare, fu riformato il 12 gennaio 1950.

Nei partiti e la stampa confessionale rimase totale la chiusura con gli stessi toni riscontrabili oggi su altre problematiche.

Con l’aumento consistente del numero dei giovani anche cattolici, l’obiezione di coscienza fu riconosciuta nel 1972 come beneficio, nel ’90 come diritto.

Per quanto riguarda Pinna a giorni l’Università di Pisa gli conferirà la laurea honoris causa in  Scienze per la Pace.

Può risuonare una ovvietà, tragica però, ripetere che la conflittualità fra i popoli regredirà solo con l’eliminazione sia degli squilibri interni ed esterni, sia del fiorente mercato delle armi.

 

*Aldo Capitini, Perugia 23 dicembre 1899 – 19 ottobre 1968) fu filosofo, politico, antifascista, pedagogo. Per primo teorizzò il pensiero non violento al punto di essere soprannominato il Gandhi italiano.

 

 

Il fascino della Storia: La donna dei Lumi

 di Giuseppe Magnolo

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Nella sua terza opera di genere narrativo Rino Duma affronta il romanzo storico incentrandolo su una figura femminile del risorgimento italiano, considerato da un punto di vista prevalentemente meridionalista. La Donna dei Lumi è stato pubblicato da Lupo Editore a marzo del 2012, con un saggio introduttivo da parte di chi scrive, di cui riprendiamo i contenuti essenziali con alcune riflessioni suggerite dal recente evolvere degli eventi nel nostro paese.

Come nelle sue precedenti opere narrative, risulta evidente l’intento dell’autore di fornire una precisa contestualizzazione temporale, che in La Falce di Luna (2004) è costituita dall’impegno sociale del protagonista in una dimensione contemporanea, mentre la palingenesi sociale contemplata in La Scatola dei Sogni (2008) parte dall’attualità per investire addirittura il futuribile. Ma in quest’ultimo lavoro si coglie il bisogno dello scrittore di ritrovare in una dimensione storica un po’ più remota le radici dei propri ideali politici e sociali.

Non è difficile comprendere le ragioni della scelta di Rino Duma di operare nell’ambito di un periodo storico così rilevante riguardo alla genesi ed alle possibilità di tenuta dello stato nazionale italiano, focalizzando la sua attenzione su un personaggio come Antonietta de Pace, donna di forte personalità, che si è battuta per i propri ideali con dignità e fierezza. Va ricordato che l’Ottocento ha rappresentato veramente un periodo di rinascita nazionale. Il grande disegno coltivato dagli spiriti liberi del risorgimento italiano era incentrato sull’amor di patria, incardinato sugli ideali illuministici (libertà, uguaglianza, fraternità), culminati nelle rivoluzioni americana e francese di fine ‘700. Ed anche le imprese napoleoniche avevano contribuito all’esaltazione dello spirito di nazionalismo, già presente in molti stati europei sin dal rinascimento, con l’affermazione di dinastie di sovrani riconosciuti a livello nazionale. La caduta di Napoleone e la conseguente restaurazione dei vari dispotismi non riuscirono tuttavia a spegnere gli entusiasmi rivoluzionari rivolti ad ottenere riforme sociali più democratiche,superando la frantumazione in vari staterelli per giungere all’unità nazionale, e contrastando il potere temporale dei papi nello stato pontificio, che agiva da diaframma fra nord e sud creando forti ostacoli all’unificazione.

E’ su questo sfondo storico-sociale che si svolge l’esistenza di Antonietta de Pace (1818-1893), nata a Gallipoli in una famiglia della ricca borghesia cittadina, che assorbì sin dall’infanzia idee liberali e progressiste, unite ad una particolare sensibilità verso le condizioni di malessere dei ceti sociali più poveri. Non sorprende il fatto che attorno a lei già ruotassero varie figure di aderenti a sette sediziose pronti all’insurrezione (il padre, lo zio, il cognato, vari amici intimi). Sappiamo infatti che dietro ogni grande figura di rivoluzionario esiste spesso un marcato ascendente di origine familiare.Ma è probabile che nel determinare l’abito mentale della giovane de Pace abbiano concorso anche motivazioni di natura psicologica, come il fatto di essere cresciuta in una casa di sole donne (era ultima di quattro figlie), in cui la presenza maschile era o delegittimata (un fratello adottivo dal comportamento assai controverso), oppure improvvida (l’avventata attività finanziaria del padre, morto in circostanze dubbie lasciando la famiglia fortemente indebitata). Si tratta di elementi atti a produrre in lei una forte spinta verso l’autoaffermazione, inducendola ad affiancare gli uomini per cospirare, combattere sulle barricate, affrontare con tenacia e spirito indomito l’arresto e la lunga detenzione.

E’ evidente il grande interesse, ed anche l’ammirazione, dell’autore per questo personaggio, sì da poter vedere in questo intenso e sincero afflato partecipativo, più che nell’innegabile ampiezza e organicità dei riferimenti storici, il principale elemento distintivo di questo romanzo rispetto ad altre opere sullo stesso argomento. La protagonista è sempre rappresentata in modo da non venir mai meno al suo ruolo di eroina positiva, determinata e sprezzante del rischio, al punto da essere tenuta in grande considerazione dallo stesso Garibaldi, che oltre ad essere un condottiero era anche abile stratega e conoscitore delle motivazioni che sottendono l’agire umano. Né è di poco conto il fatto che per la sua scarcerazione dopo l’arresto e durante il processo si mobilitasse non solo una parte consistente dell’opinione pubblica nazionale, ma anche le sedi diplomatiche di molti stati europei.

La valenza esemplare attribuibile alla protagonista peraltro è suggerita dall’autore nel titolo del romanzo. Infatti “la donna dei lumi” è un epiteto che racchiudenon solo un riferimento ai lumi della ragione, ma anche alla intensa passionalità che esaltava nella protagonista l’amor patrio, e al tempo stesso connotava il suo universo affettivo e relazionale. Metaforicamente vi è anche un’allusione al bisogno del personaggio di vivere mantenendo costantemente ‘un lume acceso’, ossia avendo sempre un ideale elevato da coltivare. E non è trascurabile che questa “donna di frontiera”, dopo il compimento dell’unità d’Italia, abbia deciso di non vivere di rendita come un qualsiasi politicante, per dedicare le sue energie alla formazione dei giovani nell’ambito dell’organizzazione scolastica.

Una costante nella scrittura di Rino Duma è costituita da una concezione funzionale del prodotto artistico-letterario, una caratteristica che si riscontra non solo nelle sue opere narrative e teatrali ma anche nella sua ampia saggistica. La sua vocazione letteraria risponde essenzialmente ad una “esigenza di didassi”, sia nel senso dell’autoapprendimento (l’autore che mediante la ricerca conosce, riflette, produce) che in quello didascalico (l’invito al lettore a condividere i risultati della ricerca, a tentare di orientarsi, a maturare il suo senso critico). Pertanto il lettore-target a cui può essere destinata un’opera siffatta è preferibilmente rappresentato dai giovani, spesso in cerca di esempi e contenuti motivanti, che possono fornirgli indicazioni sia di metodo (il rigore nel vaglio documentale) che di merito (l’educazione ai valori condivisi).

Dal punto di vista letterario esce confermata anche la tendenza dell’autore verso la drammaturgia, non per nulla i suoi esordi come scrittore sono avvenuti nell’ambito della produzione di opere teatrali. Questo rende conto del fatto che le parti dialogate in questo romanzo, come nei precedenti, siano così frequenti. Oltre a vivacizzare la narrazione dandole carattere di immediatezza, l’interazione dialogica tra i protagonisti agisce da integrazione (ma anche da contrappunto) ai riferimenti di carattere storico. La storia, come in fondo la vita stessa, altro non è che un grande palcoscenico in cui c’è spazio per i protagonisti (Antonietta, i compagni di fede, i familiari), comprimari e caratteristi (figure di spicco come Garibaldi, e così Sigismondo Castromediano, Liborio Romano, ed altri), semplici comparse (amici, servitori, faccendieri, delatori, funzionari pubblici, opportunisti di turno), sino ai personaggi negativi (Ferdinando di Borbone, Michele de Pace, i giudici che infieriscono con pene esemplari sui presunti cospiratori, i comandanti militari sabaudi che fanno strage di popolazioni inermi).

Su questo scenario dolente lo scrittore proietta la percezione di un’Italia politicamente frantumata, e idealmente divisa in molteplici motivazioni contrapposte: neoguelfi sostenitori del papa contro propugnatori dello stato laico, monarchici contro repubblicani, liberali cavouriani contro mazziniani, borghesi contro popolari, ‘piemontesi’ contro terroni meridionali. Soprattutto egli tiene a far emergere con chiarezza (e con rammarico) l’attuazione di una deliberata politica di spoliazione da parte del nord verso il sud dopo il conseguimento dell’unità, con la sottrazione di ampie risorse le cui conseguenze perdurano a tutt’oggi, nonostante il contributo decisivo dato dalle popolazioni del sud sia con l’impiego di mezzi finanziari (interi patrimoni personali estinti per sostenere logisticamente e militarmente la causa insurrezionale) che con l’enorme sacrificio di vite umane.

Al contrario delle parti espositive dell’opera, scrupolosamente attente alla convenzionalità del linguaggio adoperato con gravitas quasi notarile, le parti dialogate riescono certamente più vivaci e accattivanti, in quanto l’autore dimostra notevole inventività e perizia nell’adottare diversi registri linguistici.Lo stile si mantiene costantemente fedele ad un criterio cartesiano di chiarezza e distinzione, che deriva non solo da personale inclinazione ma soprattutto da un’alta considerazione verso il potenziale lettore, che induce l’autore ad evitare qualunque rischio di fraintendimento. Il modulo narrativo adottato è quello del romanzo realista, rivolto da un lato a fornire riferimenti fattuali ed evidenze che li supportano, dall’altro a presentare i personaggi soprattutto “in situazione”, ossia in circostanze di tipo relazionale che ne esplicitano le convinzioni a livello pratico e comportamentale. Si coglie quindi una cura estrema nell’uso dei mezzi espressivi, che ha come obiettivo prevalente la pregnanza concettuale.

Nello sviluppo complessivo dell’itinerario letterario dello scrittore quest’opera rappresenta un punto di arrivo di rilevanza assoluta. L’intervallo di diversi anni tra questo romanzo e le precedenti opere narrative testimonia il suo enorme lavoro di ricerca e maturazione interiore, finalizzato a definire con fermezza le proprie convinzioni e i principi su cui esse poggiano. In sostanza si può affermare che il timone di Rino Duma come scrittore è sempre orientato nella stessa direzione, quella di voler mettere in discussione l’esistente per operare un cambiamento positivo, ma mantenendo ben salda la consapevolezza delle proprie radici. Sotto questo aspetto è lecito vedere in Mauro De Sica, Joe Harrus e Antonietta de Pace (i protagonisti dei suoi tre romanzi) quasi le tre facce di un prisma triangolare, che però nasconde nella base il profilo dello stesso autore. Il che equivale ad identificarli come espressione delle sue aspirazioni ideali, il prodotto di una pulsione identificativa che ha bisogno di caratterizzarsi con connotati apparentemente diversi ma sostanzialmente identici, e che auspicabilmente ha ancora qualcosa di importante da dire.

Riteniamo opportuno aggiungere qualche considerazione conclusiva, che ci viene suggerita dalle mutate condizioni in cui ci troviamo a scrivere. Infatti a distanza di pochi mesi dalla pubblicazione del romanzo la situazione politico-sociale sembra aver subito un profondo sconvolgimento,e non soltanto in Italia ma anche a livello europeo. Se da un lato questo ha consentito al nostro paese di uscire fuori da uno stato di prostrazione e sconcerto morale, dall’altro ha dato consapevolezza di essere sprofondati in una crisi recessiva così grave come non si registrava dal secondo dopoguerra, con conseguenze che imporranno lacrime e sangue per un lungo periodo a venire. Alle difficoltà economiche si sono poi aggiunti anche gli effetti devastanti recentemente prodotti da una intensa attività sismica, insolitamente protrattasi oltre ogni previsione. Alla luce di tali eventi, è possibile riconsiderare anche gli effetti e la portata che la ricerca storiografica può avere nei mutamenti imposti dalla realtà contingente. Siamo convinti che proprio in tempi problematici come questi occorra ritrovare le giuste motivazioni che possono dare speranza di rilancio, riscoprendo i valori fondanti del vivere sociale, che sono lo spirito di sacrificio, il senso di solidarietà, e soprattutto la capacità di adattamento necessaria a fronteggiare l’emergenza. Ma se proviamo a confrontare le difficoltà presenti con le enormi traversie che la memoria storica può trasmetterci, forse potremo anche recuperare un po’ dell’entusiasmo e dello spirito fattivo che ha contraddistinto chi in passato si è adoperato per porre in essere una patria comune.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Santa Maria al Bagno e gli ebrei, tra 1944 e 1945

di Paolo Pisacane

Santa Maria al Bagno, frazione di Nardò, non è un grosso centro: d’inverno vi sono soltanto poche famiglie, ma d’estate è un rinomato luogo di villeggiatura.

Nauna al tempo dei Messapi; Portus Nauna per i Romani; abbazia di Sancta Maria de Balneo per i Basiliani, i Benedettini ed i Cavalieri Teutonici. E’ rinata nella seconda metà del 1800.

La spiaggia, anche se piccola, è ben riparata dai venti, specialmente dalla tramontana, mentre caldo è il clima dall’inizio della primavera ad autunno inoltrato. Non a caso i Romani circa duemila anni fa l’avevano scelta per costruirci le loro terme.

automezzi fermi nella piazza di Santa Maria al Bagno all’epoca dei fatti narrati

Il mare, di una trasparenza particolare, visto dalla collinetta denominata Croce, è di una bellezza quasi irreale con tutti i suoi colori che, a seconda del tempo o dei fondali, abbracciano tutte le sfumature dell’azzurro dal più scuro al più chiaro, per non parlare, poi, del colore purpureo che acquista, quando il sole è basso all’orizzonte.

Non è però solo la parte del mare visibile dall’esterno che è così meravigliosamente bello da guardare, ma, per chi ha la fortuna di poterne esplorare i fondali, resta abbagliato dai fantastici colori e dalle moltissime specie di pesci dalle forme più varie e più cromatiche. In questo scorcio meraviglioso la vita scorreva molto tranquilla, soprattutto a partire dagli inizi del ‘900… poi una notte, subito dopo le festività natalizie del 1943, arrivarono i profughi slavi e, dalla mattina dopo, tutto cambiò.

veduta d’epoca di Santa Maria

Tale territorio era stato scelto per ospitare un campo di accoglienza, in quanto vi erano molte abitazioni di villeggiatura e, quindi, non indispensabili per il domicilio dei proprietari. Moltissimi Slavi furono portati nella notte non solo a Santa Maria al Bagno, ma anche a Santa Caterina e alle Cenate, altre due amene località nel territorio di Nardò, mentre si andava definendo l’iter delle requisizioni delle abitazioni.

Scendevano dai camion ed occupavano le abitazioni, molte volte sfondando le porte e trovandovi, in qualche occasione, gli stessi proprietari. Il rumore dei camion, che andavano e venivano, e il vociare della gente non fecero dormire nessuno quella notte rimasta indelebile nella mente di chi la visse.

gruppi di Ebrei all’ospedale alle Cenate

La vita per la gente di Santa Maria al Bagno cambiò subito: si stava meno in giro e i ragazzi non giocavano più in strada. Per la verità, non tutti erano ostili e alcuni di loro, specialmente chi conosceva un po’ di italiano, cercavano di socializzare con i residenti.

Di solito mangiavano cibi in scatola, che venivano loro dati dall’UNRRA, ma qualche volta mangiavano alla mensa che era stata ubicata nella villa Leuzzi, in piazza, dove dagli addetti alle cucine, quasi tutti di Santa Maria al Bagno, venivano preparati i pasti.

gruppo di ebrei in gita a Gallipoli

Poi, pian piano, dopo qualche mese incominciarono ad andare via; ne rimasero solo poche centinaia, quasi tutti Ebrei. Con loro rimasero tutti i soldati. Dopo pochi giorni, riprese il via vai di camion e automezzi vari, che trasportavano profughi, questa volta tutti ebrei. Il campo era aperto, cioè non aveva alcuna delimitazione e si estendeva da Santa Maria al Bagno a Santa Caterina e da queste, nell’entroterra, fino alle Cenate lungo l’asse della strada tarantina.

Era stato organizzato bene, ed i profughi, appena arrivati, venivano presi in consegna dai soldati inglesi, comandati da mister Herman, che era l’assistente di mister J.Bond comandante del Campo. Messi in fila, erano accompagnati da Paolino Pisacane, abitante del luogo, nominato “mayor” dal comando alleato, alle case messe loro a disposizione.

I nuovi arrivati sembravano molto diversi dai precedenti: nella maggior parte erano molto taciturni e tristi e spesso pensierosi e soli camminavano con gli occhi bassi. E non si riusciva ad immaginare il perché. Lo si sarebbe scoperto solo successivamente attraverso i loro racconti. Altra cosa che meraviglia molto era lo scarso numero di bambini e la quasi totale mancanza di vecchi e di famiglie complete. A Santa Maria al Bagno, ormai, c’era tanta gente come in estate.

C’erano molti soldati inglesi e americani, ma anche di altre nazionalità. Tutto funzionava come in una città e molti artigiani, anche dei paesi vicini, specialmente da Nardò, lavoravano nel Campo, come meccanici, falegnami, elettricisti, sarte, calzolai e muratori.

Ai profughi non mancava certo da mangiare. Gli inglesi, deputati alla gestione del campo, tramite gli aiuti americani, non facevano mancare loro la carne in scatola, il pane bianco, il cioccolato, il  formaggio, il latte in polvere, e tutte le altre cose che la gente del luogo, qualche mese prima, poteva solo sognare. Anche i residenti beneficiarono di tanto bene di Dio, che veniva barattato con arance e limoni, di cui gli ebrei andavano alla ricerca.

Già alla fine del 1944, passato il periodo di diffidenza verso i nuovi venuti, tutti si erano resi conto che gli ebrei erano brave persone, tanto che dalla diffidenza si passò all’amicizia, specialmente tra i giovani, vincendo anche la difficoltà delle diverse lingue.

Continuamente sopraggiungevano profughi in un frequente avvicendarsi in base alle scelte di trasferimenti che gli stessi decidevano, in gran parte soddisfatte.

Nel Campo tutto scorreva tranquillo, quando, il 14 dicembre del 1944, si verificò un fatto grave. Qualche notte prima erano state rubate da un deposito dell’UNRRA alcune centinaia di coperte. Il responsabile del magazzino addossò la colpa agli abitanti di Santa Maria al Bagno per cui si pervenne alla decisione di far abbandonare il Campo a tutti gli italiani, compresi i residenti.

Questi ultimi fra sconforto e sgomento cominciarono a protestare finchè non intervennero il sindaco Roberto Vallone e il vescovo Gennaro Fenizia presso il comandante affinché non si desse attuazione alla determinazione.

Intanto era stato predisposto l’elenco delle famiglie che dovevano sloggiare dal Campo: erano 146 per un totale di 733 persone. Era un brutto Natale quello che stava per arrivare!

I capifamiglia si incontrarono di nascosto e decisero di non accettare l’ordine di abbandonare le proprie abitazioni. Infatti scesero in piazza e davanti alla sede del comando alleato protestarono. Il comandante, anche dopo aver sentito le ragioni dei dimostranti, non mutò la sua decisione, anzi fece schierare i soldati con le armi puntate. Ci furono pure degli spari in aria per disperdere la gente. Tuttavia la protesta non cessò.

Finalmente il 29 dicembre, quando ormai si disperava di trovare una soluzione, dopo un incontro tenutosi in Santa Maria al Bagno tra il comandantela Sub-Section N° 1 dell’A.C. Lt. Col. Oldfield, il capitano Fox ed il prefetto, sentito anche il vescovo che intanto aveva informato della situazionela Santa Sede, si comunicò al sindaco di Nardò che le famiglie stabilmente residenti potevano restare. Le altre, che occupavano le case solo per non farle requisire, dovevano andar via, anche perché continuamente giungevano profughi, soprattutto a partire dalla primavera del1945 a seguito della liberazione dai campi di sterminio e, in genere, della fine della guerra. Sul piano umano fu importante non allontanare i residenti, non solo perché non si impose loro la rinunzia alla propria abitazione, ma soprattutto perché questi poterono offrire concretamente solidarietà, tolleranza e collaborazione, facendo scoprire agli ebrei, da anni perseguitati e resi al disotto degli animali da braccare e uccidere, il senso della vita, il rispetto della dignità, la serenità della tolleranza e il gusto della libertà.

I nuovi venuti erano tutti Ebrei di nazionalità polacca, in prevalenza, ma anche greca, albanese, austriaca, macedone, rumena, russa, tedesca, slava e ungherese. Questi avevano anche un proprio corpo di polizia, composto da una quindicina di persone e comandato da un certo Elia, un ebreo di origine greca, molto bravo ed in ottimi rapporti con i residenti.

Nel Campo, la cui punta massima di ospiti fu di oltre 4 mila unità, vi era quanto necessario per   ricordare ai profughi la propria religione e le proprie tradizioni, tra cui la sinagoga, allocata in un locale dell’attuale piazza Nardò, la mensa,  il centro di preghiera per bambini e orfani, il kibbutz “Elia” nella vecchia masseria in località Mondonuovo e, infine, il municipio nella villa Personè (ora villa De Benedittis).

Erano assicurati tutti i complessi servizi necessari alla vita di una comunità  di tali dimensioni, tra i quali l’ospedale e il servizio postale. I ragazzi più piccoli frequentavano la scuola in Santa Maria al Bagno, mentre i più grandi il ginnasio e il liceo a Nardò.

I ragazzi italiani familiarizzavano sempre più con i ragazzi e le ragazze ebree. Erano sempre presenti in tutte le feste, specialmente quando si ballava o c’era la possibilità di assaggiare i saporitissimi ed abbondanti dolci che venivano preparati.

La loro cucina, molto diversa da quella dei locali, incuriosiva non poco quest’ultimi che si meravigliavamo nel veder preparare le polpette con la polpa di pesce cotta nel brodo zuccherato, sempre di pesce; oppure bagnare il pane nel latte preparato con il latte in polvere per essere passato nella farina e, dopo averlo zuccherato, essere usato per colazione con il thè. I dolci erano la loro specialità! Ne facevano di tutti i tipi, forme e sapori.

Durante la loro permanenza si celebrarono, e non solo all’interno della loro comunità, circa 400 matrimoni, uno dei quali tra una ragazza del luogo Giulia My e Zivi Miller, autore dei tre murales, che era scampato, con una fuga rocambolesca durante un trasferimento, dal campo di  concentramento dove aveva perduto la moglie e il figlio.

Nelle ville delle Cenate alloggiarono gli ufficiali inglesi, delegati a gestire il Campo. Nella villa “Ave Mare”, sulla strada per Santa Caterina aveva sede l’alloggio e la mensa delle Crocerossine, e a Villa Tafuri, nelle vicinanze del parco di Portoselvaggio, il club Ufficiali della RAF. In questa villa venivano spesso organizzate feste da ballo, dove si poteva anche mangiare e bere a volontà.

Anche i giovani italiani frequentavano le feste con le loro amiche ed amici ebrei. Non mancarono gli spazi per il divertimento: campo di calcio presso l’Aspide (tra Santa Maria al Bagno e Santa Caterina), spettacoli e feste da ballo presso il circolo delle “Due Marine” a S. Maria al Bagno.

Durante una festa presso Villa Tafuri giovani ebrei dimostrarono tutta la loro amicizia ai coetanei italiani. I soldati inglesi, forse ingelositi perché le ragazze preferivano stare con i giovani italiani, decisero di mandarli via, ma dovettero recedere subito dalla loro decisione non appena si accorsero che anche le ragazze e i ragazzi ebrei in segno di solidarietà stavano  abbandonando la festa.

Gli Ebrei si trovavano bene, ma sapevano anche che un giorno sarebbero andati via: chi in America, chi sarebbe rimasto in Europa e forse in Italia, chi in Australia e chi ancora in Sud America. La meta preferita era però la loro “Terra Promessa”, dove era nato ed era vissuto per millenni il loro popolo. Sapevano, però, che questo non era facile per l’ostruzionismo degli inglesi, filoarabi, sui cui territori avevano il  protettorato.

Contro la posizione inglese, in campo internazionale, era molto attiva la società segreta Betar (B: Brit, patto + Trumpeldor, eroe ebreo), nazionalista, cui aderivano molti giovani, così come alcuni presenti nel Campo.

Pertanto non mancarono aspetti politici né giovani che poi sarebbero stati personaggi importanti per lo stato d’Israele, come Dov Shilanski, deputato al Parlamento d’Israele (Knesset) dal 1977 al 1996, di cui fu Presidente dal 1988 al 1992.

Stando ai ricordi dei residenti del posto, ma per adesso non ancora supportati da alcun documento, furono presenti anche personaggi di rilievo per il futuro Stato d’Israele, come David Ben Gurion,  all’epoca P r e s i d e n t e del l ‘Organizzazione ebraica mondiale e nel 1948 guida politica per la proclamazione dello stato d’Israele, di cui sarà il primo presidente, e Golda Meir, che sarà per molti anni Primo Ministro ed importante punto di riferimento per il suo paese.

Testimonianza dell’attività politica è rappresentata da tre murales, realizzati in altrettanti muri in una casetta, al tempo adibita a deposito. Nel 1947 il campo fu chiuso. Molti ebrei lasciarono con dispiacere i loro amici italiani. Si scambiarono gli indirizzi e si promisero a vicenda che si sarebbero tenuti sempre in contatto.

Successe per un po’ di anni, ma poi i contatti finirono anche se nel cuore rimase sempre il ricordo del tempo passato assieme.

E poi erano e sono lì i murales, anche se anch’essi, lentamente si stanno consumando.

Il murales centrale racconta la storia degli Ebrei, liberati dai campi di concentramento, raffigurati nel disegno dal filo spinato al centro dell’Europa, fino all’arrivo a Santa Maria al Bagno, nel Sud dell’Italia, dove l’identico teorema lunghissimo di persone riprende gioiosamente il cammino versola Terra Promessa, raffigurata dalla stella di David e dalle palme del deserto (le scritte: diaspora, sx, e Terra d’Israele, dx).

Il murales di sinistra evidenzia la religiosità del popolo ebraico, raffigurando il candelabro a sette braccia, posato su un altare con due soldati ebrei ai lati (le scritte: In guardia, sotto, e, ai lati della stella, Tel-Hai, dove fu ucciso il patriota Trumpeldor.

Il murales di destra presenta una madre con due bambini, che, al di qua di un posto di blocco, chiede ad un soldato inglese di poter entrare in Gerusalemme, ma invano: gli Inglesi osteggiavano la costituzione dello Stato di Israele (le scritte: Aprite le porte, tra la donna e il soldato, e Tel-Hai sulle bandiere).

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Antica presenza ebraica a Grottaglie. L’attività di tintori e conciapelli

 

La festa delle trombe

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare comune. Grottaglie, Bottega Tromba di S. Pietro (bottega Vestita, Grottaglie)

di Rosario Quaranta

 

Stando a una tradizione medievale, la presenza di ebrei in alcune città della Puglia risalirebbe addirittura agli anni immediatamente successivi alla caduta di Gerusalemme del ‘70 dopo Cristo ad opera di Tito e alla conseguente deportazione degli abitanti: “Quelli che (Tito) stabilì in Taranto, Otranto e in altre città della Puglia fu di circa 5.000”si legge nell’opera  Sefer Iosefon risalente al X secolo. Se questa notizia suscita qualche dubbio o perplessità circa la realtà storica dell’avvenimento, non altrettanto si può dire circa la presenza di ebrei nella città bimare a partire dalla fine del quarto secolo dopo Cristo, che è attestata  da una consistente documentazione epigrafica in greco, latino ed ebraico, conservata nel Museo Nazionale di Taranto e da molti altri documenti che Cesare Colafemmina ha studiato e proposto nella monografia Gli ebrei a Taranto: fonti documentarie (Bari 2005).

Per l’illustre studioso quella degli ebrei fu una presenza piuttosto consistente che diede vita a una vera e propria cultura ebraica pugliese e che vide nei secoli VIII-IX una grande fioritura poetica.  Poiché la maggior parte delle iscrizio­ni sono in latino, si pensa che la colo­nia ebraica si identificò con l’elemento latino-longobardo piuttosto tollerante nei loro confronti. I Longobardi presero Taranto tra il 670 e il 680, togliendola a Bisanzio, e la tennero fino all’840, quando venne occupata dagli Arabi, scacciati a loro volta 40 anni dopo dai Bizantini che ripristinarono la cultura greca.

Un riferimento ufficiale alla presenza degli Ebrei a Taranto si ritrova  nel diploma del 1133 di  Ruggero II (confermato poi nel 1195 da Enrico VI di Svevia) in cui il re normanno, accogliendo le richieste del vescovo Rosemanno, concesse a lui e alla sua chiesa le donazioni e i privilegi già fatti dal duca Roberto il Guiscardo, dal prin­cipe Boemondo e dalla madre di questi Costanza. Fra le dona­zioni c’erano molti casali tra i quali Grottaglie, ma c’erano pure i redditi sulle attività dei giudei della città.

Grottaglie. La gravina del Fullonese. Qui gli ebrei, prima di trasferirsi nella Giudecca, esercitarono le loro attività di tintori e conciapelli

Oltre che a Taranto, ebrei e neofiti si impiantarono in alcune località vicine. Altri vi immigravano da sedi più lontane. Talora si trattava di presenze occasionali dovute a motivi commerciali o professionali, come a Massafra. Presenze stabili sono attestate a Grottaglie, Martina Franca, Manduria, Castellaneta. In que­st’ultima cittadina è ancora in uso il toponimo Via Giudea. La vita degli ebrei a Taranto non era fatta solo di commercio, artigianato, prestito bancario. Alcuni codici ebraici del XV seco­lo ci illuminano sugli aspetti più profondi dell’identità ebraica, quella culturale e religiosa (…).

Federico, figlio di Ferrante I d’Aragona, con i Capitoli del 12 giugno 1498 concesse agli ebrei una lunga serie di garanzie e di riconoscimenti di diritti. Successivamente, con la conquista spagnola del regno di Napoli (1503) si assistette al tramonto e alla fine del Giudaismo dell’Italia meridionale, dapprima col bando di espulsione del 1510 di Ferdinando il Cattolico che interessava tutti i giudei e i “cristiani novelli”, salvo poche eccezioni; e infine con Carlo V che “nel maggio 1541 emanò un decreto con cui ordinava senza pietà a tutti i giudei che abitavano nel regno di Napoli di uscire dalle sue terre entro il mese di ottobre. Entro la data stabilita, i giudei pugliesi lasciarono il Regno: alcuni si avviarono alla volta di Roma, gli altri si imbarcarono chi per Venezia, chi per Ragusa, la maggior parte per Corfù e Salonicco. Restarono solo quei neofiti che si erano assimilati alla popolazione cristiana e nella quale poco per volta si dissolsero. Ma le autorità non li dimenticavano, e per parecchio tempo restò loro appiccicata la qualifica, invero poco onorevole e sempre fonte di sospetti, di “cristiani novelli” (Colafemmina).
Secondo alcuni documenti e una tradizione costante, anche a Grottaglie si è registrata quindi una attiva presenza ebraica tra basso Medioevo e primo Cinquecento.

Inizialmente, secondo la ricostruzione fatta da Ciro Cafforio nella monografia La Lama del Fullonese (Taranto 1961), essi si stanziarono nella gravina del Fullonese per esercitarvi la tintoria e la concia delle pelli, come il toponimo lascia intendere: “i giudei venuti in quel tempo, nella nuova dimora trovarono condizioni favorevoli all’esercizio e allo sviluppo dei loro mestieri. La pastorizia e l’allevamento di bovini di razza pregiata, detti dal pelo lom­bardo, erano praticati su larga scala dai naturali del luogo e forniva­no le pelli da conciare; i boschi poi offrivano abbondantemente fo­glie di lentischio e di corbezzolo, cortecce di quercia e noci di galla: vegetali questi che, contenendo grande quantità di tannino, di acido gallico e di mannite, erano usati direttamente come materie concian­ti. In molte antiche scritture una contrada dell’agro di Grottaglie è chiamata «Monte di Giuda seu la strada di Ceglie». Essa veniva a trovarsi al nord-est dell’abitato ed è così precisata nella Platea dei beni della Mensa Arcivescovile di Taranto. Per essere detta località macchiosa con cespugli di corbezzoli e di lentischi, non sembra difficile che i giudei del Fullonese l’abbiano presa in enfiteusi o secondo l’uso longobardo col sistema curtense, donde il nome «corte » per la raccolta della «frasca». Sugli spalti della lama è ancora visibile qualche vasca di macerazione, scavata nella roccia. L’acqua necessaria a tale uso sulle prime fu attinta da pozzi esistenti nel fondo valle; in seguito, per le maggiori necessità, il Pubblico Reggimento fece scavare dei pozzi di acqua viva a po­nente della lama nel luogo che da allora si disse «de puteis novis» (…).

Antichi mestieri a Grottaglie: lu cunzatòri e lu panaràro in un acquerello di Angelo Pio De Siati (1998)

In conseguenza poi del mestiere di tintori, la tradizione ricorda che gli Ebrei diffusero negli orti e nei giardini di Grottaglie la cul­tura del melograno, il frutto del quale, come è noto, dà la corteccia che si usa per tingere di giallo le stoffe e i marocchini. Circa la religione, è superfluo dire che gli immigrati, quando si stabilirono nella lama del Fullonese, professavano il giudaismo, al quale rimasero fedeli ancora per qualche secolo. Il luogo in cui si riu­nivano per pregare e leggerela Scritturaè visibile anche oggi. Sulla fiancata destra della lama e propriamente quasi alla metà, là dove il solco vallivo forma un gomito più accentuato, si aprono due grot­te discretamente conservate (…). Con la costruzione delle mura del paese, le grot­te della lama del Fullonese vennero tagliate fuori e allora gli abitan­ti si ridussero nell’area fortificata. Gli Ebrei ebbero a loro disposizio­ne un rione nella parte sud-ovest del paese, vicino alla porta S. An­tonio. Il rione fu detto «la Giudeca»; la strada di accesso «de li cuoiai » prima, e «delli scarpari» poi. La chiesa ivi esistente fu detta S. Stefano «dei Giudei» (…). La conversione fu una conseguenza naturale  della convivenza col popolo grottagliese e una necessità. Anche a volersi mantenere fedeli alle tradizionali credenze, come è il carattere spiccato dei giu­dei, gl’inevitabili rapporti economici e sociali con i cristiani, annessi e connessi con i mestieri che esercitavano, indebolirono a poco a po­co l’intransigenza dei loro principi religiosi. Ma fu anche una neces­sità : 1) per beneficiare delle concessioni e privilegi che i principi lar­givano agli abitanti di Grottaglie; 2) per sottrarsi alle decime dovu­te all’Arcivescovo di Taranto, che per giunta era feudatario del luogo; 3) per liberarsi dal disprezzo col quale venivano fatti segno nella settimana di Passione, quando cioè la Chiesa commemora la morte di Cristo, dovuta proprio ai giudei.

Questi novelli cristiani nel corso dei secoli esercitarono sempre i mestieri di tintori e di conciapelli; alcuni si elevarono al rango di commercianti, tenendo botteghe di «pannacciari di piazza, propria­mente sottola Ven. Confraternitadel S.S. Rosario». Essi portaro­no la loro attività a sì alto grado da meritare l’esenzione delle tasse, caso unico nella storia ferocemente fiscale di Grottaglie che si di­batteva in deficit e debiti, liquidati solo quando fu abolito il feudalesimo (…) I giudei, entrando dunque ad abitare nella cerchia delle mura di Grottaglie, al principio del secolo XIV si unirono ai Grottagliesi anche spiritualmente, e contribuirono in tutti i tempi a dar lustro alla patria adottiva.”

Censuario del 1417 incui viene riportato il nome di Nicolao, un ebreo “neophita” o “cristiano novello” di Grottaglie

Altre testimonianze documentali sulla presenza degli ebrei a Grottaglie, oltre quelle richiamate dal Cafforio, ho potuto ritrovarle in alcuni codici e pergamene dei secoli XV-XVI conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Taranto e nell’Archivio Capitolare di Grottaglie, e in particolare:
a.    Registro censuario del 1417 in cui si parla di una casa e di un terreno locati rispettivamente per venti anni e in perpetuo  a “Nicolao neophito”, ossia a un giudeo convertito al cristianesimo (Registrum exaratum in anno MCCCCXVII pro Maiori Ecclesia Annunciationis Criptalearum, Ms in Archivio Arcivescovile di Taranto).

La pergamena del 1486 incui figurano i nomi dei due giudei di Grottaglie, Mosè e Giacobbe

b.    Una pergamena del 12 agosto1486, in cui si fa riferimento al diacono Angelo de Gasparro che chiede copia di una sentenza del capitano arcivescovile Darede de Cava, riguardante i giudei Mosè e Giacobbe da Rossano contro Mico de Michi (Archivio Capitolare di Grottaglie, Pergamene, Notaio Cataldo De Tipaldo)

  1. Alcuni riferimenti nel protocollo del notaio Federico Ciracì (Federicus Cirasinus) dai quali si ha notizia di una località extraurbana denominata S. Pietro de Iudeis (Atto del 2 novembre 1531) e dell’esistenza della Giudecca presso le mura (in convicinio de Iudeca iuxta moenia; atto del 24 gennaio 1532). In quest’ultimo documento il venerabile D. Donato Ristaino affitta a mastro Geronimo Manigrasso una casa palazzata con camera e cisterna sita appunto nel rione della Giudecca, per nove anni e per cinque ducati l’anno, per farci una conceria di pelli e per esercitarvi tutte le attività connesse all’arte del conciapelli.

Gli Ebrei avrebbero lasciato il ricordo della loro permanenza a Grottaglie non solo nella onomastica e nella vita economica, ma anche in una manifestazione folcloristica che si svolgeva annualmente il 29 giugno.

Si tratta della festa delle trombe che così viene descritta dal Cafforio: “questa consisteva nell’allietare maggiormente la ricorrenza religiosa col suono delle trombe di argilla, di fabbricazione locale, dai primi vespri della vigi­lia fino alla notte del 29 giugno. Simpatica pratica folcloristica, que­sta, e forse unica nella nostra regione, che fu anche introdotta in Grottaglie dai cristiani novelli. È  noto che gli Ebrei usarono le trom­be da principio nel Tabernacolo nei giorni delle feste solenni, quan­do immolavansi gli olocausti e le vittime di pacificazione; in seguito nel tempio per annunziarvi le feste solenni, l’ingresso del giorno di sabato e i giorni della luna nuova (…) I ragazzi, appena venuti in possesso delle trombe, toccavano, co­me suoi dirsi, il cielo col dito le provavano, tentavano gli acuti da prima con cautela per non impressionare bruscamente gli orecchi dei familiari e poi a gran fiato. Chi poteva uscire all’aperto, sulla strada o in cortile, si sbizzarriva a volontà, e così il frastuono comincia­va. Ma il più alto grado dello strepito si raggiungeva la sera della fe­sta nei pressi della chiesa di S. Pietro (…) A notte alta tornava il silenzio e quei suoni non si sentivano più per un anno preciso, perché a festa finita gli strumenti di argilla anda­vano in frantumi.”

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare ritorto. Grottaglie, Bottega Caretta, Grottaglie

La “festa delle trombe” (e chi scrive la ricorda bene), interrottasi per molti decenni, è stata ripresa con successo da qualche anno grazie al “Piccolo Teatro di Grottaglie”. E così anche quest’anno, il 29 giugno, giorno consacrato ai santi Pietro e Paolo, nella piazzetta antistante la piccola chiesa dedicata al principe degli apostoli, sarà possibile ascoltare, tra canti, poesie e musiche popolari, quel caratteristico, roco suono delle effimere trombe in terracotta che rinnoverà il ricordo di una tradizione che si perde nel buio dei tempi.

Libri/ Gertrude e Samuel Goetz, sopravvissuti alla Shoah

di Paolo Vincenti

Una drammatica testimonianza di vita vissuta. In due toccanti memoriali,  In segno di gratitudine e Senza Volto , i coniugi Gertrude e Samuel  Goetz ricostruiscono la propria straordinaria esperienza di sopravvissuti alla Shoah. I Goetz, reduci da una delle pagine più dolorose e terrificanti della storia del Novecento, sono stati protagonisti di una serata,  organizzata lo scorso anno dall’Associazione  “Emergenze sud-Presidio del libro di Parabita”, in collaborazione con la Pro Loco di Ruffano e l’Associazione “Soap” di Ruffano, presso il Teatro di Via Paisiello a Ruffano.

Samuel e Gertrude Goetz,  intellettuali  ebrei di origine polacca e austriaca, che oggi vivono negli Stati Uniti, hanno intrecciato il proprio destino con quello  della guerra e della segregazione razziale  e la fuga dall’abominio e dalla repressione di un  regime spietato e violento li ha portati  in Italia dove, durante gli anni della seconda guerra mondiale, si rifugiarono  per scampare alla persecuzione nazista.

Fu proprio il campo rifugiati di Santa Maria al Bagno, Nardò, ad accoglierli.  Qui, i due perseguitati si conobbero e qui nacque il loro amore, prima di essere  separati dalle vicende belliche e ritrovarsi poi nuovamente in America dove si trovano tuttora,  a Los Angeles, California, alla soglia degli ottant’anni, dopo una vita lunga  e intensa ma piena di soddisfazioni. Samuel e Gertrude Goetz sono tornati in Italia per un ciclo di conferenze organizzate dall’Associazione Presidi del Libro e da Besa Editore.  E  Ruffano ha avuto l’onore di ospitarli la sera del 23 aprile, quando i due autori sono stati intervistati da Sonia Cataldo, responsabile del  Presidio del Libro Parabita,  Paolo Vincenti, Presidente Pro Loco Ruffano e Elena Pistone dell’Associazione Soap Ruffano,  per un’iniziativa  promossa dalla Regione Puglia e dall’Associazione Presidi del Libro e  patrocinata dal Comune di Ruffano.

Il primo memoriale è quello di Gertrude Goetz,  “In segno di gratitudine” (Besa Editore), nel quale l’autrice ripercorre la propria dolorosa esperienza di profuga ebrea negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Dall’Austria, il paese di origine, che la aveva vista bambina felice e adolescente spensierata, all’Italia dove, insieme alla propria famiglia, compie un viaggio che dal Brennero la porta in Salento, nel campo profughi di Santa Maria al Bagno- Nardò dove, scrive l’autrice nella Prefazione “ all’età di dodici anni, compresi per la prima volta il significato di libertà, sicurezza e di conforto amichevole. Fu lì che io e i miei genitori ci rendemmo conto di non essere più in pericolo, di essere sopravvissuti e di aver riconquistato il diritto di vivere.. . In piedi su un’altura, vidi un paesaggio paradisiaco, una distesa di acqua di mare calma, di colore blu intenso e, sulla riva, un paesino pittoresco, Santa Maria. Fui letteralmente sopraffatta da un senso di rinnovata gioia di vivere e di speranza in un futuro migliore.” Qui, Gertrude conosce anche Samuel,  l’amore della sua vita, prima di partire per gli Stati Uniti, ossia per il viaggio definitivo,  in un paese dove, però, ritrova il suo amato compagno dal quale non si separerà più per tutta la vita. “Santa Maria rappresenta anche il periodo della ripresa degli studi. Iscritta al Liceo di Nardò, vi fui accolta con calore”, scrive ancora Gertrude. “Eravamo sopravvissuti, avevamo un tetto, eravamo provvisti di tutto il necessario e avevamo trovato la calda ospitalità della piccola comunità di Santa Maria. Sulla sua spiaggia conobbi molti italiani e feci amicizia con un giovane più grande di me di tre anni che ancora oggi, a distanza di cinquantacinque anni, è il mio compagno di vita. Ho serbato per me il ricordo dei giorni trascorsi a Santa Maria e l’ho condiviso con i figli e con i miei numerosi nipoti che non vedono l’ora di visitare Santa Maria e ammirare con i loro occhi quel che hanno ascoltato dalle mie parole”. Il libro reca una Prefazione di Fabrizio Lelli e una Postfazione di Paolo Pisacane, presidente Associazione Pro Murales Ebraici Santa Maria al Bagno. E proprio la madre e la zia di Pisacane compaiono, insieme a Gertrude, nella bella foto in bianco e nero che campeggia sulla copertina del libro; una foto che ritrae tre belle ragazze sedute sugli scogli di Santa Maria al bagno con, alle spalle, il nostro inconfondibile Mare Ionio salentino. Nel 1949, Gertrude venne ammessa negli  Stati Uniti d’America e si stabilì a Los Angeles- California,  dove ha conseguito diverse lauree e ha lavorato come bibliotecaria e insegnante in un liceo. Ora è in pensione ma ancora molto attiva sul fronte della promozione culturale e  della memoria storica, come il suo soggiorno di questi giorni in Salento conferma.

“Senza volto “ (Besa Editore) è invece il titolo del libro di Samuel Goetz, ebreo di origine polacca che a differenza della moglie ha vissuto in prima persona l’esperienza di internato in un campo di concentramento nazista, ad Ebensee (Austria) e  a Cracovia.  Nel  suo memoriale  ricostruisce con una lucida analisi gli anni di quel cammino di dolore e poi, capitolo dopo capitolo, tutte le peripezie di un’avventura umana davvero incredibile ma, per un inspiegabile disegno del destino, dal lieto fine; ed è proprio la sua sopravvivenza che lo ha fatto, e lo fa ancora, un privilegiato, una persona diversa, per qualche oscuro disegno del destino, da tante altre come lui che hanno invece trovato la morte nei lager . Dopo la narrazione degli anni bui, di deportato e profugo in Italia, Samuel ricostruisce, nell’ultima parte del libro, gli anni della ritrovata serenità, della nuova vita in America, dove è stato professore alla UCLA, l’Università di Los Angeles, città in cui egli ha vissuto e vive tuttora insieme alla sua numerosa famiglia.

L’autore dice di essersi interrogato spesso sull’utilità di scrivere un libro su quella drammatica esperienza, ferita aperta nel cuore dell’Europa del Novecento, abominio inenarrabile,  che egli stesso definisce  “un tradimento della storia”. Ma gli accadimenti politici degli anni Ottanta e Novanta con quelle ondate di revisionismo storico in cui “pseudo scienziati”, come li definisce Sam , cercavano di negare l’evidenza storica dell’Olocausto e dei campi di sterminio, lo hanno convinto a mettere nero su bianco la propria esperienza,  a futura memoria. La rabbia, la frustrazione, il bisogno di reagire ai negazionisti, unite al desiderio di raccontare ai propri figli ed ai propri nipoti quello che era successo, lo hanno portato a farsi attivista in questa nobile causa di salvaguardia della memoria storica. Ed è proprio la testimonianza diretta dei protagonisti di quegli anni, come Sam e Gertri Goetz , che aiuta anche noi a non dimenticare l’Olocausto, a non dimenticare a quali degenerazioni può arrivare la bestia umana quando è assetata di sangue. E un incontro così emozionante come quello che si è svolto a Ruffano aiuta anche una piccola comunità del nostro Salento a capire che non è solo un mese della memoria che ci  può far riflettere su quello che è stato e su quello che ancora è  la nostra storia.

 

Il dodicesimo quaderno. Gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz

dodicesimo quaderno

di Floriano Cartanì

Pare che si conosca oramai quasi tutto del genocidio nazista perpetratosi nei confronti degli ebrei nei campi di sterminio. Pur tuttavia è veramente difficile, ancora oggi a distanza di oltre mezzo secolo, riuscire a tacitare la propria coscienza per quanto è stato. Se da un lato le storie riportate dai sopravvissuti si equivalgono in termini di terrore, paura ed odore di morte, dall’altro si è andato sempre più scoprendo, quel raccapriccio dell’anima, quell’annientamento identitario della stessa umanità i quali, oseremmo quasi dire, arrivarono prima di quelli fisici e della stessa morte. Le miriade di vicende e di vite di questi malcapitati, testimoniate soprattutto nel corso dell’ultimo ventennio, sono stati un crescendo.

Solcando questa scia, che dalla vicenda storica prende lo spunto più vitale e fondamentale, si inserisce a pieno titolo ”Il dodicesimo quaderno. Gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz”, pubblicato dalle edizioni la Meridiana nella collana Passaggi, (pp. 72, Euro 12,00), scritto da Giuseppe Bovo, che ne ha tratto anche un meravoglioso testo teatrale portato in scena col titolo de: “La ragazza Olandese”.

Si tratta di una sorta di testimonianza su Etty Hillesum, fatta rivivere dall’autore attraverso questo libro, che ne rievoca la vicenda drammatica consumatasi in meno di tre mesi ad  Auschwitz, dal 9 settembre 1943 fino alla sua morte avvenuta il 30 novembre dello stesso anno.

Circa novanta giorni di vita dall’arrivo nel campo di sterminio, era non la regola ma l’eccezione di questi perseguitati. Infatti solo il 25% di loro, soprattutto uomini sani ed abili al lavoro, una volta scesi dai vagoni prendevano la strada dell’orrore e della sofferenza. Per il restante 75% (quasi tutte donne, bambini, anziani, madri con figli) rimaneva invece appena il tempo strettamente necessario a consumarsi nelle camere a gas. Tra questi ultimi ricedettero anche i genitori di Etty, arrivati con lei nel campo, insieme ad altri 986 ebrei olandesi, provenienti da Westerbork. Per Etty, molto giovane e ritenuta abile al lavoro, si spalancarono invece le porte di Birkenau, succursale femminile di Auschwitz. L’autore, in questo racconto, fa leva su una particolare caratteristica di Etty, che l’aveva accompagnata nei due anni precedenti, nei quali la protagonista aveva raccontato la sua vita in undici quaderni. A questi Giuseppe Bovo aggiunge un inesistente quanto veritiero dodicesimo quaderno, nella cui redazione la penna appare quasi guidata dal cuore più profondo di Etty.

Di certo lei, se avesse potuto e  nonostante tutto, in quei fatidici 83 giorni avrebbe sicuramente trascritto le proprie riflessioni giornaliere, come aveva fatto fino ad allora con i suo libretti. Un testo “biografico” e “autobiografico” insieme, come ha avuto modo di commentare lo stesso Giuseppe Bovo che fa dello scritto “un diario e una follia” o “una ricerca e un’ossessione”, se si vuole, che si dipana su questi immensi quanto inesplorati dualismi i quali, nello stesso tempo, respirano un tenace attaccamento alla vita. ”Il dodicesimo quaderno.

Gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz”, è sicuramente un libro utile da leggere in occasione del Giorno della Memoria per le vittime degli olocausti, non solo in quanto veramente appassionante e lacerante, ma perché riesce a far emergere dalle sue pagine quella sofferenza tanto immane quanto inconcepibile, che ti sconcerta e, allo stesso tempo, quasi ti consola. La linea guida che emerge al di la della trama, è infatti quella densità spiritualità che è un continuo affidarsi principalmente a Dio e in fondo in fondo, anche agli uomini, nella speranza di un mondo migliore. Il libro è corredato anche di una rappresentazione grafica del campo di Birkenau, oltre alla prefazione e postfazione curata da Nadia Neri.

 

 

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

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il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

Viaggio nella letteratura d’autore

alla scoperta del mondo fantastico delle leggende del Sud,

tra gnomi, folletti e altre meraviglie

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Di Làuri e Sciacuddhi o Laurieddhi, Monaceddhi, Scazzamurrieddhi, Tiaulicchi, Carcagnuli, Uri e simili, come nelle diverse geografie di Terra d’Otranto vengono chiamati gli gnomi e i folletti che abitano le nostre case (spesso maliziosi, dispettosi e burloni, ma sostanzialmente simpatici e benigni) – questa rivista si è già interessata con un bell’articolo a firma di Rino Duma (vedi n. 1 del 2008), ricco peraltro di preziosi elementi storico-antropologici.

Avendo scorso di recente la storia singolare del ‘cugino’ napoletano di questi piccoli amici, e cioè il famoso (o famigerato) Munaciello, mi piace ritornare sull’argomento, fornendo, con questa ed altre fascinose testimonianze d’autore, un contributo essenzialmente ‘letterario’, che riguarda da vicino l’universo, sempre fecondo di suggestioni, delle leggende popolari del nostro Sud.

Questo viaggio speciale nella letteratura parte appunto da Napoli e da Matilde Serao (1856-1927), che a proposito delle origini de ’o Munaciello scrive: «Nell’anno 1445, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un garzone di bottega, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto, e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Frezza contro Stefano. Fu così che in una notte profonda, mani traditrici afferrarono Stefano alle spalle, e dalla ferriata lo precipitarono a sfracellarsi nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini.

[…] La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monache dov’ella dette prematuramente alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna perché al piccolo desse una fiorente salute; ed ella votossi e vestì il bimbo d’un abito nero e bianco da piccolo monaco. Ma altro aveva disposto il Signore, e la Catarinella non s’ebbe la grazia: il figliuoletto suo, negli anni, non crebbe che pochissimo, e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Ma ella continuò a fargli indossare il saio da piccolo monaco; ond’è che la gente, in suo volgare, chiamava il bambino: ‘o Munaciello.

Le monache lo amavano, ma i bottegai, e i paesani, e la gente della via si mostravano a dito quel bambino troppo piccolo, con la testa troppo grande e quasi mostruosa, e talvolta lo ingiuriavano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed inerme. […] Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando ‘o Munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora era cattivo augurio. E siccome il cappuccio rosso compariva assai raramente, ‘o Munaciello era bestemmiato e maledetto. Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che faceva imputridire l’acqua nei pozzi, lui che portava la mala fortuna…

[…] Finché una sera ‘o Munaciello scomparve. Non mancò chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Dove è stato vivo, ora s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, lì ricompare nella medesima parvenza. Dove lo hanno fatto soffrire, là egli ritorna, malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta. Di tutto è capace il Munaciello, che nella sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, è rispettato, temuto ed amato…».

Questa la ‘triste istoria’ del Munaciello napoletano. Il quale, oltre ad avere un posto di riguardo nella smorfia e cabala del lotto (al numero 37), da molti secoli è personaggio di fortissima influenza nel vivere quotidiano del popolo partenopeo, tanto che nel Pragmatica de locato et conducto (la raccolta delleleggi e consuetudini che dal 1588 regolavano gli affitti delle case in tutta Napoli), una precisa norma, tradotta qui in italiano corrente, evidenziava che: “…qualora il locatario abbia a subire nella propria abitazione visibili turbamenti dagli spiritelli maligni volgarmente denominati ‘Munacielli’, gli è permesso di abbandonare la dimora affittata senza pagare alcuna pigione”. Incredibile, se non fossimo a Napoli!

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco
il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

Molto simili nel nome al folletto napoletano, ma vicinissimi nella sostanza agli Sciacuddhi salentini, sono i Monachicchi della Basilicata, dei quali si è interessato nientemeno che il più ‘meridionale’ degli scrittori del Nord, Carlo Levi (1902-1975), il cui nome è fatalmente legato al suo mitico Cristo si è fermato a Eboli, capolavoro letterario e sentimentale che più e meglio d’ogni altro rende ‘nudo e crudo’ il senso della cultura e della civiltà dimenticate del nostro Mezzogiorno (e particolarmente della disperante realtà lucana negli anni ‘30 del secolo scorso, da Levi direttamente conosciuta durante il confino patito per il suo ardimentoso antifascismo). Così egli descrive i Monachicchi di Grassano: “…sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di procurare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solleticosotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono le sedie di sotto alle donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, ronzano e pungono come zanzare, e di notte prendono di mira le code e le criniere dei cavalli, che amano intrecciare inestricabilmente”.

Ritornando allo Sciacuddhi di casa nostra, parimenti gradevole è la minuziosa descrizione che ci offre al riguardo l’illustre studioso Sigismondo Castromediano (1811-1895): “…Irritante ed irritabile, danneggia e benefica, secondo capriccio. È il dio Lare di quei tuguri che sceglie a dimora, e dei quali suole impossessarsi scendendo dai tubi fumaioli d’un camino. […] Le cento e più volte l’ho sentito dipingerlo basso, anzi piccin piccino, gobbetto, peloso di tutta la persona, ma d’un pelo morbido e raso. Copregli il capo un piccolo cappelletto a cono e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola.

[…] Bazzica volentieri nelle stalle, dove ospitatosi una volta difficilmente ne esce: ed anzi, tosto s’innamora della cavalla o dell’asina che meglio gli garba, e l’assiste e carezza di preferenza, nutrendola della biada sottratta alle compagne, o altrove rubata… e gode inoltre l’alto onore d’essere da lui stesso strigliata, lisciato il pelo ed intrecciati graziosamente i crini del collo e della testa.Di giorno non appare giammai, esercitando di notte le sue trappolerie… Eccolo infatti a metter sossopra masserizie ed annessi, a sparecchiar gomitoli e tele del telaio o a svegliar le persone, rompendo piatti, bottiglie, bicchieri.Guai se è in collera col suo ospite. Se questi dorme i suoi sogni dorati, allora improvviso gli cavalca il petto e glielo calca fino a fargli perdere il respiro”.

Un diavoletto pestifero, insomma! Che ne combina una dietro l’altra…

Ma non è sempre così. A me (nonostante di dispetti me n’abbia fatti d’ogni sorta, e ancora non la smette…), confesso che fa quasi tenerezza. In fin dei conti, può ben considerarsi un giocherellone. Quel che si dice una simpatica canaglia. Chissà che prima o poi non ricambi la simpatia che ho per lui facendomi trovare l’Acchiatura – mitico tesoro di cui dalle nostre parti ancora si favoleggia – o basterebbe che porti bene e mi conservi in allegria.

A tale proposito, va appunto considerato che gli Sciacuddhi si affezionano non tanto alla casa, ma alla famiglia e alla gente che la abita. Per cui, se avviene un trasloco, è sicuro che traslocano anche loro. Mia nonna Anna mi raccontava sempre divertita che un certo Cosimo Sasà e la di lei moglie Concetta, contadini di un paese del Capo, spazientiti dello Sciacuddhi che gliene combinava di tutti i colori, pur di toglierselo dai piedi, avevano deciso di cambiar casa. Caricarono quindi le masserizie su un carretto a mano e si avviarono di buon passo verso la nuova abitazione. Durante il tragitto, la moglie si accorse che aveva scordato di prendere la scopa, che gli sarebbe stata indispensabile per le pulizie: “Nah, Cosiminu – esclamò verso il marito – La scupa mi rescurdai!”. “…Nu te preoccupare! – le fece eco una vocina da dietro – L’aggiu pigghiata ieu!”. Era, manco a dirlo, il loro ineffabile e fedele Sciacuddhi, che li seguiva placido con la scopa sulle spalle…

Al perenne conflitto tra gli Sciacuddhi e le donne di casa rende sorridente testimonianza questa bella filastrocca, raccolta nella Grecìa Salentina: Cu la còppula scattusa / zzumpa ssu lla panza cu tte ncusa. / Uru, Uru malitettu, / a ddhù hai scusu lu scarfaliettu /cu li ori te la sciara? / Nu nc’è cceddhi cu te para…? / Ma se te rrubbu lu scursettu / me l’hai dare lu scarfaliettu!(Col berretto sgargiante / salta sulla pancia per accusarti. / Uru, Uru maledetto, / dove hai nascosto lo scaldaletto / con gli ori della strega? / Non c’è nessuno che possa competere con te – che t’insegni l’educazione? / Ma se ti rubo il berretto / devi darmelo lo scaldaletto!).

E va infine aggiunto, per chi non lo sapesse, che lo Sciacuddhi fu celebrato, nel 1954, perfino dal grande Domenico Modugno (1928-1994) in una delle sue prime incisioni discografiche, intitolata Lu Scarcagnulu, com’è appunto chiamato il prode folletto in tutto il Brindisino.

Nativo di Polignano a Mare, il grande Mimmo (destinato a diventare ben presto famoso in tutto il mondo come Mister “Volare”), visse infatti la propria giovinezza a San Pietro Vernotico, e le sue iniziali produzioni musicali – da Ventu de scirocco a La donna riccia, Lu pisce spada, Sirinata a na dispettusa e altre – ispirate in gran parte ai vecchi “cunti” delle nostre contrade, furono create quasi tutte in dialetto salentino, all’epoca erroneamente scambiato (o forse volutamente strumentalizzato) per siciliano.

Onore quindi a Làuri e Sciacuddhi. Saranno (forse) creature del mondo della fantasia, ma senza fantasia che mondo sarebbe?

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Sull’argomento si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/02/27/fatti-e-misfatti-dello-spiritello-domestico-salentino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/02/23/i-dispetti-del-folletto-domestico-salentino/

 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/10/spauracchi-di-ieri-e-di-oggi/

 

 

 

Palme e punteruolo rosso. Quando la storia ha un lieto fine

di Gianluca Fedele

 

Ogni volta che vediamo una palma piegare verso il basso una delle foglie che compone il tipico ciuffo a ventaglio non abbiamo dubbi: il “punteruolo rosso” sta per fare un’altra vittima. A breve quest’ultima perderà il suo colore e collasserà in una forma di ombrello richiuso su se stesso.

Questo è lo scenario a domino nel quale ci stiamo abbandonando, quasi senza opporre alcuna resistenza. Complice, a mio modesto avviso, un’insufficiente campagna d’informazione e sensibilizzazione, la quale ha largamente diffuso l’infondata credenza che, una volta attaccate dal terribile parassita, queste specie di piante siano destinate a morte. Senza contare che possederne, ora come ora, non è più un motivo di vanto ma una disgrazia poiché la legge impone, particolari e costosissimi metodi di smaltimento del tronco secco affinché, riproducendosi, gli insetti non intacchino altre nuove palme. In tv, il noto programma “Striscia la Notizia”, ha spesso trattato l’argomento in maniera eccellente, perlomeno gli si deve il merito d’aver contribuito ad accrescere mediaticamente l’attenzione intorno a questa grave problematica.

Ricordo in particolare un servizio dello stesso programma televisivo nel quale l’inviato si era recato presso uno zoo per testimoniare come una cicogna della medesima struttura zoologica, avendo deciso arbitrariamente di deporre le proprie uova alla sommità di una palma oramai decapitata dal punteruolo, si fosse nutrita delle larve contribuendo a far rigermogliare foglie nuove e sane. Ovviamente non mi aspetto che siano introdotte le cicogne sul territorio interessato dal fenomeno, ma credo che questo aneddoto possa essere preso in considerazione in un discorso di catena alimentare.

In ogni caso non mi rassegno all’idea che il colosso dei giardini e delle ville del Salento, così come quelle del Meridione tutto, stiano facendo una fine così indecorosa, ma soprattutto mi torna molto difficile credere che non esista alcun pesticida atto a debellare questo cancro terribile.

Raccogliendo delle informazioni, anche e soprattutto chiacchierando con amici e parenti, ho ascoltato le teorie più disparate. A metà di questa storia mi ero totalmente convinto che i costi per una cura di prevenzione fossero inaccessibili e ancor più inutili una volta che il micidiale (così lo definisce wikipedia) rhynchophorus ferrugineus si fosse insidiato all’interno del cuore spugnoso del palmizio.

Ero ormai dell’avviso che nel giro di pochi anni questo genere di pianta l’avrei vista soltanto in qualche fotografia sbiadita, reperto col quale raccontare a mio figlio che il bar “la Palma” di Gallipoli o la piazza “Tre Palme” di Nardò si chiamano in quella maniera perché tanti anni prima…

Infine arriva l’illuminazione.

Un pomeriggio di qualche mese fa un amico mi manifesta il suo turbamento perché una delle due palme che affiancano l’invito della sua casa di campagna presenta i tipici segnali: foglia afflosciata e un foro sul fianco dal quale si può ascoltare un fosco brusio simile ad una moka mentre esce il caffè.

La palma era lì da oltre una ventina di anni, non è tantissimo per questo tipo di pianta, è alta circa tre metri, ma l’amico contava di vederla enorme e possente accoglierlo sempre al suo arrivo. Quando vengono installate, queste singolari colonne viventi, forse sono pensate “soltanto” per estetica, ma poi si instaura un affetto disinteressato, una sorta di amicizia basata sul rispetto che l’uomo dovrebbe imparare a nutrire per animali e piante allo scopo di saper poi elargire, altrettanto disinteressatamente, presso i suoi simili.

Comunque sia, ricordo che mio zio, nel suo b&b Rizzo Nino, in località “Cenate” ne ha diverse e tutte in ottima salute. So di sicuro che le cura, ma sino a quel momento ignoravo il come. La struttura recettiva è collocata all’interno di una villa risalente a fine ‘600, qui, come in altre antiche abitazioni di interesse storico, le palme fanno allo stesso modo da collier attorno al collo di una splendida donna. Lo dico all’amico, che è lì per lì pronto a sacrificare la malata pur di salvare la sana, con il quale prima di compiere l’insano gesto, consiglio, appunto di chiacchierare.

Mio zio Francesco è anche un ottimo agricoltore. Ci racconta di aver avuto a che fare con questo coleottero assassino quando, in una primavera di diversi anni prima, minacciava le sue ventennali palme e ne abbatteva una delle otto che ancora sono in vita; mi descrive le larve e come si insinuano, segnale di esperienza sul campo, e a dire il vero mi fanno un po’ schifo anche solo nell’accademica esposizione.

Il primo punteruolo rosso che ho visto personalmente svolazzava assieme ad uno sciame di suoi simili, in piazzetta delle Erbe a Nardò, l’estate scorsa, e ricordo che si muoveva come stordito. Non ho vergogna nel dire che l’ho calpestato senza alcuna riluttanza. Una sorta di rivendicazione, forse.

Insomma, per farla breve, mio zio suggerisce al mio amico Claudio, prodotti da utilizzare, garantendogli il risultato dopo il trattamento; senza tralasciare però che è assolutamente necessario farlo con una certa assiduità. L’antifona è: “se non la tratti con regolarità ti muore. Se non oggi, domani”.

Claudio è motivato e convinto e compra le due bottiglie di medicinale “Confidor” (Bayer) e “Reldan 22” con i quali creare la miscela di antidoto. Il tutto con una spesa annua per singola palma di circa trenta euro.

Ora sono io lo scettico; ho letto su internet che la maggior parte dei prodotti impiegati sono dannosi per l’ambiente ma vengo puntualmente rassicurato: in realtà si tratta di diserbanti di libera vendita reperibili in qualsiasi negozio di botanica e fitofarmaceutica, prevalentemente venduti proprio a questo scopo.

La storia ha un lieto fine: Claudio, sotto il vigile controllo “dello specialista”, ha preso ad accudire la palma che si è liberata del parassita, e già lancia segnali di ripresa. Premurosamente la cura irrorando il fusto con la combinazione dei due medicinali sopraelencati ogni 45 giorni e ora ha un doppio valore affettivo, per lui, ma anche per me.

 

Ora tendo a precisare che ho scritto questa storia senza avere alcuna competenza in materia di agraria, magari qualcuno potrebbe avere da ridire su qualche aspetto tecnico, ma lungi dall’elevarmi al ruolo di risolutore del problema.

Mi piacerebbe soltanto che si diffondesse più ottimismo sull’argomento e che si eclissasse la tendenza a seppellire il cadavere se il presunto morto ancora respira.

Ho visto in questi ultimi anni decine e decine di palme che arredavano il verde pubblico abbandonate alla propria sorte e mutilate, e altre destinate alla stessa fine. Senza fare della facile demagogia, anche in questo caso la politica ha perso l’occasione di dare il buon esempio.

 

Sull’argomento si vedano anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/10/le-palme-del-salento-leccese-devono-morire/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/04/a-proposito-di-punteruolo-rosso-e-delle-nostre-palme-malate/

 

 

DELL’INNOMINATO, DELL’ODIO ED ALTRO

L’articolo che segue (mai pubblicato) era destinato al periodico cittadino La Gazzetta Falisca (del quale ero redattore) in vista delle elezioni politiche del 2006. Non è comparso per decisione del direttore: censura? Ho ritenuto così di dare le dimissioni dalla redazione e non ci misi più piede. Il mio non era un intervento politico, ma illustrava come con l’avvento del berlusconismo fosse cambiata la natura culturale degli italiani. Ripropongo l’articolo dal momento che dopo 7 anni le cose non è che siano cambiate. Ho ritenuto di non dar nome al personaggio in questione, giacché per me quel nome è divenuto infausto. Giudicate voi.

 

DELL’INNOMINATO, DELL’ODIO ED ALTRO

di Alfredo Romano

Nel 1994, un solo uomo, che aveva 7 mila miliardi di debiti, fondò un partito, si presentò alle elezioni e divenne primo ministro. Oggi, quell’uomo, sempre primo ministro, non solo non ha più debiti, ma è diventato l’uomo più ricco d’Italia per via che le sue aziende, pur in tempi di crisi, sono le uniche che hanno realizzato profitti. Dovrebbe essere contento questo solo uomo, e invece no, si lamenta sempre.

Il solo uomo, che è padrone di televisioni private e controlla quelle pubbliche, padrone di giornali, banche, assicurazioni, case editrici, cinema, eccetera, da anni non fa che lanciare strali contro i giornalisti, i magistrati, gli intellettuali. Ma adesso è andato oltre: ha consigliato agli esponenti di sinistra di andare a fare i commercianti, o i farmacisti, o i pittori o, udite udite, i bibliotecari (proprio così).

Altre categorie sono avvisate, ce ne sarà anche per loro, basta aspettare. Sono un bibliotecario, scusatemi, e dovrei sentirmi offeso, dovrei difendermi con un lungo articolo sulle biblioteche scrivendo che sono un luogo di trasmissione libera della conoscenza e di crescita culturale (lo dice l’Unesco) e via dicendo, ma non ne ho bisogno. Per farlo dovrei pensare a un avversario politico normale, ma così non è: siamo di fronte all’uomo più odiato dagli italiani, sia da quelli di sinistra, che vedono in lui un dittatorello da quattro soldi, ma pericolosissimo, sia da quelli di destra che, se per un verso hanno bisogno dei suoi soldi e della sua potenza mediatica per avere visibilità politica, per l’altro lo disprezzano perché è il loro padre padrone. Mi ricordo dei vecchi democristiani. Li abbiamo contestati, sì, ma mai odiati, perlomeno avevano il senso delle istituzioni.

L’odio collettivo è qualcosa che si riserva a un dittatore, a un despota. E ce ne sono nel mondo. In Italia abbiamo la democrazia, ma… guarda guarda… l’odio collettivo è attecchito anche qui, non vi sembra strano? C’è un solo caso nella storia in cui l’odio collettivo è esploso per tutt’altra ragione. È successo negli anni in cui in America esplose il mito di Rodolfo Valentino, e le donne americane, tutte le donne, impazzivano per lui. Così, tutti gli uomini, dico tutti, presero a odiarlo: e non gli si poteva dare torto. Un solo uomo, in Italia, da 12 anni sta rubando l’anima e la fantasia degli italiani.

Gli italiani si stanno snaturando, forse sono mutati per sempre. Agli occhi degli stranieri poi, la cosa è davvero incomprensibile: come è possibile che gli italiani, così solari, fantasiosi, artisti, intraprendenti, pieni di tanta umanità, si siano lasciati abbindolare da un solo uomo che si è rilevato un incolto, un sospettato di collusione con la mafia, un corruttore di partiti, finanzieri, magistrati, avvocati, uno che ha fatto entrare in parlamento il suo collegio di difesa, un bugiardo che ha negato di essere iscritto alla loggia P2 (soppressa per attività sovversive) e perciò condannato per falsa testimonianza, uno scampato ad altre condanne per prescrizione dei reati e per leggi fatte solo per sé stesso, uno spocchioso, un millantatore, un complessato al punto che ha bisogno di dirsi secondo solo a Napoleone e più sofferente di Gesù Cristo? Eppure è avvenuto. Gli italiani dimenticano, gli italiani sono creduloni, a boccaperta, non sanno, o fanno finta di non sapere degli stravolgimenti che il nostro (l’Innominato) ha portato nelle nostre leggi, nella Costituzione, nell’economia, nell’università, nei beni culturali, nell’informazione, nel nostro vivere civile.

I principi del bene e del male sono stati scardinati, quei principi che, ancor prima delle leggi, stanno nel nostro diritto naturale. Niente più è normale, non si sa più che cosa è vero e che cosa è falso, si dice e poi si smentisce, non si discute più, non si ragiona, in TV vince chi fa la voce più grossa e un confronto con l’avversario diventa un duello. Ciò fa sì che lo spettatore non comprende la realtà del nostro paese, né si fa un’idea di chi meglio lo possa rappresentare nelle istituzioni. Petrolini, a uno in platea che lo infastidiva ridendo arbitrariamente, replicò: “Non me la prendo con te, ma con quello che ti sta vicino che ancora non ti ha mollato un ceffone!”. Insomma, a chi molliamo un ceffone, all’Innominato, oppure a quei milioni di italiani che l’hanno votato? Democrazia? o piuttosto telecrazia? La televisione, ecco, questo vorace mostro dalle sette teste che si nutre delle nostre ore più belle al fine di convertire noi cittadini pensanti in stupidi consumatori. Fa rabbia sapere che i bambini siano i più esposti al totem televisivo, così che il loro cervello viene portato all’ammasso.

Tutto cominciò con la televisione commerciale, negli anni ’80, quando, al fine di aumentare la maledetta audience, entrò in scena la volgarità, fatta non solo di mercificazione di corpi femminili, ma anche di film violenti e programmi di nessun valore, non dico artistico o educativo, ma neanche di intrattenimento, tutto catalogato ormai come spazzatura, di cui ci nutriamo ogni giorno, anche perché la sera siamo stanchi, fragili, senza difese, e siamo disposti a ingoiare tutto quel che ci propinano.

Il guaio è stato che anche la televisione pubblica si è adeguata a quella commerciale e così adesso siamo al disastro: non siamo correttamente informati, ormai i telegiornali sono solo irritanti, non raccontano la realtà, soprattutto devono portare l’acqua al mulino del solo uomo, il padrone unico. In prima serata c’è raramente un programma o un film, che possa solleticare il nostro piacere, la fantasia, l’immaginazione. Non parliamo degli sceneggiati TV dove la trama è quasi scontata, il che significa uccidere un’opera narrativa.

E infine, cosa veramente la più grave, sembra quasi che, se non appari in televisione, non esisti. Il Truman show, appunto. Eppure l’avevamo visto, eravamo stati messi in guardia.

Le elezioni del 9 aprile? Vorrei un paese normale, vorrei avversari da contestare e non da odiare, vorrei uscire da un incubo. Ma poi, più che brindare, bisognerà raccogliere i cocci. E in fretta.

Civita Castellana, 14 marzo 2006

 

Lo scivolone finanziario nella gestione del Monte dei Paschi di Siena

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di Rocco Boccadamo

 

Altro che i politici non c’entrano affatto con il freschissimo botto, anzi bottone, nei conti e nel patrimonio del secolare istituto di credito senese!

In aggiunta al “ricordo” maggiormente evocato, ossia a dire l’acquisizione, a prezzo d’oro, della Banca Antonveneta, vorrei far accenno a un’altra vicenda precedente.

Nel dicembre 1999, ci fu il passaggio della maggioranza azionaria della Banca del Salento (poi Banca 121) dalla famiglia Semeraro di Lecce al Monte dei Paschi di Siena.

Un affaire dai connotati unici, dopo un’iniziale “due diligence” dell’istituto da cedersi e l’individuazione di un primo potenziale acquirente, fu “suggerita” , certamente non dallo Spirito Santo, una seconda perizia, che pervenne alla stima della società sulla base di una cifra praticamente doppia (2500 miliardi di lire) e si scelse, come compratore, giustappunto, il Monte dei Paschi di Siena, da sempre notoriamente “influenzato”dal più importante schieramento partitico di sinistra italiano.

Intorno e a valle di quell’operazione, all’epoca, corsero anche voci di consistenti dazioni e soprattutto, non spicciola dietrologia bensì evento reale, si materializzò la stupefacente ascesa di Vincenzo di Bustis, già Direttore Generale della Banca del Salento (o Banca 121) niente poco di meno che alla carica di Direttore Generale del Monte dei Paschi di Siena, istituto cinquanta volte più importante rispetto all’asset acquisito.

Si disse che l’incredibile scalata di De Bustis rientrava nel pacchetto “chiavi in mano” della compravendita, che, vale la pena sottolinearlo, fece piovere a beneficio degli azionisti cedenti un’immensa, inaspettata fortuna.

Altro che i politici sono estranei alla gestione del M.P.S.!

 

Fòcara e la sua etimologia … scottante

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di Armando Polito

Per lo studioso o il semplice appassionato di etimologia forse la situazione più irritante e disarmante è trovarsi di fronte ad un vocabolo in cui la spiegazione della radice è incontrovertibile ma l’origine del resto non appare chiara.

È il caso di fòcara, una delle voci dialettali salentine forse più nota al mondo. Chi non sarebbe disposto a mettere, è il caso di dire, la mano sul fuoco pensando che fòcara deriva da fuoco? E che, derivando fuoco (in dialetto salentino focu o fuècu a seconda delle zone) dal latino focu(m), alla sua radice (foc-) corrisponde il segmento iniziale di fòcara? Già, ma da dove viene -ara-?

Fòcara per il Rohlfs è “da focus col suffisso di làmpara”; e a ˔làmpara: dopo la sigla L15 (corrispondente al testo Materiali lessicali e folkloristici greco-otrantini raccolti da Pasquale Lefons ed altri e pubblicati da Giuseppe Gabrieli; estratto da Studi bizantini e neoellenici, v. III, 1931, p. 107-149) si legge: “lampàra (Corigliano)=vampa, fiammata”.

Mi pare necessario un approfondimento, altrimenti che post sarebbe?

A pag. 10 del suo vocabolario a commento di L15 leggo: “Il lessico del dialetto greco-otrantino di Calimera contiene molti vocaboli che dai dialetti italiani in epoca più o meno recente si sono infiltrati nel linguaggio greco. Riproduciamo nel nostro vocabolario soltanto gli elementi d’origine italiana o latina; vedi però pag. 10”; a p. 10: “Dei dialetti greci parlati nella provincia di Lecce registriamo soltanto quegli elementi che sono di origine latina (romanza) o che possono avere un valore speciale per l’etimologia dei vocaboli dialettali italiani. Abbiamo distinto questi elementi con il segno ˔ che precede la voce in questione”.

Ora làmpara è registrata con quel segno in testa ma dopo per Corigliano è attestato lampàra. Come mai questo cambiamento d’accento? Me lo sono chiesto immediatamente e non ho trovato altra spiegazione se non considerando lampàra dal greco λαμπάδα (leggi lampàda) con passaggio δ>r come è successo, per esempio, nel napoletano renàre rispetto a denaro, ma con conservazione dello stesso accento. Làmpara, invece, non sarebbe altro che la trascrizione dell’italiano làmpada (sempre col passaggio fonetico prima descritto ) che è dal latino làmpada(m), accusativo da làmpada/làmpadae (Ia declinazione) oppure da làmpada, accusativo alla greca da lampas/làmpadis (III declinazione), forma più vicina della prima al già citato greco λαμπάδα (lampada), accusativo di λαμπάς/λαμπάδος (leggi lampàs/lampàdos). Lo spostamento d’accento dal greco λαμπάδα al latino làmpada è assolutamente normale poiché la a della (penultima) sillaba –pa– è breve come lo era la α della sillaba –πά– originaria; perciò: λαμπάδα>làmpada. È in base a questa ricostruzione (l’unica, secondo me, possibile e traibile dalla necessariamente lapidaria trattazione di un lemma richiesta da qualsiasi vocabolario) che il Rohlfs ipotizza che fòcara abbia mediato il suffisso da làmpara, per cui in buona sostanza fòcara sarebbe una voce bastarda, nata, cioè dalla fusione di una radice latina (foc-) con un suffisso (-ara) mediato da una parola greca (λαμπάδα), da cui per dissimilazione lampàra in italiano) e con assunzione dell’accento ritratto di una sillaba dopo il suo passaggio in latino (làmpada o làmpadam).

Forse in questo groviglio, inestricabile agli occhi di uno totalmente profano in questo campo, il maestro  si è fatto guidare dall’idea che alla facilmente presumibile origine antica della fòcara dovesse corrispondere un nome antico o che almeno in qualche suo componente ricordasse tale antichità.

Non ci aiutano neppure le osservazioni che seguono: a Manduria (Ta)  è in uso fòcula che a me sembra parallelo al fòcora che s’incontra nell’italiano dei primi secoli: tràgemi d’este  fòcora, se t’este a bolontate (Cielo d’Alcamo, Contrasto v. 3); volare per lo cielo,  fòcora , fiamme e tempestate (Anonimo romano del XIV secolo, Cronica, XVIII). Questo fòcora, chiaramente plurale per via di este che l’accompagna nella prima citazione e che come singolare tra voci plurali (fiamme e tempestate) sarebbe stato come un pesce fuor d’acqua, ricorda il valore collettivo che lo stesso Rohlfs mette in campo per àcura=aguglia: “propriamente un plurale: latino volgare acora=aghi”. Se, dunque, *àcora (ho aggiunto l’asterisco perché si tratta di voce non attestata ma ricostruita e l’accento che manca nella citazione originale) è da acus, perché fòcora non dovrebbe essere da focus seguendo in questo, una tendenza che spesso si manifesta con una fedeltà assoluta all’originale latino? Cito gli esempi di li còrpora (=i corpi) e li tèmpora (=i tempi) presenti in molti testi in volgare siciliano (tèmpora, è passato, addirittura, dal latino attraverso il portoghese nel XVII secolo nel giapponese tempura!), e non solo, del XIV secolo (nel dialetto neretino, poi, in li quattru tèmpure c’è stata la regolarizzazione nella desinenza di un tèmpora presunto singolare). Insomma, fòcora/fòcula sono entrambi da focus, ma con fòcara c’è coincidenza di accento, non di suffisso.

Per completare il quadro va detto che un focara come uno degli attrezzi utilizzati nella fusione del piombo o come scaldaletto è attestato a partire dal XVII secolo : ” … et dal capo rilevato di detta forma, dove sarà la sponda, sia una focara, la qual’habbia il fuoco sotto …”(Gioseffe Viola Zanini, Della architettura, Cadorino, Padova, 1678, pag. 72) ; “La foglia secca all’ombra appesa a un solaro, non al Sole, né al vento, né al fuoco, et posta ad abbrusciare sopra uno scaldaletto, ò focara …” (Carlo Stefano, L’agricoltura e casa di villa, traduzione di Hercole Cato, Ginammi, Venezia,  1648, pag. 119). Sicuramente la voce è da leggersi focàra, da fuoco come calcàra da calce. Qui c’è coincidenza del suffisso ma non dell’accento.

E siamo al punto di partenza, nonostante la certezza che tutte le voci riportate per tentare di dipanare la matassa si basano sulla radice del latino focus.

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

La fidanzata di Cerfignano

Resti del feudo San Giovanni Calavita (ph Maria Cretì)

di Giorgio Cretì

(Inedito)

Col solito sistema dell’ambasciatrice-ruffiana, più volte collaudato, Ippaziantonio s’era cercata una fidanzata a Cerfignano: lì conosceva diversa gente ed aveva anche dei parenti. Ma Cerfignano non era vicino come Spongano o Marittima e la strada da fare era molta di più perché c’era da fare il giro dalle Vele di Santacesarea con una bella salita che partiva dalla vora di Vitigliano. L’inizio non era stato difficile, come sempre, perché il suo bell’aspetto faceva sempre colpo sulle giovani ragazze. Aveva messo gli occhi su una brunetta che aveva visto più volte prendere acqua alla fontana del largo Cànica(1) e le aveva inviato la sua ambasciata proprio con una parente che si chiamava Tetta, cioè Concetta. Per la cronaca, quella fontanella  esiste ancora, ma le hanno cambiato posto perché veniva ripetutamente abbattuta dai parcheggiatori distratti.

L’ambasciata era stata gradita, ma la ragazza non era riuscita a farsi trovare sola in luogo appartato nemmeno una volta: tante occhiate furtive e tanti sospiri, ma nessun incontro intimo, soprattutto perché il padre di lei che era un gran lavoratore era anche uomo un po’ violento e per tale ragione anche  la madre di lei non aveva avuto il coraggio di rischiare di portarsi in casa il ragazzo.

Così Ippaziantonio andava e veniva da Cerfignano tutte volte che poteva scappare con la sua bicicletta, ma più di qualche occhiata di soppiatto non ne aveva ricavato, anche se qualche volta era riuscito ad accompagnarla fino a casa sulla via per Cocumola. E proprio in una di quelle occasioni aveva notato che vicino alla casa di lei, proprio addossato al muro, c’era un palo della luce che sembrava messo lì

Emilio Marsella e Le donne di Maruggio

di Paolo Rausa

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A Maruggio non fa freddo, a Milano sì. Maruggio, ora in provincia di Taranto a due km dal mareIonio sulla direttiva di Manduria, ricco entroterra agricolo della piana salentina, è il paese natale di Emilio Marsella. La zona Lorenteggio di Milano, dove abita ed esercita le sue arti, era periferica sicuramente quando ci è arrivato Emilio, durante il militare, decantata da Gaber come pullulante di trani, le osteriacce popolari dove veniva mescito il forte vino pugliese, detto m(i)ero, schietto.

Sta in questi due luoghi la vita e l’arte di Emilio Marsella, classe 1929, che ha trascorso la fanciullezza a Maruggio in una famiglia di contadini, privato a 8 anni della madre per una malattia, ed educato dalla nonna, che parlava “la lingua dell’orto”. Appena terminati gli studi inferiori, il padre lo sostiene economicamente e lo manda al Ginnasio-Liceo di Martina Franca, all’interno della Valle d’Itria, oggi famosa per il Festival di Teatro e della Lirica. Non riesce a terminare gli studi perché due mesi prima degli esami è costretto alla interruzione per una malattia.

Questi brevi cenni biografici di Emilio Marsella definiscono già gli elementi essenziali, culturali e umani, della sua avventura artistica e letteraria. Innanzitutto la campagna tarentina, caratterizzata da casupole rurali onnipresenti nei quadri dipinti da Emilio, i campi, i prodotti della terra e le figure di donne, evocate nella loro presenza costante della sua vita – la saggezza della nonna innanzitutto – e nella assenza – la madre -, che lascia un vuoto incolmabile nell’animo del poeta, un vuoto che trova significativa espressione in queste teorie di donne che stanno sempre in vigile attesa. Ritratte per lo più dalle spalle o dal fianco, mai di fronte, esse costituiscono le presenze/assenze in dimensioni notevoli, con gli abiti tipici della cultura contadina, specie di chitoni che coprono la testa in segno di omaggio e di rispetto nei confronti del miracolo della natura che si reifica sotto i loro occhi, rappresentato dagli elementi vegetali o da una insenatura marina con la discreta presenza umana di una o due barchette in riposo sulla riva.

Accanto alle donne ormai mature, forse anziane, delle giovanette alle quali esse affidano le conoscenze e i misteri della vita, a volte delle immagini di animali appena accennate e soprattutto i segni della civiltà contadina nella presenza di una giara destinata a contenere il raccolto o l’olio di oliva che viene spremuto dai frutti dagli alberi contorti che animano il paesaggio, a volte dei piatti di dimensioni ampie che richiamano nella forma la tradizione della ceramica greca e della produzione fittile dello stile di egnathia e poi in primo piano le verdure tipiche del sud, sempre ben ritratte (melanzane, peperoni, ecc.).

Le figure femminili non sono mai evidenziate nei contorni che appaiono quasi indefiniti e lo stesso trattamento Emilio riserva al paesaggio e ai segni dell’uomo, sembrano quasi delle masse che incombono. Il movimento è affidato all’uso sapiente dei colori, a volte volutamente contrastante e vivo proprio per sottolineare la dinamicità della vita rispetto al destino di morte, che ha colpito l’artista negli affetti più cari e soprattutto che sembra lì quasi a ricordare la sorte umana con il suo carico di sconfitte, che solo attraverso l’arte può redimersi. Le sculture di statuine in terracotta e in bronzo seguono lo stesso canovaccio. La sua terra, immersa nella cultura greca della vicina Tάρας e di quella messapica della grande città di Manduria, di cui restano le fondamenta delle mura ciclopiche, insieme agli studi classici forma la cultura umanistica di Emilio, che ritrae nei suoi versi il paesaggio, nostalgicamente inteso e come depositario del nostro passato fiorente, ora rimpianto. Un paesaggio che non può trovare corrispondenze nelle nebbie e nei freddi della pianura milanese. Ecco che l’arte supplisce, per così dire, ai sogni e ricrea atmosfere rarefatte, indefinite ed eteree!

Fresco by Antonio De Vito

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di Wilma Vedruccio

Le festività natalizie permettono di rivedere amici, lontani dal Salento.

Così è stato con Antonio de Vito, che avevamo lasciato fra i severi muri della torre Matta ad Otranto, nell’agosto del 2011, volto fra i volti bizantini dei suoi affreschi. Insieme a Lisa Bouvier che nel Salento è ormai di casa.

Chiediamo ad Antonio di aggiornarci sul suo cammino di artista di affreschi, di parlarci dei suoi prossimi impegni e lui, prima di svelare ciò che ha in programma, fa una premessa, ha urgenza di dire…

«Con la nostra forza … bisogna superare la paura e partire con coraggio…

«È una sfida … bisogna affrontare, rilanciare e si riesce… Siamo nella fase della maturità, abbiamo dalla nostra l’esperienza, la capacità di controllo e di risoluzione dei problemi.

«Prendi coscienza di quello che c’è, che puoi fare o, più giusto, di quello che non puoi fare.

«Il materiale c’è, la storia c’è, le opere ci sono … ma per andare avanti, bisogna che si faccia un altro lavoro … economicamente è difficile continuare da soli.

«Io non ho mai creduto nell’intervento delle amministrazioni, a sperare in esse finisce che impigrisci, lamentarsi poi … non lo sopporto…

«Ho la consapevolezza che si può portare quest’arte dell’affresco, molto moderna, arte bizantina, ad una certa appetibilità dei fruitori, il solo modo per non aver bisogno dell’intervento pubblico delle Istituzioni, è creare un interesse verso l’arte in modo che la gente ci vada da sé alle mostre. Manca la promozione dei fatti d’arte. Manca la consapevolezza della loro preziosità.»

Perché dici “moderni” degli affreschi bizantini?

Lisa: «Perché con linee molto elementari riescono a raffigurare financo la spiritualità, ricchi di decorazioni … stilizzati molto. In Matisse una parte della sua arte viene dallo studio sui Bizantini; Chanel, lo stilista, ha messo su una collezione ispirandosi all’arte bizantina.»

Antonio: «A questi motivi si aggiunge il Tempo che è passato e allora, in senso moderno, i segni e i segreti sedimentati nell’arco dei secoli, in essi noi leggiamo scritti, preghiere, forme di devozione … che si sono succedute.»

La premessa, a questo punto, è ormai superata. Superato anche l’inciampo dell’emozione, Antonio de Vito, maestro di affresco, comincia a dirci di ciò che va facendo, a svelare il segreto della sua prossima mostra.

Antonio: «Avevamo fatto un progetto su Michelangelo…»

«Era inevitabile, trattandosi di affreshi, non arrivare a Michelangelo…» commenta Lisa Bouvier

Antonio: «Eravamo in contatto con persone di Taiwan … volevano la mia mostra perché eravamo in grado di offrire la didattica dell’affresco, realizzerò in sede di mostra alcune parti del Giudizio Universale.

«Candidamente ci hanno chiesto se potevamo portare i disegni originali di Michelangelo…

«Fare una mostra con i disegni originali di Michelangelo era assolutamente una cosa inedita … sembrava impossibile … ma poi abbiamo osato.

«Siamo andati direttamente alla Fondazione Buonarroti, per chiedere.

«A Loro è sembrato fattibile ed interessante ed hanno accettato, previa consultazione e previo consenso della Commissione Scientifica della Fondazione. La mostra vedrà ben 14 disegni originali del Maestro.

«Vista corta della gente locale?» Torna a chiedersi Antonio de Vito, pittore di affreschi, nativo di Alessano del Capo.

«La finalità di questo progetto non è cambiata rispetto a quella del progetto salentino sugli Affreschi Bizantini: far conoscere un’Arte che, in realtà, non è complessa per quanto può sembrare e la mostra dà la possibilità di “vedere, toccare, conoscere ed innamorarsi della tecnica dell’affresco” che è poi la finalità didattica.

«Ai promotori della mostra di Taiwan il mio progetto è piaciuto, hanno la necessità di far conoscere Michelangelo e noi andremo a Taiwan, il 26 gennaio ci sarà l’inaugurazione della mostra in cui ci saranno dettagli significativi della Cappella Sistina a grandezza naturale.

«Oltre i miei affreschi, oltre ai disegni originali di Michelangelo, la mostra prevedeva anche la Scultura del Maestro…

«Altro grosso problema … cosa portare? fotografie … non mi convincevano … come fare? abbiamo fatto un altro passo avanti: calchi, calchi originali delle statue! Una nuova avventura…

«Abbiamo cercato i calchi originali fatti nell’ottocento e abbiamo ottenuto che da questi si rifacessero statue per noi. Sono state realizzatele statue del David, la Pietà di Roma, la Pietà Rondanini, il Bacco ed altre più piccole.

«Da un’idea ci siamo trovati a gestire l’universo Michelangelo!

«Cosa succede? Gli interlocutori hanno concordato e le cose si son fatte.»

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Buone prospettive, aspettative alte, dunque, a Taiwan?

«L’aspetto didattico unito all’aspetto “sacrale” (la presenza dei disegni originali inediti) ha reso la mostra appetibile ad un pubblico eterogeneo e … così lontano. Una nave-container è in viaggio e speriamo che arrivi…»

Ci siamo così ritagliato un ambito nel campo dell’arte, Antonio?

Risponde Lisa: «La sua particolarità è quella di studiare l’arte dell’affresco praticandola, reinterpretando gli affreschi dei Grandi Maestri, tanto da entrare nelle mani e nello spirito dell’artista, si possono carpire così aspetti diversi dell’artista oggetto di studio.»

Antonio: «Non è solo un fatto tecnico, ci si rende conto delle strategie espressive … quell’occhio … quella bocca … ti ritrovi a fare uguali alcune cose non perché stai copiando ma perché la tecnica lo impone.»

Dopo Taiwan?

«Un altro museo, il museo di Kaohsiung, si è fatto avanti per richiedere la mostra, con altri disegni originali.»

E dopo l’Oriente?

«C’è all’orizzonte l’America, dove approderà Michelangelo», secondo il salentino Antonio de Vito.

Il Salento?

«Il discorso, lasciato sospeso, sugli Affreschi Bizantini, sarà ripreso con tutto il bagaglio di esperienze, non solo tecniche ma organizzative, fidando in una maggiore collaborazione. Si può veramente osare.»

Gennaio 2013      

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https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/03/antonio-de-vito-segni-e-segreti-negli-affreschi-del-salento/

 

Al Teatro Paisiello di Lecce lo studioso Paolo Jedlowski

 Paolo Jedlowski

 

PASSAGGIO D’EPOCA. A LECCE PAOLO JEDLOWSKI

Domenica 27 gennaio, 18.30, Teatro Paisiello, l’incontro con una delle voci più significative della sociologia italiana.

Discutono con lo studioso Mariano Longo, Marcelli Strazzeri e Fabio Tolledi

 

In un passaggio d’epoca. La teoria sociale e il senso del futuro: su questo tema si svilupperà l’incontro di domenica pomeriggio al Paisiello, ore 18.30, con Paolo Jedlowski, una delle voci più significative ed autorevoli della sociologia italiana.

Realizzato in collaborazione tra il Dipartimento di Storia, società e studi sull’uomo, Astragali Teatro e il Comune di Lecce, e coordinato da Fabio Tolledi, regista e direttore artistico di Astràgali Teatro, il pomeriggio vedrà lo studioso discutere con Marcello Strazzeri e Mariano Longo (Università del Salento) sul suo ultimo libro In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale, Orthotes, Salerno, 2012.

Paolo Jedlowski è uno tra i più importanti sociologi italiani. Nel suo lavoro, ha affrontato innumerevoli tematiche, tra le quali il racconto, la quotidianità, la memoria.

Oltre all’edizione di alcuni classici della sociologia (Maurice Halbwachs, Peter Berger, Georg Simmel e Alfred Schutz), ha curato un dizionario delle scienze sociali e ha pubblicato un’importante introduzione alla storia del pensiero sociologico (Il mondo in questione, Carocci).

Tra i suoi volumi più recenti, ricordiamo: Sociologia. Contesti storici e modelli culturali (Laterza) Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondadori); Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza e routine (Il Mulino).

Il suo nuovo volume In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale è il tentativo di mettere alla prova della realtà contemporanea i concetti che la tradizione sociologica ci ha consegnati. La domanda di partenza è: siamo in grado, come sociologi, di comprendere un mondo in tumultuosa trasformazione? o non dobbiamo adeguare i nostri concetti teorici alla realtà in cambiamento? Jedlowski cerca di rispondere a queste domande partendo da ciò che la sociologia ha prodotto, e mettendo la teoria sociologica in contatto con nuove fonti e nuove voci.

 

ASTRAGALI TEATRO

Via Giuseppe Candido, 23 Lecce Astragali Teatro

Tel. 0832-306194 fax 0832-301823

teatro@astragali.org

www.astragali.org

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

A dieci anni dalla scomparsa di Carmelo Bene

 

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

 

di Maurizio Nocera

«Non sono nato per essere nato … L’indecenza della vita mi ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie d’ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronarografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astanterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointestinali, anestesie complesse, interventi chirurgici logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio non abbia tralasciato».

(Carmelo Bene, Autobiografia di un ritratto, 1995)

Marzo 2012. Il Salento tutto è per Carmelo Bene (Campi Salentina 1 settembre 1937 – Roma 16 marzo 2002). Non solo il Salento però, perché il Maestro viene celebrato anche nel resto d’Italia. L’occasione è dovuta al 10° anniversario della scomparsa. Su di lui quanto non si è detto, quanto non si è scritto. Non pochi intellettuali hanno sentito il bisogno di intervenire per ricordarlo, per omaggiarlo. Non poteva accadere altrimenti e non hanno avuto ragione coloro che si sono lamentati che intorno al suo nome, forse, c’è stato troppo chiasso. Si può forse evitare a qualcuno di dire la sua in fatto di teatro, di letteratura, di poesia, di cinema, di televisione, di altro ancora? Quanto l’umanità non ha sofferto per le tante censure, troppe che, piuttosto che farla crescere, l’hanno condannata ad una perenne peregrinazione e a salti cangureschi?

Una delle iniziative celebrative si è tenuta appunto il 16 marzo a Lecce, nei locali della Tipografia del Commercio, dove il titolare Alberto Buttazzo ha ristampato per l’occasione una cartella contenente una grafica intitolata Gregorio, l’opera teatrale che Carmelo Bene, in un primo momento col titolo Gregorio, cabaret dell’800, e in un secondo tempo col titolo Addio porco, rappresentò a Roma (Ridotto dell’Eliseo) e a Lecce (Teatro Apollo) nel 1961. Di essa, è lo stesso Maestro che ci ha lasciato una testimonianza diretta in Vita di Carmelo Bene, autobiografia scritta assieme a Giancarlo Dotto nel 1998 per la Bompiani, nella quale precisa: «Nella prima parte si facevano a pezzi versacci di libretti d’opera dell’Ottocento. Nella seconda si passava a una specie d’afasia e, quindi, all’ammutolimento generale, ingurgitando cartaccia. Si usava la bocca solo per mangiare, ruttare e deglutire. Quasi sempre si mangiava in scena […] il finale di Addio porco. C’era una tavola apparecchiata, di quelle da osteria. Lui [l’attore Manlio Nevastri, in arte Nistri] faceva da mangiare in scena, in tempo reale, senza dar confidenza (la spesa la faceva il mattino al mercato di San Cosimato) e senza rinunciare al frac e alle ghette, le camicie, mezze maniche sommate. Ci mettevamo così tutti a tavola. Antipasto, primo e secondo. C’era chi mangiava, chi dialogava, chi leggeva un giornale, un altro ruttava./ Succedeva questo. Quelli in platea aspettavano di capire dove andasse a parare. Quale fosse il messaggio» (v. op. cit., II edizione 2006, pp. 125-127). Anche Tonino Caputo ha ricordato in che cosa consistesse lo spettacolo, precisando che finora «nessuno [lo] ha mai nominato nei recenti convegni su Carmelo. Era un delizioso collage di brani poetici tra fine ‘800 ed inizi ‘900, recitati in maniera molto libera e talmente movimentata che alcuni degli attori li proponevano dall’alto di una altalena, il cui dondolio si spingeva sino in testa al pubblico, per poi tornare indietro. Il tutto con i relativi problemi per l’incolumità degli spettatori, ai quali come minimo era assicurato un torcicollo».

Per evitare gli errori del passato, questa volta, gli organizzatori dell’evento di Lecce hanno pensato bene di far intervenire uno dei pochi amici dell’adolescenza del Maestro, fortunatamente ancora in vita: il pittore Tonino Caputo, leccese ma che da decenni vive un po’ nel resto del mondo. Gli altri amici rimasti in vita e che facevano parte della primitiva comitiva, che quasi quotidianamente s’incontrava sulla mansarda dei Bene in via dell’Antoglietta a Lecce, sono Antonio Massari e Ugo Tapparini. Tutti assieme questi amici di Carmelo hanno già scritto una loro testimonianza che figura in un libretto dal titolo Carmelo Bene, i primi passi da gigante (Kurumuny-teatro, Calimera 2004).

È quasi superfluo scrivere della genialità e del talento di questo straordinario figlio del Salento, indubitabilmente un rivoluzionario del teatro, riuscendo a trasformare l’essenza della macchina attoriale, ci preme piuttosto capire qui il suo percorso e, soprattutto quello iniziale attraverso il quale egli si formò. Ed è su questa traccia che si è articolata la memoria di Tonino Caputo, descrivendo un Carmelo Bene inedito per i più, di una sua amicizia durata circa una decina d’anni, in particolare dal 1960 agli inizi degli anni ’70, quando ancora Carmelo Bene non era il Carmelo Bene che noi oggi tutti conosciamo e che, quando nei primi tempi del suo trasferimento a Roma, per vivere decentemente, si dovette appoggiare alla casa del pittore salentino Caputo, il quale ha ricordato: «con Carmelo Bene c’è stato un sodalizio che è durato per alcuni anni. Personaggio geniale, […] ma con una vena di lucida follia e un elevato senso del proprio ego./ L’ho conosciuto a Lecce che aveva circa 16 anni. Mi attraeva quella sua estrema volontà, quel piglio prepotente che metteva nel voler sciogliere, in un corretto italiano, l’accento leccese./ Aveva ricavato un piccolo laboratorio di “posa” dalla lavanderia di famiglia e in quell’antro provava e riprovava al registratore, un piccolo “Geloso”, gli esercizi di dizione. Carmelo è un personaggio che pochi conoscono veramente, lui era un cantante lirico fallito. Noi leccesi nasciamo che vogliamo subito cantare: essere tenori, bassi, baritoni, ma quasi sempre ci scontriamo con la realtà vocale e così uno ci rinuncia. Lui invece non rinunciò e in seguito, anche quando recitava, ha continuato a cantare in prosa. Il suo recitare è il melodramma, che poi in realtà è l’unica forma di teatro vera esistente in Italia dopo la commedia dell’arte. Con il suo genio ha saputo trasferire queste forme artistiche in recitazione. Dopo le frequentazioni giovanili ci perdemmo di vista. In seguito venne a Roma per fare l’Accademia di Arte drammatica. Si trasferì a Genova e Firenze dove fece i primi spettacoli. Nel capoluogo toscano si innamorò di una donna più anziana di lui, l’unica che è riuscita a menare Carmelo e l’unica donna che lui ha amato veramente e con la quale ha avuto un figlio, morto giovanissimo. La sua violenza, anche verbale, si trasformava in bontà assoluta quando vedeva un bambino, un animale. Mentre l’astio verso i preti proveniva dall’aver studiato, in gioventù, presso i “Padri Scolopi”./ Nel 1962 ci ritrovammo a Lecce mentre era in corso un suo spettacolo [Gregorio] e tornammo assieme a Roma. Da quel momento venne a vivere con me aggiungendosi alla schiera dei molti che ospitavo» (per queste notizie più altre v. Caputo/ L’itinerario artistico di un pittore nomade, a cura di Michele Berardo, Canova 2004, Treviso).

Un’altra interessante testimonianza di Caputo l’abbiamo ascoltata quando ci ha detto questo: «vorrei innanzitutto chiarire che per Carmelo Bene, io non ho mai creato nessuna scenografia. Ho fatto invece molte pitture di scena, oltre i murales che decoravano l’intera sala del Beat 72 ed, in particolare, per Nostra Signora dei Turchi, il rosone che a fine spettacolo prendeva corpo sul fondale della scena, grazie ad una luce alogena. A parte, per sei spettacoli, ho disegnato ed inciso una serie di locandine. In ordine cronologico furono: Manon (al teatro Arlecchino, oggi Flaiano), Faust (al teatro dei Satiri), Nostra Signora dei Turchi, Salomè, Amleto (al Beat 72), ed infine Arden of Favershan (al teatro Carmelo Bene) Non di rado quelle locandine, opportunamente messe in vendita, risolvevano in qualche sera particolarmente difficile, la cena della compagnia. Quando gli spettatori variavano dalle 5 alle 10 unità, e non ancora le centinaia del teatro Argentina, tre locandine acquistate da veri appassionati, ci davano la possibilità di riempire lo stomaco, che alla fine di uno spettacolo non era di certo soddisfatto come lo spirito».

Mi piace chiudere questo breve ricordo di Carmelo Bene riportando una poesia di Antonio L. Verri, che gli dedicò pubblicandola nella raccolta Il pane sotto la neve (Lecce 1981): «(A Carmelo Bene)// Otranto ha gustosissimi grumi di neve/ un lungo discorrere della memoria/ vuota silenzio invernale nella mia mano/ bianca di turco spolpato.// È lontano ricordo anche l’aria/ che penetra tutto che tutto riempie/ è ricordo il mare che guarda masse/ corpi d’abbandono, memoria ancora/ – cristalli morbidi mutanti … -/ scrostata pazienza di casucce di storia».

È questo uno straordinario Antonio Verri, interamente versato nell’incanto favolistico di Carmelo Bene.

NdR: Pubblicato nel 2012 su Il Filo di Aracne.

23 gennaio. A Casarano si festeggia San Giovanni Elemosiniere con i suoi panitteddhi

Casarano. Il busto di S. Giovanni Elemosiniere e i “panitteddhi”

di Fabio Cavallo

Nel cuore dell’inverno, si colloca la solennità di San Giovanni Elemosiniere, amato patrono dei Casaranesi, che cade il 23 gennaio.

La festa patronale vera e propria sarà a metà maggio con le sontuose celebrazioni religiose e civili, ma il Martirologio Romano, il grande libro dei Santi della Chiesa cattolica, riporta in questo mese la solennità liturgica del Santo cipriota.

La festa religiosa sarà preceduta dal Novenario in Chiesa Madre, a partire dal 14 gennaio, dove, ogni sera, a partire dalle ore 17 si alterneranno la recita del

RITI E USANZE PER LA NASCITA NEL SALENTO

da Come eravamo
da Come eravamo

 

di Tullia Pasquali Coluzzi e Luisa Crescenzi

 

 

Nell’estesa Puglia salentina che Piovene considerava “il vero fondo dell’Italia”, abbiamo avuto modo di constatare che la maggiore parte dei paesi da cui è costituita è ancora caratterizzata da quell’antico e benefico aspetto della vita di relazione: tutti si conoscono, si incontrano nelle piazze e nelle corti, cortili di alcuni centri storici, specie di quelli dove ancora si parla il griko, con pozzo e granaio sui quali si affacciano varie abitazioni. Le donne si raccolgono e siedono su gradini o sedili fuori dell’uscio chiacchierando con linguaggio semplice e pacato.

Alcune di loro ci hanno aperto con cordiale e grande disponibilità lo scrigno della memoria estraendo da esso perle del loro vissuto e dell’esperienza di mamme abituate a seguire credenze e usanze di molti secoli. Così hanno raccontato che era davvero una fortuna nascere il mercoledì, il sabato e la domenica e, soprattutto, in un venerdì di marzo perché non si può essere stregati, mentre venire alla luce nel giorno della luna, cioè il lunedì, faceva presagire un carattere lunatico. Il mese più propizio per chi si affacciava alla vita era gennaio perché iniziando l’anno apriva anche una vita piena di gioie e di prosperità “non per niente il nome Gennaio deriva da quello di Giano, dio degli inizi”. Giuseppina, una gentile signora di Copertino (Lecce), ha riferito che la gestante non doveva portare anelli o bracciali se non voleva un figlio affetto da malformazioni né appuntare forcine tra i capelli; se, poi, si fosse esposta al soffio del vento il povero piccolo sarebbe rimasto tutta la vita con la bocca aperta.

Per quanto riguardava i pronostici sul sesso del nascituro, si usavano ancora altri stratagemmi oltre a quelli di cui abbiamo parlato: la donna incinta, fatti alcuni passi, doveva poi tornare indietro; se avesse deviato verso sinistra avrebbe dato alla luce un maschio; se verso destra una femmina. E femmina sarebbe nata pure se avesse provato dolore alle gambe: dolore de anca, / sicura figghia ianca (dolore alla gamba, sicura figlia dalla carnagione chiara). La forma del ventre, poi, era di grande importanza per queste semplici forme di divinazione: entre cazzata, pigghia la spata, entre pizzuta pigghia la scupa (pancia schiacciata prendi la spada, pancia pizzuta prendi la scopa). E questo tipo di pronostici non veniva fatto solo per il nascituro, ma anche per colui che sarebbe venuto dopo di lui: un maschietto nato durante la fase della luna calante sarebbe stato seguito da un fratellino; se i suoi capelli fossero terminati a punta sulla nuca, da una sorellina. La campana, in un tempo in cui il campo della comunicazione era molto ristretto, aveva ruoli importanti per annunciare momenti lieti e spesso drammatici per la comunità. Così severi rintocchi, succedutisi a distanza di un minuto, chiedevano ai paesani di pregare per un parto doloroso e difficile; ma poi, se tutto si fosse risolto, suonavano festose con tre rintocchi per un maschietto, due soli per la femminuccia. Ci si aiutava, per sciogliere nodi e cacciare spiriti ostili, togliendo dal dito della partoriente la fede nuziale e ponendole accanto indumenti maschili che da tempi immemorabili si credevano provvisti di un’intensa e misteriosa valenza.

Il bagnetto, fatto alternativamente con acqua fredda e tiepida, occupava la seconda fase della nascita; seguiva una fasciatura ben stretta per impedire danni alla colonna vertebrale secondo l’antico rituale: “Susu lu lettu se mintivene le rrobbe de lu vagnone, la fascia, lu brazzaturu, tre panni de vammace o de cottone, nu pannu de linu o de cannima, lu coprifasce, doi camasedde: una cu le maniche e l’otra senza, lu corpettu e la copuledda. A lu vagnone ca s’era llavatu se ’infilavano le camasedde se ‘nturtjiava ‘ntra panni e poi se ‘nfassava. All’urtimu se mintia lu coprifasce, la coppuledda e, o se corcava, o se mentia ntra lu stompu. Lu vagnone se tenia ‘nfasciatu pe’ tre misi se nascia d’estate, se era de ‘nvernu chiù de cinque. Dopu alla femminedda se mintia la vesticedda e allo masculieddu lu costumino. Se cusia tuttu a mano; la mescia sarta vania chiamata a casa pe’ diversi giorni e cusìa le rrobbe pe’ tutta la famija.

Li pedalini li facia a fierri la nonna e pe’ le scarpe se chiamava lu scarparu”. Infine, il piccolino, introdotto in un sacchetto di stoffa ricamato più o meno riccamente, era deposto, per permettere alla madre di dedicarsi ai suoi lavori, nel “capicarru”, sorta di contenitore imbottito e con poggiatesta usato anche in Campania. Per favorire la secrezione lattea le donne si strofinavano il seno con un fazzoletto prima accostato alla statua della Madonna dell’ Abbondanza di Cursi nel leccese o si recavano in processione al santuario della Madonna della Luce a Scorrano. La signora suddetta ci ha spiegato anche quali rimedi venivano adottati per guarire il piccolo colpito da fascinazione (fascinu): lei portò il suo bambino affetto da mal di testa da una guaritrice, certa Carminuzza. Costei diagnosticò convinta un sabatisciatu, cioè una fattura perpetrata di sabato. La poveretta dovette recarsi, fino alla guarigione del figlio, per tre sabati di seguito da majane diverse, per essere precisi, tre, numero magico. La signora Mimina di Novoli ricorda chiaramente una famosa guaritrice del paese, Lucia Mazzotto, una donna alta e imponente che amava vestirsi con un corsetto (sciuparieddji), un’ampia gonna nera e una cintura; ella interveniva sulle slogature dei bambini recitando una formula magica:

Figliu santu,

te fazzu la croce

cu ll’acquasanta

torna sanu e salvu.

Per mali più leggeri ma fastidiosi, la mamma usava un “fai da te”: riempiendo un piccolo quadrato di tela con semi di bacca di papavero secco bolliti e stringendolo a forma a succhiotto, lo propinava al piccino.

Questa droga casereccia era chiamata lu babbafaru. Quando poi la donna aveva le faccende da sbrigare, metteva il pupo al sicuro, all’interno del capicarru, una specie di contenitore, di cui si è parlato in precedenza, fatto di quattro o sei tavole di legno l’ultima delle quali era più alta e fornita di un poggia testa imbottito per attutire i colpi dati dall’irrequieto e divertito bambino. Ma, poiché i neonati usano piangere spesso, veniva attaccato al bordo del capicarrulu tetè”, giocattolo formato da un lungo bastoncino sulla cui sommità erano nastri colorati e due cerchi di carta velina racchiudenti pietruzze o ceci che roteando producevano un lieto rumore. Così per qualche minuto la vista e l’udito del piccolo annoiato venivano distratti.

La signora Piera di San Pietro Vernotico ci descrive i magici e teneri momenti ludici che le mamme dedicavano ai figlioletti improvvisando giochi e recitando filastrocche senza senso mentre li tenevano in grembo e portavano le loro manine al viso:

Cuncetta, Cuncetta

lu tata vae a la fera

la fera de li mintuni

pisci, carni e maccaruni

(Concetta, Concetta, / papà va alla fiera / la fiera dei montoni / pesce, carne e maccheroni)

oppure:

Manni manni

è sciutu lu Nanni

ha ‘ccattato la cecce

è sciutala muscia

se l’ha mangiata

se l’ha pappata

estì, estì de casa mia

(Manni, manni / è uscito Nanni / ha comprato la carne / è uscita la gatta / se l’è mangiata / se l’è pappata / fuggi, fuggi da casa mia).

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Forte Laclos, mostra personale di Gianluca Marinelli

 

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Gianluca Marinelli

Forte Laclos

A cura di Andrea Fiore

Dal 30 gennaio al 2 marzo 2013

G. Marinelli, Forte Laclos (frame), 2012, video, Courtesy Galleria Monopoli

La Galleria Monopoli è lieta di presentare: Forte Laclos, una mostra personale di Gianluca Marinelli (Taranto 1983) a cura di Andrea Fiore. Il percorso espositivo propone una riflessione sul rifiuto dell’oblio, sull’autodeterminazione dell’individuo e sulla libertà del lavoro intellettuale, attraverso la ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Choderlos de Laclos (1741-1803), autore del
romanzo Le relazioni pericolose, morto a Taranto nel 1803.
Forte Laclos è un progetto che analizza gli ultimi giorni di vita dello scrittore e ufficiale francese Choderlos de Laclos inviato in Puglia per seguire la costruzione di un forte militare sull’isola di San Paolo, nel golfo di Taranto. La fortezza napoleonica non fu mai terminata e Laclos morì dopo pochi mesi dal suo arrivo.
Marinelli ricostruisce e interpreta le ultime vicende dell’autore francese,  accompagnando il visitatore in una riflessione sull’assurdo e sul senso di precarietà, come le forze che in ogni epoca attraversano la vita dell’individuo, impedendogli di esprimere il proprio potenziale, spesso con esiti tragici.
Un’indagine che lega emotività e sguardo documentarista, esistenzialismo e misura classica. Il progetto rivela la possibilità di far coesistere la figura dell’artista con quella dello storico, dimostrando che una ricerca intellettuale può essere espressa attraverso un solido legame tra produzione artistica e ricostruzione dei processi storici.
Il percorso espositivo prevede la proiezione di un video ispirato ad una lettera inviata dall’autore de Les liaisons dangereuses al comandante della spedizione francese in Italia Auguste Marmont (1774-1852) e la presenza di disegni e opere realizzate attraverso materiali d’archivio rielaborati dall’artista.

GALLERIA MONOPOLI
via Giovanni Ventura 6
20134 Milano
+39 02 36593646
+39 333 5946896

www.galleriamonopoli.com
info@galleriamonopoli.com

Gianluca Marinelli (Taranto 1983). Artista e storico dell’arte. Vive e lavora tra Lecce e Milano.
Tra i suoi ultimi progetti artistici: Scrascia! (mostra personale), performance e installazioni di arte relazionale (Carosino, Castello D’Ayala Valva, marzo 2010); Scipione Ammirato Public Talks, video (Lecce, Ammirato Culture House, luglio 2011, a cura di A.F.A); The Wall, mostra collettiva itinerante (Lecce, Archiviazioni, ottobre 2011, a cura di Pietro Gaglianò); L’ambiente audio/cinetico di Antonio De Franchis, video (Venezia, 54° Biennale -Padiglione Spagnolo-, nell’ambito de Il Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio, ottobre 2011, a cura di Cesare Pietroiusti); Open 4, mostra collettiva (Venezia, S.A.L.E., gennaio-aprile 2012); La scelta del presente, mostra personale (Milano,
Galleria Monopoli, marzo 2012, a cura di Andrea Fiore). Collabora con l’ACH (Ammirato Culture House) di Lecce.

 

 

LAVORARE ALL’INFERNO. I dannati nel Giudizio universale affrescato nella chiesa di Santo Stefano di Soleto

soleto

 

di Luigi Manni

 

 

La chiesa di Santo Stefano (XIV-XV sec.) sorge nel centro di Soleto, capoluogo in epoca angioina della contea di Raimondo del Balzo de Courthezon, poi di Nicola Orsini e, fino al 1406, di Raimondello Orsini del Balzo. La contea era unitariamente circoscritta, con i corpi feudali di Soleto, Galatina, Sternatia e Zollino, in una vasta coinè grecanica alloglotta di tradizione bizantina, oggi ridotta ad un’enclave conosciuta come Grecìa Salentina, situata a sud di Lecce, nel cuore del Salento.

Lo scenario artistico del distretto comitale era stato profondamente influenzato dal grandioso cantiere tardogotico di Santa Caterina di Galatina e dal tempietto stefaniano soletano, entrambi allestiti dal conte-principe Raimondello sul finire del Trecento.

Di grande interesse risultano gli affreschi che coprono interamente le pareti della chiesa. Nella prima fase il pittore del Trecento – chiamiamolo così essendo anonimi i frescanti -, riconducibile ad una bottega di artisti locali, epigoni dei noti pittori soletani Nicola e il figlio Demetrio, confermò la tradizione pittorica bizantineggiante di Soleto, soprattutto nel catino absidale, in cui è raffigurato, al centro, il Cristo Sapienza e Verbo di Dio e in altri cartoni campiti sulla fascia inferiore delle pareti. Quest’ultimi, intorno al 1420, probabilmente su commissione della contessa-regina Maria d’Enghien, già vedova di Raimondello e poi di re Ladislao, furono integrati da una nuova teoria di santi stanti, vere colonne della chiesa. Dieci anni dopo, ma entro il 1430, sui registri superiori, privi di immagini, vennero allestiti il Ciclo cristologico (parete settentrionale); l’Ascensione e la Visione dei profeti (parete absidale); la Vita e martirio di Santo Stefano (parete meridionale).

Ma è soprattutto il Giudizio universale, affrescato sul muro di controfacciata, ad attirare la nostra attenzione, in particolare i dannati dell’Inferno che affollano le bolge infernali e che diavoli mostruosi, tenendoli sulle spalle, accompagnano in un macabro corteo fino a gettarli nelle voragini infuocate. Sono rappresentati nudi, senza capelli e in maniera anonima e seriale. E’ evidente che all’ideatore del Giudizio universale non interessava la resa fisionomica dei peccatori, quanto la rappresentazione dei loro peccati.

soleto

Tra gli eresiarchi e i dormiglioni della domenica figurano, quindi, alcuni lavoratori riconoscibili dalle didascalie greche che li accompagnano e dagli arnesi del loro mestiere, evidenziati in primo piano. Tutti sono condannati per l’uso illecito e fraudolento delle loro attività: così il taverniere, con la brocca di vino in mano, per aver frodato sulla qualità del vino; l’usuraio, rappresentato con la borsa dei denari, per i facili guadagni ottenuti con la pratica feneratizia; il macellaio, con la bilancia falsa, strumento della sua frode; il giudice, per le sue sentenze inique; il sarto, identificato dalle forbici, per aver ingannato i clienti sulla qualità dei tessuti. Maria d’Enghien, minacciando pene severe, li diffidava dal “vendere per ragusini, panni vicentini o veneziani o veronesi”.

E poi ancora lo zappatore, che spesso ingannava i proprietari terrieri rubando i prodotti della campagna o spostando i confini durante la zappatura; il muratore, che a volte lucrava sui materiali e sulle prestazioni professionali ed altri peccatori condannati per furto e frode.

Si ha l’impressione, tuttavia che il Giudizio universale di Soleto non sia stato propriamente giusto nella distribuzione del premio e del castigo. Tra le fiamme dell’Inferno, infatti, non troveremo nessun chierico, monaco, vescovo, cardinale, papa, re o regina pur presenti in altri Giudizi universali (per esempio quelli di Giotto o del Beato Angelico), ma solo artigiani, contadini, funzionari, colpevoli dell’uso fraudolento del loro mestiere e condannati, per usare una felice espressione di Chiara Frugoni, per sempre, “a lavorare all’inferno”.

Chi sono gli altri artigiani divorati dalle fiamme nell’Inferno di Soleto? Per saperlo, o ci si reca personalmente nella graziosa chiesetta soletana, o ci si affida, se mi si passa la pubblicità affatto occulta, all’ultimo mio lavoro sull’argomento, il volume La chiesa di Santo Stefano di Soleto, per conto di Congedo Editore di Galatina. Buona lettura.

 

NdR: pubblicato su Il Filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne permesso la pubblicazione

Un relitto greco in latino, in italiano e in neretino

di Armando Polito

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Nella formazione delle parole un ruolo determinante hanno da sempre avuto i prefissi, gli infissi ed i suffissi, cioè quei segmenti, rispettivamente iniziale, centrale e finale che, aggiunti alla parola base, hanno consentito alla lingua di arricchirsi nel modo più semplice e meno costoso, cioè sfruttando fino in fondo quello che già essa aveva.

Senza fare della fantalinguistica si può ipotizzare che il primo vocabolario dell’homo sapiens fosse molto limitato (me lo immagino in gran parte onomatopeico) e che l’inizio dell’uso di questi segmenti appartenga già ad una fase abbastanza evoluta del linguaggio. Si può pure ipotizzare che da un uso ristretto si sia passati ad uno molto più ampio, sicché oggi ben poche sono le parole che non possano fruire di almeno uno di questi segmenti per incrementare, precisare, rettificare la sua valenza semantica di partenza.

Dedicherò oggi la mia attenzione ad un suffisso molto usato nel dialetto neretino: -isciàre. L’ho chiamato suffisso solo per comodità,  correttamente avrei dovuto dire segmento terminale perché consta, a voler essere rigorosi, di un infisso (-isci-) e di una desinenza (-are). Partiamo da alcuni esempi concreti: pitticulisciàre, carrisciàre, manisciàre, paparisciàre, mustunisciàre.

Ne ho scelti cinque perché a mio avviso sono emblematici delle cinque situazioni che legano via via sempre  più labilmente ciascuna voce alla corrispondente italiana ancora in uso con lo stesso significato o che lo è stata o che lo è ma con un diverso significato o che sarebbe potuta essere e non è stata o che difficilmente sarebbe potuta essere. Esaminiamo queste situazioni una per una:

pitticulisciàre corrisponde perfettamente all’italiano pettegoleggiare, anche se di uso meno frequente rispetto a pettegolare.

carrisciàre corrisponde perfettamente all’italiano carreggiare nel suo significato obsoleto di trasportare con un carro o altro veicolo.

manisciàre, corrisponde perfettamente all’italiano maneggiare, ma solo dal punto di vista fonetico-formale, non da quello semantico giacché la voce dialettale, usata sempre riflessivamente o in forma fattitiva, ha il significato di sbrigarsi, darsi da fare.

paparisciàre, usato nel significato di sguazzare come una papera ed in quello traslato di godersela, non ha corrispondente (se fosse esistito sarebbe stato, comunque, papereggiare) in italiano.

mustunisciàre, usato nel significato di trattare maldestramente una pietanza rovinandone l’aspetto e sconvolgendone l’aspetto ma anche in quello traslato di gualcire, non ha corrispondente italiano ed è difficile pure immaginare un mostoneggiare che avrebbe comportato l’utilizzo di un improbabile (ma non per il dialetto) mostone accrescitivo di mosto.

Fino ad ora, dunque, è stata provata la corrispondenza tra il dialettale -isciàre e l’italiano -eggiàre e, tenendo conto delle definizioni, il valore prevalentemente ripetitivo del segmento in questione.  Ma -isciàre/-eggiàre da dove deriva? Deriva dal segmento latino -izàre presente in 34 voci in cui la parola di base è di origine greca. Lo stesso segmento -izàre, inoltre, corrisponde al greco -ίζειν (leggi -ìzein) in cui ίζ è un infisso ed -ειν- la desinenza dell’infinito presente.  Faccio un esempio: baptizàre (da cui l’italiano battezzare e il neretino attisciàre) è dal greco βαπτίζειν (leggi baptìzein)=immergere, a sua volta da βάπτειν (leggi bàptein) con lo stesso significato, con questo processo costruttivo: βαπτ– (tema di βάπτειν) + infisso -ίζ- + desinenza -ειν. La ζ in greco nasce da δ+j, per cui in origine βαπτίζειν era βαπτίδjειν. Perciò, sempre in origine, baptizàre doveva essere *baptidiàre ed è per questo che nei dizionari italiani -eggiàre è fatto derivare da -idiàre, ora spacciato per latino classico, ora più correttamente come latino volgare, ma, trattandosi di una forma ricostruita, sarebbe meglio comunque scrivere *-idiàre. Tuttavia tracce dello sviluppo  fonetico dj (latino)>gg (italiano)/sc (neretino) sopravvivono in hodie (da hoc die=in questo giorno)>oggi/osce; merìdie(m)>meriggio>mirìsciu2 e per mettere in campo una forma verbale: vìdeo(=io vedo)1>veggio (forma letteraria per vedo)>bbèsciu.

Sapere, poi, se un verbo terminante in -eggiare/-isciàre ha a che fare (magari indirettamente, perché ho già prima detto che 34 sono le voci note di origine greca) o meno con *-idiàre è piuttosto difficile perché non sempre è agevole ricostruire priorità cronologiche. Prendo per tutti il caso di mustunisciàre: in assenza di un sostantivo mustunìsciu è evidente la formazione autonoma del nostro verbo da un non usato accrescitivo (mustùne)  di mustu, probabilmente sulla falsariga di monte>muntòne (=mucchio)>muntunisciàre (=ammucchiare); mustu, peraltro, ha dato vita a mustisciàre e a mustìsciu (quest’ultimo in senso traslato usato pure come sinonimo di discoletto) ed è pressoché impossibile dire se il verbo è dal sostantivo o viceversa.

Più problematico il caso di carrisciàre perché nel latino medioevale è attestato (glossario Du Cange, tomo II, pag. 168) carezàre/carizàre/carrezàre/carritiàre/carriziàre e quindi si potrebbe pensare che l’obsoleto carreggio sia nato da carreggiare; ma, sempre nel latino medioevale (op. cit., pag. 170) è attestato carìcium/carìgium/carègium/carrègium e, siccome è impossibile stabilire una priorità cronologica delle due serie di voci appena elencate, carreggio potrebbe derivare da carreggiare o viceversa. Ciò che mi pare certo, per fortuna, è che il segmento che precede la desinenza tanto nella serie dei sostantivi quanto in quella dei verbi (nei suoi esiti, rispettivamente: ci/gi z/ti/zi) è figlio del greco ίζ.

Questa conclusione, ammesso che corrisponda veramente a quanto è successo, dovrebbe indurre a riflettere sul mezzo  più importante a nostra disposizione, ancora più usato del denaro …, e alla barbarie espressiva impostasi progressivamente per una proterva volontà politica bipartisan che, affossando la scuola (ente educativo organizzato e gestito dallo stato o da privati con il compito di diffondere, attraverso un insegnamento metodico e collettivo, la cultura, l’istruzione e la preparazione professionale) ha affossato pure, com’era fatale che succedesse, grazie anche ad espedienti, simili ad una perversa spirale, come il test, il master, il tirocinio3 (inventati tutti per far cassa, pubblica o privata) la scuola (insieme dei seguaci e discepoli di un grande maestro). E senza maestri (i migliori allievi vanno a diventarlo all’estero), anche se da rottamare al momento giusto …, non c’è futuro o, meglio (?), ce ne sarà uno in cui non un giovane, come succede adesso, ma un anziano ignorerà di una parola di uso frequente il significato perfettamente conosciuto da suo nonno. Figurarsi che difficoltà ci sarebbe stata a spiegargli la differenza tra le due accezioni di scuola se per fortuna (?) nel frattempo questa parola non fosse scomparsa dal vocabolario…

-La solita predica- sbotterà qualcuno…

Già, ma chi non sa sfruttare quel poco (parlo solo di me) di conoscenza che ha nel suo campo per capire l’origine o le concause di certi fenomeni negativi e tentare per quanto gli è possibile di contrastarli sia pure con la semplice denuncia,  magari partendo da un infisso ai più insignificante, non è una persona di cultura, è semplicemente un portatore, neppure sano, purtroppo!, di ciarpame cerebrale, di spazzatura della mente, senz’altro più inquinante e meno biodegradabile di quella non metaforica.

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1 Da *vìdjoιδ (id) è uno dei temi di ὁρᾶν (oràn)=vedere e in origine aveva un digamma iniziale (corrispondente a v) recuperato dal latino vidère=vedere.

2 Da cui il derivato mirisciàre che, però non rientra nel gruppo dei verbi col suffisso -isciàre proprio perché qui questo segmento non è suffisso; infatti merìdie(m) nasce per dissimilazione da un precedente medìdie(m) composto da media(m)=mezzo+die(m)=giorno; quindi qui il gruppo –sci– non ha nulla a che vedere con -ίζειν ma è normalissimo sviluppo fonetico di die(m)=giorno, secondo componente  della parola.

3 Tutti di origine latina:

a) test è dal francese antico test=vaso usato dagli alchimisti per saggiare l’oro, e questo dal latino testa(m)=vaso di terracotta (dalla variante neutra testum è nato tièstu in dialetto neretino). È colpa mia se questa parola consente alla mia ironia di esprimersi in modo impertinente e pertinente allo stesso tempo? È colpa mia se questo criterio di valutazione mi ricorda nessi come alchimia politica e simili e che la stessa etimologia ha (forse sottintendendo vuota con riferimento all’autore …) testa sinonimo di capo?

b) master è anch’esso dal francese antico maistre, a sua volta dal latino magìstru(m)=maestro, da magis=più. Purtroppo l’unico più sembra essere  quello relativo agli incassi di chi se lo è inventato.

c) tirocinio è direttamente (almeno lui!) dal latino tirocìniu(m)=primo servizio nelle armi, reclutamento, prima comparsa in pubblico, debutto, inesperienza. È sicuramente una parola composta in cui il primo componente è tiro=recluta. Questa stessa voce in latino è anche nome proprio: Marcus Tullius Tiro era il liberto (tutt’altro che inesperto, nonostante il nome, tanto che a lui viene attribuita l’invenzione della stenografia: scrittura tironiana) di Cicerone. Se il primo componente è tiro per il secondo leggo nella Treccani on line: terminazione spiegata in modo non soddisfacente. Ignoro il nome dell’autore o degli autori la cui spiegazione è insoddisfacente ma mi consento lo stesso a mio rischio e pericolo la presunzione di non fare alcuna indagine perché secondo me la questione è di una chiarezza lapalissiana e bastava ricorre all’analogia, neppure semantica, ma semplicemente formale. Se vaticìnium=profezia  è composto  da vates=indovino+cànere=annunziare, celebrare cantare (etimo che trova, una volta tanto, tutti d’accordo), non vedo perché tirocìnium non dovrebbe essere formato da tiro+cànere, soprattutto tenendo conto che il primo reclutamento (a diciassette anni) veniva celebrato con grande solennità e tra il giubilo dei parenti (un po’ come avviene oggi nella cerimonia del giuramento).

Però chi ha giudicato insoddisfacenti quelle proposte che, ripeto, non conosco potrebbe avere ragione, non tanto perché la mia presunzione rimane sempre esposta alla eventuale punizione ma perché potrebbe essere stato condizionato dal fatto che  il tirocinio, soprattutto quello di cui parlo qui,  è tutt’altro che un’esaltazione della recluta. Per ristabilire la verità, però, basterebbe il cambio di un solo fonema e chiamarlo tirocidio, in cui tiro è sempre lui e -cidio è da caedere=fare a pezzi, come, con un destinatario più generico dell’azione, avviene in omicidio

La Bottega da Rigattiere di Paolo Vincenti

di Raffaella Verdesca

Paolo conosce bene le rotte del pensare e naviga da tempo nel suo stile a tratti periglioso, a tratti placido. Gioco e abilità. Giustifica il suo modo di scrivere adducendo molta responsabilità ai poeti francesi, proclama la sua rinuncia a farlo a favore invece del citare, riprendere, trascrivere e addirittura copiare brani dalle opere dei grandi scrittori di ogni tempo, se pur compaiano fra i suoi righi anche stralci di canzoni, spot pubblicitari, slogan e frasi di film celebri. E’ un patchwork letterario, un fine manufatto in cui il nostro artigiano usa fili di cultura e di intelligenza per unire diversi frammenti di letteratura al linguaggio comune del quotidiano e del suo sentire. Il risultato finale è un libro, “La bottega del rigattiere” (Lupo Editore 2012), opera in cui risultano impercettibili le cuciture tra i pezzi di pagina tanto è forte la sfumatura passionale e personale che le copre. Lungi dall’esulare dalla tracciabilità artistica propria di Paolo Vincenti, il titolo ci fa pensare al gesto romantico di un uomo che raccoglie per non perdere pezzi di vita preziosi e che ricrea memoria nel lettore attraverso la sua stessa memoria. Quella che chiarisce la scelta di scrivere, per esempio, è la prima ben incastrata nella forte componente dualistica che caratterizza l’autore: Cultura o Finanza? Bivio d’inizio percorso. Seguire il proprio istinto o assecondare quello della propria famiglia? Socrate lo aiuta sottoponendogli le sue idee, quelle contrarie all’antico sentenziare “Primum vivere deinde philosophari” ovvero dello ‘Svuotare il cervello e riempire la pancia’, rincorrere onore, guadagno e potere attraverso lavori mondani: vince alla fine la speculazione intellettuale tanto cara a Socrate, il ‘Cogito ergo sum’ cartesiano, e Paolo sceglie la Cultura. In realtà questa non sarà la prima scelta importante che quello dovrà affrontare. Ecco quindi riaffacciarsi subito il dualismo genetico della sua personalità, lo stesso che sarà protagonista di ognuna di queste pagine: corpo debole e fantasia veloce, andare e tornare, tempo ritrovato – amato – perduto – risarcito – derubato, dolore e gioco, odio e amore, virtù e vizio. Come sempre, il filo conduttore delle esternazioni del Vincenti è il tempo; il tempo diventa il seme prolifico di amori e rimpianti, batte il ritmo della danza, la stessa che mette in luce la passionalità irruenta, anch’essa duale, dell’autore.

In molti suoi passaggi, quest’ultimo descrive il ballo che dal lontano mito di Dioniso arriva a sconquassare gli equilibri del suo vivere presente. Il vino è gioia primitiva che scorre nelle vene e crea euforia, impazzare di ritmi folli, di danze e di urla. “Non c’è Venere senza Bacco” recita l’autore e con una capacità straordinaria riesce a ricostruire attraverso le parole l’immagine in movimento delle Baccanti, allegre diavolesse, donne forsennate in preda al delirio e al furore della carne. Il lettore si trova risucchiato dai suoni assordanti di tentazioni, allucinazioni ed estasi collettiva che altri non sono che i dissidi interiori di chi scrive, di chi mette a confronto l’ebbrezza dionisiaca che fa provare allegria e la vita quotidiana, parca, che ce ne priva con la sua crudele monotonia. La danza è quindi simbolo di riscatto, di corteggiamento, eccitazione, spasimo folle, azimut del piacere, pretesto di sfrenatezze. L’intimo tormentato di Vincenti non fa altro che rivendicare in questo modo il diritto alla libertà, la ribellione di un’anima che si vuole disfare di un corpo-prigione, l’alibi di uno stato di trance usato per soddisfare ogni istinto e perciò illudersi di essere finalmente ciò che si vuole. “Nel debordare c’è la mia voglia d’amare” dice con un fondo d’amarezza l’autore. Se Paolo infatti si sente represso, schiacciato da delusioni passate e presenti tanto da invocare danzanti folleggiamenti tra satiri e baccanti, è segno chiaro di una sua consapevolezza dell’altra faccia della medaglia, ossia quella dell’amore, l’amore perduto, passato, cambiato e pur fissato in eterno nella memoria. Bella e poetica la sua donna, la stessa che si è metamorfizzata nel tempo fino a passare da splendida Afrodite a compagna assente, svogliata, da fuoco di emozioni a oscurità di passioni. L’amata, quella del ballo lento e non dei ritmi indiavolati della taranta e dei baccanali (sacro e profano, San Paolo e Dioniso), è colei che, unica, è in grado di aprire il sipario alle meraviglie del sentimento, alla similitudine sconfinata con il mare, alla verità che piega il tempo e lo addomestica al lento passaggio dell’amore, l’unica passione che scopre, che ricorda, che crea,…che ama. La danza spasmodica dei corpi, la lussuria, possono esorcizzare il lento ed eterno scorrere dell’amore? Può il dolore della sua mancanza invocare il desiderio ancestrale del piacere come droga che lenisca la nostalgia e sbiadisca il ricordo? Esiste davvero il miracoloso passaggio invocato dall’autore, dalla schiavitù dell’amore alla libertà dei sensi? Tutte provocazioni del Vincenti rivolte tanto a se stesso quanto ai lettori. Niente dura per sempre, e questo è un concetto pregnante l’opera di Paolo Vincenti proprio perché appendice del tempo e dell’animo nostalgico che, da buon rigattiere, gli riconosciamo. Ma se da un lato aleggia sulle pagine una vena malinconica, dall’altro l’autore la esorcizza con brillante ironia e toccante poesia, atta a recuperar sogni infranti: giochi di parole e sentimenti in versi. “Ho inventato per te un mondo nuovo, un mondo iperuranio dove tu, bella tra le stelle, delle stelle la più bella,sia soltanto desiderio e nuvole ed io passione…” ( tratto da “Avanza”)Ed ecco scatenarsi in tutto il suo fervore l’attaccamento tormentato dell’autore (ennesimo dualismo) al suo Salento, nero come il cuore della sua rabbia repressa ma anche Paradiso di verde e blu, teatro di immobilismo sociale ma pure invito alla quiete e alla bellezza: le case bianche tra gli ulivi, le litanie dei mandorli e dei gelsi, le luci delle lampare e il canto ininterrotto dei grilli.Potrebbe a questo punto mancare il mare nel cuore di un artista salentino? Niente affatto, e meravigliose gamme di colori e significati vengono infatti attribuite da Paolo a questa familiare distesa azzurra: il mare è orrore nella tempesta ma anche premio di orizzonti infiniti per l’uomo che se ne avventura sfidando se stesso e la propria paura. C’è il mare inteso come noia, ci sono abissi di nostalgia, c’è ‘un mare di affanni’ e un amore grande quanto il mare.Se poi si vuole guardare il mondo dall’alto di un tetto glorioso, Paolo offre al lettore la sua idea di giovinezza divisa tra incoscienza ed entusiasmo, nostalgia di fiori appassiti da un tempo che incalza e potere di un futuro ancora intatto. Non disdegna però neanche i suoi quarant’anni, lo scrittore, per fare autoironia e per affrontare guerra e politica con la crudezza tipica di un uomo cha ha vissuto.Col suo stile a volte macchinoso, eccentrico, a volte lieve, poetico e nostalgico, Paolo Vincenti raccoglie così nella sua bottega di rigattiere letterato e di amante disilluso, la vita in ogni suo più sacro aspetto perché chi condanna crede, chi si ribella soffre, chi odia ama, chi non si arrende spera.

Raffaella Verdesca

 

 

Lecce. Masseria Papaleo. Lì ove dimorano le Fate.

di Massimo Negro

 

Se le fate sono esistite non potevano che vivere in un luogo incantato come questo. Prima che gli sfregi dell’uomo, i segni del tempo e dell’abbandono le facessero allontanare da noi. Ma prima di andar via hanno voluto lasciare un segno della loro presenza, affinché ce ne ricordassimo. Per lungo tempo non l’abbiamo fatto, dimenticando la loro dimora, lasciando che questo splendido luogo fosse alla mercé di vandali e devastatori. Ma forse le loro speranze non erano state poi così inutilmente riposte in noi. Infine il loro ricordo è nuovamente riaffiorato. Ma di questo scriverò in seguito nelle conclusioni.

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Bisogna svuotare la mente, occorre dimenticare il mondo che attualmente ci circonda con le sue frenesie e isterie. Un bel respiro e ci si immerge nell’ocra della pietra, nelle macchie di verde intenso, in un mondo sospeso tra l’oggi e ieri, tra terra e cielo.

Ed è questa la prima impressione che si ha nel guardare la grande Masseria Papaleo. L’antica azione dei cavatori, che hanno lasciato le loro profonde tracce incise nella roccia, ha reso visibile questa sensazione di sospensione.

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Che risulta ancor più evidente se ci si sposta sul retro del complesso. Si ha quasi l’impressione che la Masseria sia stata poggiata da chissà quali forze sovraumane sul blocco di pietra calcarea su cui si erge. Pare quasi che da un momento all’altro possa sollevarsi e scomparire quasi fosse il Castello errante di Howl.

Un gioco di archi dalle grandezze e altezze variabili, mantenuti ancora in piedi grazie a chissà quale miracolo, ci conduce all’interno del complesso, dinanzi alla lineare e imponente facciata dell’edificio. Le decorazioni esterne sulle architravi delle tre porte di accesso al piano nobile fanno intuire, con pochi dubbi, l’importanza del luogo.

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Da segni ormai non più visibili, ma giunti sino a noi da chi nei primi decenni del secolo scorso visitando il luogo ha voluto lasciar memoria per iscritto della propria visita, si pensa che sia appartenuta a Scipione de Summa, che governò nella Terra d’Otranto dal 1532 al 1542. Siamo nel periodo in cui, grazie a Carlo V, si iniziava la progettazione e costruzione del maestoso Castello di Lecce. E’ evidente che la stessa attuale denominazione di masseria potrebbe essere impropria, trattandosi quindi di un vero e proprio palazzo nobiliare.

Ma il complesso ha molto probabilmente origini che potrebbero andare poco più indietro nel passato. Infatti, giunti dinanzi alla scalinata che conduce all’esterno, sul lato sinistro del complesso, ove molto probabilmente sorgeva un giardino, in alto sulla lunetta vi è un affresco rappresentante l’Annunciazione, e in basso (forse) si legge 1518 [?]. L’affresco è rovinato ma grazie all’altezza non a subito danni ancora maggiori.

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La scalinata anzidetta conduce all’esterno, alla base del blocco calcareo su cui poggia il grande complesso. Dopo pochi passi è ben visibile una piccola porta. A guardarla oggi, con sguardo superficiale e veloce, sembra una normalissima entrata. Una di quelle che possono condurre in qualche locale di servizio, in qualche scantinato. Ma basta porre un minimo di attenzione per rendersi conto che non è un accesso come tanti altri.

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Il tempo e lo sfarinamento della pietra leccese ha ormai reso irriconoscibili i dettagli di una architrave che doveva essere di particolare pregio.

Francesco Tummarello che visitò il posto, nel 1925 (1) ci ha lasciato questa descrizione:

“Appena si mette piede nel giardino, si è richiamati da un grande bassorilievo su l’architrave d’una porta -della murata a destra del caseggiato soprastante. Tale bassorilievo, intagliato sulla pietra leccese, e formante l’architrave, è quasi tutto corroso, ma vi si scorgono ancora due grandi angioli che sostengono una targa con una logora e indecifrabile iscrizione, la quale principia colla seguente parola: NIMPHIS ET…. POMO…. in carattere lapidario romano. Poco al disopra, sono intagliati due piccoli scudi colle insegne attaccati alla cornice; in uno dei quali scorgonsi due torri e un leone rampante.”

Oggi di quello che vide il Tummarello resta ben poco. E’ visibile ancora l’angioletto di destra; di quello di sinistra si intuisce che vi era dai contorni sgretolati della pietra. Dell’iscrizione non resta praticamente nulla. Una pietra particolarmente delicata (non tutta la pietra leccese è uguale in quanto a resistenza e sfarinamento) e nel tempo non curata purtroppo ha fatto giungere ben poco sino a noi.

Ma quello che lascia intuire la porta di accesso è ben poca cosa rispetto a quello che appare una volta entrati. Basta fare un passo all’interno, pochi secondi che la vista si abitui alla penombra e si viene colti da un evidente sensazione di incredulità. Grandi figure femminili sembrano prender vita dalle pareti.

Le fate del Ninfeo di Masseria Papaleo.

Il Tummarello, preso anch’egli da evidente emozione, nel suo scritto riporta quanto segue:

“Vedesi, non una grotta, ma un gran salone a soffitto piano, colle pareti adorne di statue dentro nicchie :ad arco circolare. Le nicchie sono 12, sei per ogni lato, una rimpetto all’altra. Le figure femminili, in alto rilievo, grandi al vero, sono 6, tre per ogni parete e alternate a nicchie vuote di forma emicilindrica con una grande conchiglia bene intagliata nella parte emisferica superiore. — Ecco le Fate! delle quali una è col capo coronato di fiori!

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Peccato che sono quasi tutte mutilate alle braccia, al petto e al viso; pur non pertanto si intravede una certa grazia nelle movenze e nell’insieme delle vesti eleganti, e la fantasia anima quei visi deformati, scorgendovi anche delle bellezze giovanili. E si pensa davvero alle Belle Fate !… Alle Fate Buone e benefiche!…  Ma la meraviglia si aumenta, osservando meglio, quando cioè si vede che tanto le statue che le intiere pareti e le nicchie, come il soffitto a piattabanda, sono cavate e scolpite nel vivo sasso, formando un grandioso blocco di pietra leccese.”

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Quanto scorge il Tummarello è sostanzialmente in linea con quanto giunto sino a noi. Le figure femminili sono mutilate e rovinate così come lui le descrive, ma il loro stato non far venir meno quel senso di meraviglia che ti coglie entrando nella sala sotterranea. Sembra quasi che volgano il loro sguardo nel controllare chi entra nei loro “domini”.

C’è solo un’evidente elemento di discontinuità rispetto alla visita dei primi del ‘900. Il Tummarello nel suo scritto scrive di un gran salone e di sei nicchie per i due lati. Oggi non vi è un gran salone ma un muro, forse posticcio, ha diviso in due stanze il grande ambiente.

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In un altro passo, il Tummarello scrive di una cavità sotterranea nella quale era possibile accedere dalla stanza delle Fate. Oggi si notano nel pavimento i parziali contorni di un’apertura. Se quello è l’accesso, la cavità è completamente interrata.

Nella seconda stanza ricavata dal muro posticcio, lungo le pareti continuano ad essere presenti altre figure femminili, intervallate da nicchie decorate. Sia nella prima che nella seconda stanza si può notare che le pareti sono state rinfrescate (chissà quando) con una brutta tinta azzurra. Incluse le Fate.

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Tornando nella prima stanza si nota una porta che conduce verso una stanza attualmente priva di aperture. Per cui nell’entrare si resta immersi nell’oscurità e l’unica luce che vi entra è quella proveniente dalla porta di accesso.

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“ …. una stanza rotonda a volta sferica. Questa costituisce il vero Ninfèo o sala da Bagno, di forma cilindrica, con un bel sedile attorno e colla cupola a calotta sferica, nel cui centro sta un lucernario, attualmente chiuso. In essa, alla perfezione geometrica, si accoppia l’ornamentale cornicetta dentellata a mensolette, su cui poggia la cupola. In questa Rotonda, doveva osservi la vasca da bagno, ora sparita.”

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I ninfei hanno origini antiche. In origine si identificava un edificio sacro a una ninfa, in genere posto presso una fontana o una sorgente d’acqua. Nella civiltà greco-romana con ninfeo si indicavano dei “luoghi d’acque”, ossia strutture presentanti vasche e piante acquatiche presso i quali era possibile sostare, adibire banchetti e trascorrere momenti di ozio.

Si dice che anche il luogo dove sorge il ninfeo delle fate era in origine segnato da stagni, poi prosciugati nell’operazione di bonifica delle “tagghiate”.

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Ovviamente un luogo come questo non poteva sfuggire alla narrazione di leggende e racconti di tesori (acchiatura). In una rivista di culturale edita dalla Banca Popolare Pugliese, nel 1989 compariva un articolo di Fiocco e Zellino in cui vi era riportato:

“Qualcuno racconta che anche oggi escono dal ninfeo – specie di notte – e che talvolta bussano alle porte delle case spaventando la gente, che possono impietrire con uno sguardo. Queste donne ultraterrene sono apparse talvolta in vaporosi abiti bianchi, talaltra nude e affascinanti: “mezze nute”, ci diceva un contadino. Possono cambiare aspetto a loro piacere, divenire alte come palazzi, rendersi invisibili o tramutarsi in animali. Una signora ci ha narrato così di avere visto un giorno un animale fantastico balzar fuori al tramonto dal canneto vicino al ninfeo in un gran polverone, e di essere fuggita spaventata. Colei che abita la masseria si dice abbia visto un giorno una fata, vestita di bianco; seduta al tavolo di casa sua, e dopo poco sparita.

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Nel ninfeo era nascosta l’acchiatura delle fate ed è per questo che fino a qualche anno fa non vi si faceva entrare nessuno. Ora si dice che il contadino che lavorava il fondo circostante abbia trovato, nascosta in una nicchia, l’acchiatura e che egli sia protetto dalle fate: in una notte di tempesta esse lo salvarono da un fulmine che lo sfiorò, bruciacchiandogli i calzoni, senza fargli male. Egli ci ha detto di non credere alle fate, che chiama con espressione poetica “illusione di vita”, e di non averle mai viste. Ma non è forse vero che chi riceve favori dalle fate o intrattiene rapporti con loro non deve farne parola con nessuno?”

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Ma queste non sono le uniche leggende che si narrano. Si racconta di una ragazza che aveva un intenso e inesaudito desiderio di maternità. Purtroppo il non poter aver figli, con il tempo, condusse la poveretta quasi alla follia. Ogni giorno si recava nelle stanze del ninfeo recando con se un ramo di un albero, cullandolo proprio come se fosse un bambino. Le fate nel vedere la disperazione della ragazza decisero di intervenire. Fu così che, si racconta, si compì un incredibile miracolo. Il ramo si tramutò in un bambino e il desiderio della povera ragazza venne così esaudito.

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Ma la suggestione di questo luogo non è solo racchiusa in queste splendide stanze sotterranee. Uscendo all’esterno e volgendo i miei passi verso il retro del grande complesso mi trovo dinanzi ad un gioco di aperture e scale tutte profondamente intagliate e ricavate dalla roccia.

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E in alto i fregi sul balcone e sull’architrave dei fasti del passato.

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In questo luogo ci sono giunto grazie alle indicazioni dell’amico Marco Piccinni (2) che in una sua nota aveva segnalato lo stato di degrado e di abbandono del sito.

Fortunatamente questo luogo e le cave che vi sono attorno, note come cave di Marco Vito, rientrano in un complesso e vasto intervento di recupero progettato dal Comune di Lecce e finanziato dalla Regione Puglia.

La terza fase dell’intervento  prevede il recupero di Masseria Tagliatelle (come altrimenti è chiamata Masseria Papaleo) e del Ninfeo delle Fate, che diventerà “la Casa del Parco” a disposizione della città.

Nell’attesa che le Fate possano nuovamente tornare tra noi, spero che l’intervento di recupero non snaturi questo splendido luogo.

 

http://massimonegro.wordpress.com/2013/01/15/lecce-masseria-papaleo-li-ove-dimorano-le-fate/

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(1) Tummarello, Francesco: Il ninfeo delle fate a Lecce, Fede – rivista quindicinale d’Arte e di Cultura. – a. III, n. 2 (15 gennaio 1925)

(2) Marco Piccinni. Il ninfeo delle fate nella masseria Papaleo. Su Salogentis.it
http://www.salogentis.it/2012/05/23/il-ninfeo-delle-fate-nella-masseria-papaleo/

Cosimo De Giorgi e le ortiche

Ortica, da cascinamolinotorrine.com
Ortica, da cascinamolinotorrine.com

 

      

di Maria Grazia Presicce

 

 

La Cantarinula [2], questa invadente e a prima vista pericolosa e inutile pianta, mi riporta alla mia infanzia,  allorchè la nonna, dopo avermi informata che nel pollaio c’erano i piccoli tacchini che non stavano niente bene, mi chiedeva di accompagnarla in giardino dove avrebbe raccolto le cantarinule che sarebbero state un toccasana per quei poveretti.

Ci inoltravamo nel giardino dirigendoci negli angoli più in penombra, che nonna conosceva, dove crescevano tantissime piante di verdi e rigogliose ortiche.

– Attenta, non toccarle che ti bruci! – mi avvertiva – portami solo il cesto. Eseguivo mentre, la nonna lesta, con la mano protetta da un guanto, ne staccava le tenere foglioline e le riponeva nel cesto.Tornate a casa, la nonna poneva una pentola con un po’ d’acqua sul fuoco e vi immergeva le cantarinule lasciandole cuocere bene poi, le faceva raffreddare e dopo averle ridotte in poltiglia le mischiava con un impasto di crusca. Il pasto per i tacchini era pronto e subito si provvedeva a farglielo mangiare. In effetti la cura funzionava davvero, giacchè il giorno dopo le bestiole stavano meglio!

E’ bastato questo ricordo a farmi incuriosire e indurmi a soffermarmi sugli interessanti ed esaustivi articoli sull’Ortica curati dall’esimio Dottor Cosimo De Giorgi ( 1842-1922) e riportati su un giornale dell’epoca (1868) “Il Cittadino Leccese”.

Riporto gli articoli così come sono stati scritti da questo valente salentino, che tanto ha donato al Salento con la sua attenta e minuziosa attività di ricerca in svariati campi scientifici, sperando che possano interessare, oltre che a me, anche ad altri lettori!

 

 

IL CITTADINO LECCESE n. 3, 20 luglio 1868

SULL’ORTICA

I

Due parole di Proemio – un escursione botanica – L’Ortica – La vipera, il pelo dell’ortica e il fucile ad ago – L’acido formico – l’orticazione

 

Molte città e molte provincie d’Italia, ci hanno dato l’esempio di esatte ed accurate statistiche, e dimostrano in tal modo, colla freddezza del calcolo e delle cifre la loro importanza economica, scientifica e politica, paragonate alle loro consorelle. Fu uno slancio nella palestra delle nobili istituzioni; fu il Pecile[3] dell’ingegno italiano.Bellissimi esempi di tal genere noi troviamo nelle monografie provinciali di Sondrio, di Pisa,di lucca, di siena, di Forlì e nelle comunali di Milano, di torino, di Napoli, di venezia.

Cittadini, professori, artigiani, autorità, tutti vi concorsero in pari tempo: e per la monografia statistica della provincia  di Pisa compilata dal prefetto Torelli, mentre la studiava costì fu stabilito un fondo apposito, onde agevolare le escursioni scientifiche ad una scelta di naturalisti del Paese.

Un lavoro di tal genere qui fra noi sarebbe, non dirò difficile, ma quasi impossibile; non già che si manchi di uomini adatti o di insigni capacità intellettuali, ma perché si difetta di associazione, e più ancora di quelle scuole speciali rivolte a scopo illustrativo e pratico, più che all’istruttivo e teorico. Intanto una amministrazione qualunque, è da sé sola impotente a fornirci una statistica completa senza il concorso della cittadinanza, libero ma armonico, che valga a supplire alle mancanze ed inesattezze di quella. E peggio ancora se tutto dee riversarsi sulle spalle d’un solo: che a bene svolgere il quadro in tutti i suoi particolari, fa d’uopo collegar fra loro il principio di associazione con l’altro della divisione del lavoro. se qui si desse un estensione maggiore agli studi tecnici, o se vi piace, pratici, noi potremo sperare una coordinazione di fini e di mezzi adatti all’uopo. Che intanto ciascun di noi porti un briciolino di scienza o di arte ad illustrare qualche parte della nostra Provincia, ed il lavoro sarà bello e avviato, mentre gli sforzi dei pochi sian pure titanici, venivano sempre paralizzati dalla immensa vastità della materia.

Questi pensieri io volgea nella mente nel Maggio or decorso, e formavano il tema di una serie chiaccherata tra me ed un giovinotto col quale ero uscito a diporto.ragionare con lui di cose mediche era lo stesso come dire al muro: un po’ scettico com’egli era per cotesta scienza-arte, non divide le sue idee che con Cartesio e Molière; né io gli tenea il broncio per questo; anzi sfuggivo dal fargli discorsi di cotesto genere. La via che battevamo era una di quelle vecchie vie comunali, striate dalle piogge , solcate per lungo dai carri a rammentarci le prime rotaje di Stephenson; ora sparsa di ciottoli giallo.scuri, ora smaltata di timo e di margherite; e su questa a mò di pannocchia i corimbi violetti del Pulegio silvestre.[4] Il cielo era limpido e azzurro cupo, velato presso l’orizzonte di tenui strati di nuvole color rosa pallido: un vento leggieroincrespava l’onda delle graminacee dei campi contigui, che dal verde traea al giallo d’oro, giunte quasi a maturazione  completa.da per tutto  una varietà di forme, di colori e di disposizione nel cielo, nei capi e nella via che percorrevamo: una ricchezza d’individui, una povertà di specie! E vagabondi eran pure i nostri  pensieri a seconda che toccavamoora l’uno ora l’altro argomento di storia naturale.giungemmo finalmente in un punto dove la via dilatandosi, sboccava in due tortuose callaje, che dipartendosi l’un dall’altra si perdeano fra meandri contornati da siepi di rovo e di agave americane. Quivi sovra un terreno sciolto calcareo-siliceo dominava regina dell’orbe vegetale, spontanea proditrice dell’incauto agricoltore una magnifica colezione di ortiche.sembran messe lì come a chiuderci il passo colle frondi lanceolate d’un verde-smeraldo più o meno cupo, coi fusti angolosi, fibrosi, resistenti, coi loro fiorellini erbacei pendenti a grappolo. E ci fermamo difatto, e rivolto all’amico:, guarda gli dicevo,una di quelle piante che i più non curano, ma alla quale fa capo lo scienziato per un verso, l’industre colono e il meccanico per l’altro ed egli di rimando: senza dubbio, mi rispose, ma quei benedetti peli non sono essi uno scoglio pericoloso per l’uno e per gli altri?- No no, mio caro , gli ingiunsi io, una volta che ne conoscerai la natura, vedrai come la scienza ha saputo evitar cotesti scogli pericolosi.

Noi osserveremo l’ortica colla scorta di quattro lenti armonizzate fra loro, e tu vedrai come questa ignobile pianta ci sarà maestra di molte belle cose. E come vidi che il giovanotto bramava saperne qualche cosa, seduti su di un masso di calcare compatto che sporgea da un muricciolo lì presso, dopo aver strappato dalla parte inferiore del gambo una pianticella d’ortica: vedi tu, gli soggiunsi io, queste frondi seghettate ai lembi ed irte di peli? Osserva ora questi peli con lente di piccolo ingrandimento e vedrai – cosa strana! – che han la punta ora curva ora rigonfia, ben di rado aguzza.

Vi fu un tempo che si credette tra la vipera e l’ortica ci corresse poco, per la causa della molesta sensazione che entrambe inducono sulla nostra pelle. Una glandola appositasegrecante un liquido acre e corrosivo ricco di Echidnina[5] alla base del dente uncinato nella prima: una serie di glandolette sotto epidermiche facenti capo nel per la seconda: e il tutto parea correre a vele gonfie-

L’odierna micrografia ha ripreso queste indagini di osservazione. Or bene: guardiamo un pelo di ortica con un ingrandimento di 150 diametri.

Vedremo una lunga vescichetta conica, rigida, lunga, che si approfonda e si incastona come la gemma di un anello in una zona di cellule esagonali costituenti l’epidermide, che qui vedi colorata di verde.il bottone dell’estremo superiore del pelo, ci si fa ora più manifesto, e ci rammenta quelle frecce degli Sciti e dei Parti[6] descritte dall’Esule di Sulmona[7]

Ma questo non è tutto. Se l’osserviamo attentamente con un ingrandimento sui 200 diametri, tu vedrai nell’interno di questo fuso vescicolare che forma il pelo dell’ortica, un liquido un po’ più denso dell’acqua circolare in varie direzioni animato da un movimento vibratile o Browniano.[8]

Cosicchè il pelo contemporaneamente la fa da condotto secretore, escretore e propulsore: – gli è un fucile ad ago carico di munizione! –

Fin qui giungeano gli studi dei nostri vecchi: ma il Naturalista, scrutatore della natura dei corpi,chiese all’analisi chimica la composizione del succo dell’ortica e vi trovò fra gli altri un acido speciale e corrosivo[9], del quale vo’ dartene un’idea.non so se mai t’è occorso di assistere a qualcuna delle guerre accanite che per Economia alimentare per quel benedetto struggle for life soglion darsi due legioni di formiche, per quindi dividersi le spoglie opime d’un granaio.Il prof. Savi[10]mi facea osservare un giorno di cotesti, un aurea disgustevole all’odorato che sorgea da quella tensione marziale. Le formiche rosse furone quelle che restarono padrone del campo valendosi, come accade fra gli uomini, del dritto della forza, e dei micidiali Chassepots[11]ch’esse posseggono nelle loro mandibole.Quell’aurea disgustosa, penetrante che tu avverti pure nel sudore e nella traspirazione cutanea, nella quale vi abbonda, è acido formico (HO,C2,HO2) l’ultimo e il più ossigenato della serie metilica.

Di tal che oltre l’azione irritante v’ha nel pelo dell’ortica anco l’azione chimica: di qui il dolore bruciante che le valse il nome di Urtica urens.di qui l’orticazione ch’esso produce e della quale si giova il chirurgo, se vuol produrre una revulsione istantanea e dolorosa sulla pelle.

Sarà, se ti piace un mezzo Auto-da-fè, ma in questo caso il principio di Machiavelli[12] ci torna a garbo.l’arrossamento no tarda a succedere, e talora una speciale eruzione cutanea che con termine greco noi diciamo Eritema papuloso o orticato.

Mentre così discorrevamo  quell’ortica che io tenea fra le dita e che pocanzi dura e rigida quasi sfidava chi avesse osato di lambirla impunemente, cominciava già a divenir vizza, floscia, cadente: la lieve peluria delle foglie e del fusto si reclinava sulla trama fibrosa del vegetale, e senza alcun danno, potemmo toccare le foglie – “or bene, soggiunsi io al giovinotto, or è tempo di appagra le tue brame, di dirti cioè qualcosa sugli usi molteplici che l’ortica presta alle industrie coloniche, alle arti, ed all’Economia animale.Ma tu cortese lettore mi perdonerai, se ti lascio sul più bello: tornerò un’altra volta a sollevarti dall’austerità delle cose scientifiche all’utile delle pratiche applicazioni.

 

Dott. Cosimo De Giorgi[13]

 

SULL’ORTICA

II

 

IL CITTADINO LECCESE, n.5, 3 Agosto 1868

 

Le orticacee – Specie di ortica – Usi industriali  dell’ortica presso gli egizi, i Cinesi e gli Americani – Le tele di Angers e la carta di Lipsia – e da noi?

 

Proseguiamo insieme, o lettore, la nostra escursione botanica: e qui mi permetterei una breve, ma utile disgressione. Allorquando tu entri in quel Museo grandioso che si dice Firenze, e in una sola galleria tu ammiri a centinaja accumulati capolavori di genii e di arte, e poi ti soffermi estatico dinanzi ad un quadro, che rapisce del pari i tuoi che gli occhi azzurri di qualche figlia di Albione:[14]se tu sei giovane, se hai cuore che senta il bello, se hai un po’ di onesta ambizione, la prima cosa che ti va naturalmente pel capo, è di sapere l’artista di quel lavoro, di qual famiglia esso sia, di qual patria, di qual nazione. E se poi arrivi a sapere ch’è un italiano, dimmi: non ti par d’essere come in casa tua superiore agli estraneii, che ti sono d’appresso? Dall’idea singola del quadro, tu risali allora alla Gran Madre, alla Saturnia tellers[15]che non altrimenti potea rivelarsi di meglio, che nello scalpello d’un Michelangelo, o nel pennello dell’Urbinate-[16]

Nella storia della natura, come nella storia dell’arte e delle genti, le cose vanno ad un modo: v’ha una pagina che spetta all’individuo, un’altra che si estende nella specie e nella famiglia: lo studio dell’una guida al concetto sintetico dell’altra;come le mutazioni accidentali di quella , valgono talvolta  a deviare profondamente il tipo di questa: entrambe unite assieme formano il genio divinatore di Linneo[17]e di Cuvier,[18] come l’estro scrutatore Lyell[19]e dei Darwin![20]

L’ortica noi l’abbiamo fin qui esaminata come individuo: or sappi, o lettore, ch’essa è il nucleo d’una famiglia botanica delle più vaste e delle più naturali- dall’umile erba bruciante fino all’albero eccelso che fornisce nutrimento al filugello: dall’amaro principio che si nasconde nei calici spumanti di Cervogia,[21]al maestoso albero del pane[22] nell’Oceania: dalla polvere nera che stuzzica l’appetito al voluttuoso liquore del Vecchio della montagna;[23]dalla tessile canapa delle nostre valli Eridanine, al fico prelibato dei nostri giardini: noi troviamo vegetali differentissimi, ma che pur vivono sotto le stesse leggi, che si rivelano dalle radici, dal fusto,  nelle foglie e nei fiori. Vasto mi sarebbe il campo se qui  volessi parlarti delle orticacee sum-mentovate, né uscirei dal seminato: invece io vo’ tornare all’ortica erbacea; a studiare l’individuo nella specie, riservando a tempo migliore quella della specie nell’individuo.E qui mi giova fra le tante varietà di Ortica, descrivertene le principali: – L’Urtica urens – L’urtica dioica – L’urtica romana, –

L’Urtica utilis: le prime spontanee fra noi ed anco troppo comuni, l’ultima propria del Celeste Impero. La varietà dioica è la più grande, nasce lungo le strade di campagna, fra i ruderi di vecchi rottami di edifizii: si riconosce alle sue frondi grandi e lucenti, che si alternano sopra uno stelo rossastro, ed ai fiori maschi distinti dai feminei su tronchi diversi –

La varietà Urens cresce colla precedente, ma cerca i luoghi più coltivati, si infiltra nei giardini e nelle ville pubbliche, ha le foglie ellittiche,dentate, sparse da peli, coi fiori ascellari disposti a grappolo. – L’urtica romana,varietà annua erbacea, frequente nelle siepi e nei luoghi ombrosi, ha le foglie pari a quella della Melissa;[24] i suoi fiori sono monoici a piccoli racemi ascellari nelle foglie superiori, ed i semi come quelli del lino- L’urtica utilis è invece una varietà arborea a fusto fibroso testile[25], introdotto dalla Cina in francia, e da costì sulle sterili lande dell’Algeria –

Di tutte si serve il tecnologo, il colono, l’artigiano: – ed eccone i vantaggi.

Se ricorri alla storia troverai che gli antichi egizii, quel popolo laborioso, intraprendente, forte e navigliero, che morto nel vecchio, potremo dire sia risorto nel nuovo continente, si servivano delle fibre cauline dell’ortica per intessere drappi e intrecciare reti e nasse peschereccie.Il Cinese, altro popolo vecchio nella civiltà, ci offre dei bellissimi saggi di tele colorate intessute colle lunghe fibre dell’ortica utile: fibre che non la cedono ( dietro l’esperienze istituite dal Decaisnea[26]) per finezza al lino, e per tenacità a quella del canape, e si avvicinano un tantino a quelle delle nostre Agave americane- Quel grande uomo, poeta, filosofo e naturalista a un tempo alessandro Humboldt,[27] ci narra nei suoi lunghi viaggi nel Kamtschatcka[28] che durante le lunghe e rigide vernate di quel paese, spesso trovava in umili capanne una quantità di gente , intenta a filar delle lunghe sarte da cordami. Ebbene: era l’Ortica utile che forniva loro la materia prima, ed essi la coltivano con cura nei luoghi più selvaggi, che si rifiutavano a cultura migliore.

Così del pari ci narra, che nel fertile bacino del Mississipi ritrovò una varietà di ortica che si elevava  da 12 a 24 decimetri di altezza, ch’è tutto dire; mentre le nostre più eccelse ortiche si elevano a 4 o 5 decimetri, ed a stento. Raccolte nell’inverno, le vediamo ritorte a cordami senza le operazioni noiose e poco igieniche della macerazione, come si usa pel canape e pel lino- Nella guerra recente dell’America del Nord si fabbricarono sarte e cordami da marina colle fibre tessili di cotesta ortica americana, e raggiunsero lo scopo di una grande tenacità ed elasticità, sotto minor peso e minor volume – ma v’ha di più –Non è guari, nella società orticultoria di Angers furono premiate per incoraggiamento, delle tele di ottima qualità confezionate colle fibre della ortica comune.

Quanto più il cotone e la canape, per l’influsso di atmosfere e di guerre, cresceranno di prezzo, tanto più andranno in voga i succedanei a far loro concorrenza. E giacchè parlo di succedanei, spigolando qua e là nei periodici scientifici, ti dirò che in Lipsia, l’industre quanto dotta città della Sassonia, in mancanza di stracci nelle cartiere si è ricorso da circa 7 od 8 anni a questa parte, alle materie filamentose dell’ortica; e ne è risultata una carta da gareggiare in finezza e in bellezza con quella del legno e della paglia-

Cosicchè tu vedi bene, che il tecnologo può guardare l’ortica con una certa compiacenza . ma da noi, mi dirai, a che valgono cotesti vantaggi? Io indovino il tuo pensiero, o lettore, e so quel che vorresti dirmi: non son le materie prime che ci mancano, né le braccia, come altri crede: è la buona volontà che ci accompagna di rado: son le macchine, questi bracci materiali dell’industria che ne fanno difetto- Senza questo indirizzo bisogna contentarsi del vecchio, e sperare nell’avvenire – sappi intanto, che l’ortica può essere utile tanto all’uomo, che ai bruti: come e quanto ciò sia vero, te lo dirò un’altra volta-

Dott. Cosimo de Giorgi

 

SULL’ORTICA

III

 

IL CITTADINO LECCESE anno VIII, n.7, 24 Agosto 1868

 

Un succedaneo del pepe – Il verde innocente – L’industria colonica e l’ortica – il tempo della Gabale, e quello della verità!

 

L ‘uomo, gli animali e l’ortica: – ecco il tema di quest’altra lettura a complemento della precedente- Torniamo daccapo verso il vecchio continente. Sulle coste della Guinea il seme dell’ortica vien sostituito a quello del pepe nero, indigeno di cotesti luoghi: ed in tal caso il succedaneo la vince sullo specifico- Difatti polverizzato e misto alle vivande, mentre riesce stimolante e digestivo, mentre stuzzica l’appetito non irrita lo stomaco, né lo eccita a maggior secrezione, come è del pepe ordinario e della mostarda- E qui mi viene un acconcio un tantino d’Igiene- Di tutti questi eccitanti, io ti consiglio, o lettore, di fare uso pochissimo: né il clima nostro, né le condizioni geografiche, né il modo di vivere, né i temperamenti qui predominanti ci richieggono questi alimenti nervosi, seppure non ce li vietano addirittura- l’ortica è poi un accessorio del nostro regime alimentare, e in Germania figura spesso sotto forma di condimento o di guarnizione come gli spinaci; mentre in Lorena si apprestano per cena, come un pasto leggiero, e a quel che ne dicono, saporoso- Ma qui è questione di gusti: epperò non intendo di toccarla- Rientriamo invece nella capitale della Grande Nazion, nella città fondatrice per eccellenza, quanto a prodotti alibili[29]: tu troverai le ortiche in caldo amplesso cogli spinnaci pur di crescere il volume dei condimenti: tu vedrai la loro parte colorante verde adopperata a colorire le confetture, e i dolciumi: nel che però dobbiamo lodar chi ne fa uso, perché val meglio un po’ di verde matto della clorofilla sui zuccherini, che il verde brillante dei venefici prepparati di Arsenico o di Rame.

Ma vantaggi maggiori li ritrae dall’ortica l’industria colonica; che la nostra pianta è un’eccellente foraggio. Io t’ho detto più in su, ch’essa vegeta spontanea nei terreni più aridi e più incolti, nelle siepi, nei giardini, nei boschi, e fra i ruderi di vecchi rottami di edifici: che la sua vegetazione è precocissima, essendo fra le prime piante che appaiono in primavera, e nel nostro clima, direi quasi, è perenne. Fiorisce, quando appena fan capolino dalle glumelle le spighe delle graminacee: precede di oltre un mese la comparsa dei più maturi fra i nostri foraggi, del trifoglio, della sulla[30] e della lupinella[31] e verdeggiasempre rigogliosa in estate, quando il calore e i venti sciroccali ci bruciano alberi e piante. Di qui l’utile che ne può ricavare  il colono e in tutte le stagioni. Si può sostituirla al fieno, si può mescolare alla paglia  destinata al nutrimento del bestiame, pel quale riesce un cibo più gradito di quello che nol sia lo italico Melitoto.[32]nell’estate si falcia e si fa essiccare, come il fieno, onde impedire l’orticazione della lingua sul palato delle bestie bovine. Per gli uccelli questa precauzione è affatto inutile: avrndo essi una speciale costituzione anatomica nelle loro papille linguali, per la quale ingozzano senza masticare;  epperò sono ghiotti anche dei semi caustici dell’Euforbia elioscopia-[33]in Normandia alle galline si danno le ortiche trinciate e mescolate alla crusca per disporle convenientemente alla cova. Ma è nell’inverno che si ha bisogno di un foraggio economico, e soprattutto per le bestie cornute. Ecco il consiglio che il signor Eloffe[34]dà ai suoi coloni – “ In sul finir della primavera, egli dice, sterpate le ortiche e fatene un’ampia provvigione, lasciatele disseccare al sole per 8 o 10 ore, e poi trinciatele come si farebbe col fieno. Volendo usarne, basta nella sera precedente immergerne nell’acqua calda la quantità di ortiche che si crederà sufficiente.Quest’acqua si lasci bere al bestiame; e quindi si daranno le ortiche cotte, miste al fieno e ad una “tenue dose di sal marino”- Il latte delle mucche sottoposte a questo regime,riesce così abbondante e più cremoso, e fornisce un burro eccellente.”

Vedi quindi, o lettore, quanta utilità in questa pianta, che tu rabbioso fai sterpare dalle siepi dei tuoi campi come inutile parassita: che tu forse non guardi nemmeno quando passeggi per le vecchie vie, e solitarie, se non è per isfuggirne il contatto. D’ora in poi, vorrei credere, la non ti farà più paura; ora che ne sai la natura, le insidie e le proprietà sue.

Due altre parole, e poi smetto – La nostra pianta, e mi duole dirlo, ha pure qualcosa del Talismano, e della Verga Magica:[35]è divenuta il punto di partenza di astute gabale di certi avidi speculatori. – Tu già m’intendi, che è fra le aule dorate di qualcuno adoratore di Mida[36] più che seguace di Galeno[37]ch’io voglio condurti, giacchè è costì nel principio dei bollori primaverili, che per mirabile artifizio la nostra povera erbetta con altre sue consorelle, è condannata a far da filtro del sangue e degli umori del pari che il Pagliano[38] il Leroy[39] e gli amari Robbi[40] e i famosi elisir – Penetriamo invece nel tempiodella verità: nudo, lindo e diafano nelle pareti, senza vanità, senza ostentazione,senza formule altisonanti: ma pur tanto bello! Ivi stanno registrate le osservazioni del borghigiano e dell’onesto scienziato, le esperienze dei medici e dei farmacisti. Lì sapremo che più che depurativa, l’ortica ha sempre goduto e gode la proprietà dell’emostatico interno: è un rimedio confidenziale di certi polmoni un po’ delicati, del quale forse ne avrà fatto la prova qualcuno dei miei lettori, e… per diversa cagione anco qualcuna delle mie lettrici.

Ma è tempo ormai di finirla coll’ortica; molto più che uscendo da quel tempio, sento di non esser più nel mio elemento. Quindi un saluto, una stretta di mani e addio!

Dott. Cosimo De Giorgi

 

 


[1] Immagine da Google Cascina Molino Torrine :http://www.cascinamolinotorrine.com/ortica.html

[2] Armando Polito “ L’Ortica. Tanti nomi dialettali per una pianta “ che brucia”, Erbario di Terra d’Otranto, Fondazione terra D’Otranto.  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/29/lortica-tanti-nomi-dialettali-per-una-pianta-che-brucia/

[3] Era un quadriportico che delimitava un giardino con grande piscina centrale, http://www.tibursuperbum.it/ita/monumenti/villaadriana/Pecile.htm

[4] Mentha pulegium. E’ una pianta nana tipica del  Salento, ha fusto corto con foglie piccole  ricche di peli, grigiastre e poco dentate. Odore gradevole e forte. Nell’antichità  era molto conosciuta per allontanare le Pulci tanto che il suo nome “Pulegium” deriva dal latino “Pulex = pulce”. www.elicriso.it/it/piantearomatiche/menta/

[5] Sostanza attiva contenuta nel veleno dei serpenti, http://dizionari.hoepli.it/Dizionario_Italiano/parola/echidnina.aspx?idD=1&Query=echidnina

[6] Giovanni Amatuccio “ Peri toxeias: L’arco da guerra nel Mondo Bizantino e tardo-antico”, Copryrigt 1996 by Editrice Planetario, Bologna.  (Le frecce degli sciti e dei Parti, Libro VII, Cap. II,5., pag.53: Gli Sciti  avvelenavano le frecce con ciò che si chiama “ il veleno delle frecce” ( toxcon) destinato a provocare la morte rapida é…* Una persona degna di fede mi diete la seguente ricetta che produce lo stesso effetto. Prendete dell’euforbia …[…]

[7] Edward Gibbon “ Storia della decadenza e rovina dell’Impero Romano”  traduzione dall’Inglese, Milano per Nicolò Bettoni, MDCCCXX, vol. 3, cap. XVIII, pag. 349: (1) Aspicia et mitti sub adunco  toxica ferro/Et telum caussas mortis habere duas./ Ovid. Ex Pont. L.IV.ep.7.v.7 ( Trad.: Tu vedi che pure sono scagliati veleni sotto adunco ferro( la freccia)/ e che la freccia ha due cause di morte( il ferro della freccia e il veleno)/ http://books.google.it/books?id=OJZDAAAAcAAJ&pg=PA349&dq=ovidio+frecce+avvelenate++degli+sciti&hl

[8] Il termine moto browniano fa riferimento al moto disordinato delle particelle[…] presenti in fluidi o sospensioni fluide. www.wikipedia.org

[9] Si tratta dell’acido Formico presente in natura sia nei vegetali che in alcuni animali.[…] viene utilizzato, in piccole dosi, per accelerare la respirazione aerobica  e la fermentazione dei lieviti del pane. Da “alimentazione e salute-Additivi alimentari, http://www.my-personaltrainer.it/additivi-alimentari/E236-acido-formico.html

[10] Naturalista ( Pisa 1798-ivi 1871) professore di Storia naturale nell’università di Pisa(dal 1823);socio corrispondente dei Lincei (1870) enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/paolo-savi/

[11]  Lo Chassepot, noto anche come fusil modèle 1866 ( fucile modello) […] fu adottato dall’esercito francese nel 1866. Babylon 9 http://dizionario.babylon.com/fucile_chassepot/

[12] “ Il fine giustifica i mezzi” http://www.puntosufi.it/16dist.htm

[13] Dott. Cosimo De Giorgi ( Lizzanello (LE) 9 febbraio 1842 – Lecce 2 dicembre 1922) Alla sua professione di medico e di Educatore affiancò attività di ricerca e studio in svariati campi: paleontologia, paletnologia, archeologia, geografia, idrografia, meteorologia,geologia, sismologia, agricoltura ed igiene. http://it.wikipedia.org/wiki/Cosimo_De_Giorgi

[14] Antico nome ( probabilmente Celtico) della Gran Bretagna, attestato al 6°secolo A.C., a partire dal 4°secolo soppiantato da Britannia , www.treccani.it/enciclopedi/albione/

[15] La saturnia tellers è uno dei quattro rilievi figurati dei lati brevi dell’Ara Pacis.[…] rappresenta una grande figura matronale seduta con in grembo due putti e alcune primizie. www.wikipedia.org

[16] Raffaello Sanzio

[17] Carl Nisson Linneus […] noto ai più semplicemente come Linneo […] è stato un medico e naturalista svedese, http://it.wikipedia.org/wiki/Linneo

[18] Cuvier è stato un biologo francese, www.wikipedia.org/wiki/Georges_Cuvier

[19] Charles Lyell è stato un geologo scozzese, www.wikipedia.org

[20] C.R.Darwin è stato un naturalista britannico celebre per aver formulato la teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale agente sulle variabilità dei caratteri. http://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Darwin

[21] Maniera di beveraggio che  si fa di grano, di vena, d’orzo, e con menta,appio e altre erbe, ed è una specie di birra, http://www.dizionario.org/d/?pageurl=cervogia

[22] E’ questo il nome comune di un membro della famiglia delle ortiche(urticacee) Diffuso nelle isole dell’Oceania vi cresce spontaneo; è coltivato anche in vari paesi tropicali a scopo alimentari. Albero del pane http://www.ebooks-etexts.com/arte_estoria/varie/saggi/albero_del_pane.htm

[23]   Gli Albigesi di Giuseppe La Farina, romanzo storico, vol.IV,Genova, Stabil.Tipog. Ponthemier 1855, Giorgio Franz in Monaco, pag.138 http://books.google.it/books?id=32pLAAAAcAAJ&pg=PA138&dq=voluttuoso+liquore+il+vecchio+della+montagna&hl=

[24] Apois.it: La MELISSA ( Melissa officinalis ), comunemente chiamata anche cedronella per l’odore simile a quello del limone, è una pianta erbacea perenne della famiglia delle Labiatae. Cresce facilmente dalla zona mediterranea a quella montana, nei boschi e nei luoghi freschi e ombrosi. http://www.apois.it/2009/12/la-melissa-unerba-che-fa-star-bene/

[25]  Tessile, Forma letteraria  antica

[26] Decaisnea: errore per Decaisne; Joseph Decaisne, botanico del XIX secolo.

[27] biologo, esploratore e botanico Friedrich Heinrich Alexander Freiherr von Humboldt nacque a Berlino, il 14 settembre 1769, http://biblioteca.liceorossi.it/node/409

 

[28] Penisola orientale della Russia, vicino all’Alaska e al Giappone

[29]  Alibile= nutriente; forma aggettivale dal latino àlere=nutrire; qui però sta per alimentari. Spiegazione prof. Armando Polito.

[30] Pianta erbacea perenne, emicriptofita, alta 80-120 cm.. Appartiene alla famiglia delle Fabaceae. Cresce spontanea in quasi tutti i paesi del Bacino Mediterraneo. http://it.wikipedia.org/wiki/Hedysarum_coronarium Nel Salento è chiamato fieno selvatico.

[31] trifoglio bianco; Hedysarum coronarium

[32] Il Melitoto è una pianta frequente e al margine del bosco e dei prati.essa appartiene alla famiglia delle leguminose e ha piccoli fiori gialli con un profumo gradevolmente dolce che ricorda il miele. www.erboristeriadulcamara.com/meliloto.htm

[33] Euphorbia helioscopia è una pianta erbacea  annuale

[34]  ARTHUR ELOFFE naturalista preparateur et professeur de taxdermie “ L’ORTIE” SES PROPRIETES ALIMENTAIRES, MEDICALES, AGRICOLES ET INDUSTRIELLES, PARIS CH.ALBESSARD ET BERARD, LIB.-EDITEURS, 8, Rue Guènè gaud Mèmè maison à Marseille, 25, rue Pavillon 1862, cap.III, pag.21  http://books.google.it/books/about/L_ortie.html?id=lJqJ511KAbEC&redir_esc=y

[35] La verga Magica era un incantesimo di grande potere, il cui scopo era di proteggere chi la porta con sé dai nemici visibili ed invisibili, blog di Wicca www.magiawicca.wordpress.com/2008/09/30/lincantesimo-della-verga-magica/

 

[36] Mitico re della Frigia. E’ proverbiale il suo “ tocco d’oro”la capacità di trasformare in metallo prezioso qualsiasi cosa toccasse. Questo potere gli era stato donato da Dionisio. http://it.wikipedia.org/wiki/Mida

 

[37] Galeno di Pergamo è stato un medico greco antico, i cui punti di vista hanno dominato la medicina europea per più di mille anni. http://it.wikipedia.org/wiki/Galeno

 

[38]    si tratta dello Sciroppo Pagliano in Giurisprudenza del Regno, vol.12, parte II, pag.108 http://books.google.it/books?id=2ahFAAAAcAAJ&pg=RA3-PA108&dq=sciroppo++PAGLIANO+1860&hl=it&sa=X&ei=ezzvUJeaOYnQtAbepYFw&ved=0CDIQ6

 

[39]  Si tratta di un Purgativo. “Disputazione medica e filosofica” Biblioteca Regia Monacensis, Napoli, dalla Stamperia e Cartiera del Fibreno, Largo San Domenico Maggiore, n.3, 1830 http://books.google.it/books?id=EOc8AAAAcAAJ&pg=PA47&lpg=PA47&dq=sciroppo+leroy&source=bl&ots

 

[40] Marrobbio: Il marrobio è una pianta che cresce in tutta la nostra penisola nei luoghi incolti oppure lungo le strade. Può raggiungere i 60 cm di altezza; le foglie sono biancastre e lanose e i fiori, riuniti a modo di spiga, sono di colore bianco. http://www.esseresani.it/come-curarsi-col-marrobio-105718.html

 

MEMINI ERGO SUM. Percorsi della memoria nella pittura di Nicola Cesari

3

di Giuseppe Magnolo

Nicola Cesari è magliese di nascita, e tale è rimasto per elezione. Un elemento che ha agito profondamente sulla natura e i contenuti espressi dalla sua arte è il forte radicamento alla terra di origine, tale da produrre effetti identitari avvertiti e difesi con estrema tenacia.

Per effetto di tale scelta egli ha costantemente mantenuto una finestra ben spalancata su qualsiasi fatto o evento artistico-culturale che emergesse dalla realtà territoriale, vivendo ed instancabilmente alimentando un rapporto di stretta osmosi, consapevole di quale prezioso contributo l’arte e la cultura possano offrire per promuovere il dialogo e il confronto su argomenti che possono accomunare anche nella divergenza di opinioni. Sotto questo aspetto egli ha ricondotto i dati della sua personale osservazione documentale entro ambiti comunali e cittadini, con proposte operative interessanti, mirate alla valorizzazione e salvaguardia del patrimonio artistico individuabile nei luoghi che tradizionalmente ne sono i depositari.

Al tempo stesso egli ha sempre mirato a circuitarsi anche in ambito nazionale ed extranazionale. Sue esposizioni sono state allestite in importanti città dove la proposta artistica è organizzata mediante modalità che consentono una adeguata possibilità di conoscenza del fatto e del prodotto artistico. La propensione a spaziare oltre la dimensione localistica è attribuibile in Cesari ad una ferma convinzione che il linguaggio dell’arte possa veramente assumere valenza universale, e che i contenuti da essa espressi, pur con diversi linguaggi formalizzati, riescano assolutamente identici dal punto di vista figurativo. In maniera discreta ma costante, egli è giunto a rappresentare un riferimento per molti artisti ed intellettuali esordienti, che apprezzano il suo approccio promozionale, capace di stimolare le loro doti di sensibilità ed efficacia figurativa, valorizzando anche stili e contenuti diversi dai propri, nel presupposto che l’essenza dell’arte sia soprattutto il continuo interrogarsi sulla vita e le sue implicazioni.

Di recente ho potuto visitare il suo studio-atelier e mi ha colpito il fatto che egli abbia scelto di collocarlo tra le mura dell’antica casa paterna, il luogo originario della famiglia, in cui con lo scorrere del tempo tutto parla del passato che non esiste, tranne nella memoria e in ciò che lo richiama. E’ come se per Cesari la creazione artistica per realizzarsi postulasse il bisogno di regredire nel tempo, ritrovando tutti gli stimoli connessi all’infanzia e all’adolescenza. Si tratta di rievocazioni indotte da elementi di forte incidenza sul vissuto di un tempo: il cortile di accesso defilato alla vista, pochi strumenti connessi all’attività dell’opificio paterno, il nero metallico della cucina a legna profilato contro il biancore dell’ambiente, il panorama d’affaccio del piano rialzato che contempla uno squarcio di cielo e qualche spiazzo circostante.

Lo spunto iniziale da cui nasce qualunque fase compositiva nell’esperienza artistica di Cesari è uno stato di insofferenza rispetto alla ovvietà del quotidiano, un pressante stimolo a considerare la suggestione dell’arte come una sfida, un tentativo di penetrare nel vissuto sia soggettivo che superindividuale, incidendo su di esso in modo autenticamente dirompente. Lo sviluppo del processo creativo esita quindi verso un effetto di essenzializzazione, secondo un metodo di reductio ad unum in cui la visione prospettica elude qualunque sincretismo figurativo per addivenire ad una sintesi estrema.

Da questi presupposti sono nati nell’artista l’espressione informale e l’uso sistemico di una sua personale simbologia di riferimento, ma anche il rigetto aprioristico della fisicità totalizzante della percezione. Un esempio significativo di questo aspetto può essere individuato nell’ampia serie di dipinti che presentano forme geometriche, nei quali spesso la sfera, intesa come espressione di ordine e simmetria, viene collocata su un piano inclinato che non può dare né appiglio né certezza di permanenza, oppure in uno stato di sospensione nel vuoto, oppure ancora in contrasto con un’altra sfera e in condizione di equilibrio assolutamente precario.

Altrettanto si può osservare circa l’uso strumentale del paesaggio, che in molte delle sue tele (specie nella fase avanzata del suo percorso artistico) non presenta dei chiari connotati identificativi, ma diventa soltanto profilo, linea di confine rispetto a ciò che lo sovrasta, come una demarcazione rispetto all’ambito della trascendenza, del pensiero puro, della condizione visionaria.

E’ evidente che per Cesari l’opera è concepita al fine di generare nell’osservatore un processo epifanico di reazione a catena, che intacca il vissuto individuale e collettivo. Per conseguire tale scopo, occorre produrre una sorta di abluzione della coscienza, un effetto catartico che non è più strettamente connesso con il dipinto, ma ne costituisce quasi una risultanza collaterale. E’ ciò che l’autore intende nell’affermare la sua intenzione di “gettare la catarsi fuori dall’opera d’arte”, comprendendo in ciò tanto il rifiuto di perseguire qualunque fine espressamente moralistico attraverso l’arte, quanto la possibile limitazione al solo dato visivo che escluda gli effetti suindicati.

Una sollecitazione in questo senso viene offerta attraverso espedienti diversi, ad esempio l’utilizzo di un’immagine ridotta e inclinata rispetto alla superficie totale della tela che la racchiude, quello che si può definire “effetto cartolina”, tendente a presentare il soggetto come parte inserita in un contenitore più ampio, con una tecnica rivolta a creare un senso di relativismo prospettico.

Una forma espressiva particolare è quella adoperata da Cesari per rendere figurativamente la terza dimensione attraverso l’uso di superfici aggettanti, che danno una connotazione spaziale con effetto dinamico. Si noti nell’opera intitolata “Omaggio a Pino Pascali”1, definita una pitto-scultura, come la contaminazione fra le due forme espressive risponda all’intento di conferire alla figura tutta la tragica forza devastante connessa all’evento che ha causato la scomparsa del giovane artista. L’autore utilizza solo il margine inferiore dell’opera per accennare il profilo del manubrio di una moto con il volto dell’artista riflesso come in uno specchio retrovisore, mentre al centro egli crea un effetto che evoca una prorompente forza d’urto a cui il soggetto rappresentato (e di conseguenza anche l’osservatore) si trova fatalmente esposto, e che produrrà lo schianto mortale. E’ veramente intensa ed artisticamente originale la sensazione di ineludibile impatto espressa dall’opera.

Un differente elemento caratterizzante in altri dipinti è invece costituito dalla problematicità della connessione tra i diversi elementi compositivi, spesso ridotta a puro strascico disperso tra le masse. Si pensi alle immagini lunari, con tutto il potere di suggestione prodotto dal satellite con la sua scia luminosa velatamente riflessa in uno specchio d’acqua e poi ascendente a mo’ di frammenti meteorici, quasi un sentiero vago e indistinto per raggiungere nella luna il proprio sogno e la condizione onirica. Analogamente la geometricità delle figure presenti in altri dipinti può rimandare ad un “effetto aquilone”, l’aspirazione a recuperare una immaginaria possibilità di volare, elevandosi al disopra della condizione materiale come avviene nella fase dell’infanzia.

Questo bisogno profondo di ritorno all’adolescenza acquista una dimensione quasi mitica, prospettata come rifugio di innocenza rispetto allo scorrere del tempo che espone l’essere adulto al contatto con il male e il negativo. Per questo l’arte di Cesari talvolta diventa ricerca e manifestazione dell’oggetto-simbolo, in grado di creare quasi un circuito di colleganza con il passato. Ecco l’essenza di un’opera tra le più care all’artista, raffigurante l’iscrizione “Gassosa Cesari”, quella posta sul tappo di chiusura delle bottiglie di tale bevanda che un tempo la piccola fabbrica paterna produceva in quegli stessi ambienti dove egli adesso produce e custodisce i suoi quadri. E’ evidente che non si tratta di manierismo sulla scia di Andy Warhol, ma di un sincero tentativo di recuperare il passato e riconsegnarlo alla memoria.

Sul piano della tecnica espressiva, un aspetto importante nei dipinti di Cesari è costituito da una significativa evoluzione nell’uso del colore, che da una valenza funzionale rispetto alle figureè passato ad avere un ruolo prevalente, nel senso di aspirare a rappresentare di per sé lo stato d’animo o l’emozione generata da una esperienza rilevante. Si pensi alla suggestione di intensa passionalità insita in un rosso dominante, oppure di distaccata contemplatività attribuibile all’azzurro, con le zone intermedie che travalicano dall’uno all’altro. E’ una implicazione che passa anche attraverso l’effetto caldo-freddo fisicamente avvertito grazie all’uso di una diversa gamma di colori che, nelle fasi più esclusive, presentano delle campiture contrapposte.

Da questo studio del colore scaturisce il fascino profondamente avvertito per il bianco, che talvolta permea intere superfici o addirittura le ricopre a mo’ di velo o di sudario, con richiami tanto al candore dell’innocenza, quanto all’idea della morte (il biancore delle ossa, ultimi resti mortali) con tutte le sue implicazioni. In alcuni dipinti si rinvengono anche tracce di figure preesistenti sulla tela poi ricoperte dal bianco pressoché totalmente, con effetti simili alla dissolvenza usata con una telecamera per evitare un’improvvisa interruzione dell’immagine.

L’utilizzo del bianco, oltre alla potenziale inclusività connessa al fatto che esso comprende tutta la gamma dei colori che potrebbero per scomposizione essere ricavati, rappresenta anche un preciso riferimento al carattere di elusiva ambiguità proprio dell’esistenza. Ed è proprio questo, secondo Cesari, il principale motivo per cui l’arte è destinata sicuramente a sopravvivere nel tempo, avendo sempre e comunque qualcosa di nuovo e diversoda dire per rispecchiare contenuti di esperienza che sono costantemente in fieri. Purché non si rinunci a coglierne le antichi radici.

 

1 Pino Pascali, artista assai versatile e poliedrico originario di Polignano a Mare, morì ancor giovane per incidente a Roma nel 1968 mentre era alla guida di una grossa moto.

La chiesa di san Sebastiano in Francavilla Fontana

di Michele Lenti

 

Chi percorre l’antico borgo di Francavilla Fontana, geloso custode di un ricco patrimonio storico – artistico, che si pone come fedele testimone del florido periodo raggiunto dalla città sotto la signoria degli Imperiali può, ad un primo impatto, non essere particolarmente incuriosito da un edificio di culto come la chiesa di san Sebastiano.

Sobria, anzi sarebbe meglio dire austera nelle sue linee esterne, di certo non suscita quello stupore che invece pervade chi ammira l’imponente facciata della chiesa Matrice, che propone le linee di un barocco, disegnato come un fine merletto, su di una struttura la cui grandezza vuole celebrare la profonda devozione francavillese verso la Madonna. Ma la straordinaria

particolare della facciata (ph M. Lenti)

cupola maiolicata, purtroppo ancora coperta da impalcature, e la grande importanza storica e culturale dell’ex Real Collegio Ferdinandeo[1] lasciano presagire quale significativo luogo fosse. In esso si incrociarono storie di vita religiosa e cittadina, di cultura e di arte, ma anche storie di santità come quelle di san Pompilio Maria Pirrotti e del beato Bartolo Longo.

Purtroppo, ancora oggi, è solo possibile presagire un tale ricco patrimonio perché la chiesa è chiusa da oltre vent’anni per restauri iniziati ma mai completati. Per questo, circa dieci anni fa, è nato un Comitato pro chiesa di san Sebastiano[2] che trae ispirazione dagli incoraggiamenti di migliaia di cittadini che visitarono dal 21 dicembre 1998 al 20 gennaio 1999 la mostra fotografica Ottobre 1997 – Ottobre 1998, quattro avvenimenti sacri[3]. Difatti l’istituzionepersegue l’obiettivo del restauro e della rinascita della nostra chiesa, partendo dalla consapevolezza che le segnalazioni d’allarme per la tenuta statica dell’edificio ed i vincoli posti dalla Soprintendenza non hanno finora suscitato quegl’interventi necessari a scongiurare il degrado di questa monumentale testimonianza.

Anche per questo chi scrive vuole, attraverso la sempre più crescente eco di consensi che sta suscitando Spicilegia Sallentina nel mondo scientifico e culturale, ridestare l’attenzione sul possibile recupero dell’edificio, patrimonio della città di Francavilla Fontana e di tutto il Salento.

tela D. O. Bianchi (ph M. Lenti)

Nella seconda metà del XVI secolo la città di Francavilla Fontana e le terre circonvicine, dopo la signoria della famiglia Borromeo e dopo brevi passaggi ad altri casati, fu acquistata dagli Imperiale di Genova, detti poi Imperiali[4], che la possedettero per otto generazioni fino al 1782[5]. Al momento di acquisire il feudo, stando ad una relazione scritta in Napoli negli ultimi anni del secolo XVI per il granduca Ferdinando I, si apprende che gli Imperiali, una volta presone possesso, avevano settantamila ducati di entrata ma ben “settecentomila” di debiti. Nonostante ciò la loro signoria rappresentò una svolta per Francavilla, che osservò una consistente rivoluzione urbana ed un florido periodo economico, sociale e culturale. Così il pistoiese Pacichelli descrive la città durante il suo itinerario per i borghi del Regno di Napoli: Ella è Principato, che col Marchesato d’Oria, un de’ quattro più cospicui del Regno, e Casalnuovo, già Mandria… forma, hoggi lo Stato di un milion di valore, il quale con l’aumento di Marsafra, e della Vetrana, frutta a’ Signori Imperiali trentacinque mila ducati l’anno…Abondante, sempre per più anni, e per più Paesi, di Grano, Vino, Olio, Mandole e altro di delizia… I suoi borghi si posso dire immensi, maestosi, ed à meraviglia ordinati, con le Case commode, e biancheggiate, le botteghe poste in ordine, con gli arnesi, e stoviglie polite, in modo, che sembrano Sagrestie. Non diverso è l’interno, dove comparisce la Via larga, e lunga a tiro d’occhio, nominata Imperiale: si veggono pozzi per riserve del Formento, ha magazeni colmi di Cacio. Il Palazzo, ò Castello in quadro, con fosso di Animali di piuma e Cerviotti, isolato per dimora del Principe e della sua corte è commodo…[6].

In questo contesto sono già inseriti a pieno titolo i padri Scolopi, i quali giunsero a Francavilla, ospiti di casa Imperiali, il 20 gennaio 1682. Essi traggono il loro carisma dall’apostolato di san Giuseppe Calasanzio (Peralta de la Sal, 1558 – Roma, 1648) il quale, una volta giunto a Roma, interpretò in termini più concreti alcune delle istanze pedagogiche promosse dal Concilio di Trento (1545 – 1563), in un secolo socialmente arretrato e maldisposto, in una società in cui nobili e ricchi erano fortemente attaccati ai privilegi di casta e di censo, mentre la stragrande maggioranza della popolazione versava in miserevoli condizioni. In tale contesto il Calasanzio mosse alla conquista della fanciullezza povera col proporle una scuola che avesse finalità di religiosa e sociale elevazione, interessanti non solo lo spirito e la mente, ma la stessa realtà quotidiana della vita e del lavoro; in tal modo, al conseguimento di una retta educazione cristiana veniva aggiunto il beneficio di una educazione civica e di una istruzione umanistica e professionale. Anche per questo immediata fu l’intesa tra i padri Scolopi e la cittadinanza francavillese, se il 19 maggio 1682, a pochi mesi dalla venuta dei frati, fu posta la prima pietra della nuova Casa, costruita a spese dell’università, dei cittadini, dei padri ed in minima parte della famiglia feudataria.

Scrive ancora il Pacichelli che a Francavilla si bandisce l’Ozio con la Negoziazione, e con le scienze, dando opera in una buona casa i Padri delle scuole Pie: tanto che al presente si esercitan nelle Leggi Trenta Dottori, alcuni de’ quali patrocinano in Roma, dodeci nella medicina, e diversi regolari, negli studi Teologici spiccano e ne’ pulpiti[7].

Al collegio dei padri Scolopi, costruito con ordine e buone pietre bianche connesse[8], era stata affiancata la costruzione, voluta e finanziata sia dai padri che dai cittadini[9], della nuova chiesa, di tipo romano, anche se la facciata presenta ascendenze stilistiche più antiche, riferibili all’area abruzzese, in particolare aquilana, ove le facciate delle chiese medievali non hanno timpani, ma sono ornate da partipiani e si concludono, come questa, con cornicioni orizzontali[10].

La cupola, non prevista nel primo progetto, risale al 1728, e si ispira al modello presente nelle chiese romane per quello che riguarda la struttura, specialmente dell’interno, ampiamente sventrato. Essa, primo esempio in Puglia di tal genere, offre, tra l’altro, una decorazione con tasselli di ceramiche policrome, originale, per quei tempi, nel Salento, ma già allora ampiamente in uso nelle coperture delle cupole napoletane e campane. Fu questo, di certo, un significativo apporto dato all’arricchimento del patrimonio ecclesiale della regione da parte dei padri delle Scuole Pie attraverso l’opera dell’architetto manduriano padre Benedetto Margarita, che molto contribuì alla fase operativa riguardante la traduzione materiale del progetto di costruzione della chiesa.

La nuova fabbrica, pertanto, sorta su un precedente luogo di culto, misura trentuno metri di lunghezza e nove di larghezza e, pur essendo a navata unica, si sviluppa a pianta basilicale con ampia aula, completata da tre cappelle su ambo i lati longitudinali, con un ingresso, con l’area presbiteriale e con la sacrestia. Il primo tratto di questo complesso, che misura ventuno metri circa, è coperto con volta a botte lunettata, con quattro lunette per lato, ed ha un’altezza, all’imposta di 11 metri, in chiave di 15,50.

Nella navata si accede tramite un atrio rettangolare, delimitato a sinistra dal vano battistero, a destra da quello di ingresso secondario e, di fronte, da due colonne a bulbo realizzate successivamente. La differenza di volume tra l’atrio e l’aula assembleare, l’abbondanza di luce che filtra dalle ampie finestre, presenti all’interno delle lunette della volta, la considerevole altezza della volta di copertura nonché della cupola, la ritmicità e la snellezza dei pilastri accentuata dalle paraste, caratterizzate da ampie scalanature, conferiscono, a coloro i quali visitano questa chiesa, una intensa sensazione di coinvolgimento spaziale.

La volta, finemente decorata con cornici mistilinee, poggia su una trabeazione aggettante che circoscrive l’intera aula ed è sostenuta da quattro pilastri – contrafforti per lato, di cui gli ultimi due, uno per lato, sono i piedritti dell’arco trionfale. I primi tre pilastri, per lato, hanno dimensioni di metri 1,80 per 0,90 ed altezza di metri 10, coincidente con la chiave dell’arco di accesso delle cappelle. Queste ultime sono incastonate tra pilastri – contrafforti con capitelli compositi che reggono una trabeazione aggettante e proseguono, per breve tratto, a mo’ di pulvino, per definire il piano di imposta della volta di copertura.

Il presbiterio ha forma quadrata, con metri 9,50 di lato, e si sviluppa in altezza per metri 35 tramite pennacchi, tamburo, cupola e lanternino. Il tamburo, elemento elegante e ben ripartito da lesene a quattro finestre ed altrettante finte finestre, raggiunge un’altezza di metri 7,50 con un diametro di metri 9,50 ed uno spessore di cm 80.

La cupola scarica le sue forze su quattro pilastri, due come conclusione della navata, cioè i piedritti dell’arco trionfale, mentre gli altri due sono situati negli angoli opposti. Questi ultimi, essendo staticamente asimmetrici, hanno indotto il costruttore a sovradimensionarli per poter equilibrare le forze.

Il barocco presente all’interno della chiesa si dipana nei minuti particolari degli stucchi eleganti del soffitto e dei cornicioni, dolcemente illuminati attraverso i finestroni, e come risulta dalle vivaci volute dei capitelli compositi.

Partendo da destra di chi entra le cappelle laterali sono dedicate a san Francesco da Paola, san Roberto, sant’Elzeario[11], san Gaetano di Thiene, san Giuseppe Calasanzio e san Giuseppe.

Madonna col Bambino tra i SS. Francesco da Paola e Filippo Neri del Carella (ph M. Lenti)

Di questi sei altari i primi quattro furono realizzati nella seconda metà del ‘700 in stucchi policromi, mentre degni di ammirazione, da un punto di vista artistico, sono gli ultimi due: quello dedicato a san Gaetano da Thiene fu costruito da Brigida Grimaldi, vedova di Michele, secondo principe di Francavilla, come indica l’iscrizione posta su un cartiglio al di sopra della cornice del quadro: Tutelari suo Birgitte Grimaldi Imperiali posuit 1700. L’ultimo, dedicato a sant’Elzeario[12], fu voluto dalla principessa Irene di Simeana, moglie di un altro Michele, terzo principe di Francavilla[1], come indica l’iscrizione posta sulla sommità della cappella: Iren Delphinae sim. In honorem dicavit.

Entrambi gli altari, scolpiti in pietra a Lecce, in quel periodo fiorente cantiere di arte barocca, furono montati in spazi più stretti rispetto all’impianto per il quale erano stati eseguiti, affastellando colonne e nascondendo figure e decorazioni che sembrano pensate e scolpite per spazi più ampi.

Le colonne tortili da cui pendono angeli, fiori ed animali, intrecciati in una fantasia di merletti intricati e perfetti nei particolari, rappresentano un unicum a Francavilla Fontana, dal momento che esecuzioni del genere si preferirono in altre chiese cittadine prettamente barocche.

Le tele di questi due altari raffigurano la Vergine ed il Bambino con san Gaetano da Thiene e la Vergine con i santi Elzeario de Sabran e la beata Delphine de Signe, dipinte da Diego Oronzo Bianchi da Manduria (1683 – 1767). In entrambe sono stati rilevati influssi di Luca Giordano e Francesco Solimena, il primo dei quali si dice sia stato maestro del più insigne rappresentante della famiglia Bianchi, vale a dire l’abate Matteo Nicolò[13].

Sempre Diego Oronzo Bianchi é autore di un’altra tela raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco da Paola e Filippo Neri, risalente al 1723 ed un tempo collocato sul lato destro del presbiterio della chiesa[14]. Anche qui, come nei precedenti quadri, una delle principali caratteristiche è data dall’affollamento dei personaggi, che qui si accompagna alla vivacità sottolineata dal dinamismo degli angeli che sembrano accompagnarsi alla luce che illumina la scena principale, senza dimenticare la plasticità della figura del Bambino Gesù. Soprattutto ritroviamo, qui, quell’armonia delle forme ravvisabile nel volto della Madonna, capace di coniugare, in sé, dolcezza e tristezza. Tra i pittori che hanno arricchito il patrimonio artistico della chiesa di san Sebastiano, vanno annoverati, infine, il Carella ed un certo Todero di Francavilla, maestri di quella scuola pittorica voluta dai feudatari in san Sebastiano e diretta, per un certo tempo, da Ludovico e Modesto delli Guanti, formatisi presso la Casa degli Scolopi. In particolare il Carella ripropone, quasi a distanza di trent’anni, lo stesso soggetto pittorico rappresentato da Diego Oronzo Bianchi, senza aggiungere nulla di nuovo se non una maggiore simmetria e spazialità di cui sembra godere ciascuna figura, avvolta, tra l’altro, in tonalità cromatiche più calde, con tratti più dolcemente sfumati rispetto all’originale.


[1] Michele Imperiali nel 1696 sposò a diciannove anni, Irene, figlia di Giovanna Maria Grimaldi di Simiana, famiglia facente parte della corte Sabauda di Torino. Portò in dote al principe francavillese terre per un valore di 30.000 ducati ed i titoli ereditari di marchese di Piavezza, Livorno, Castelnuovo, Roatto e Maretto, di signore di Capriglio in Piemonte, del Dego, Piana, Cagna e Gesualla in Monferrato” (P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Libro IV, I Principi Imperiali, Noci 1901.


[1]Oggi sede della Scuola media statale “Vitaliano Bilotta”

[2] Cf. A.A.V.V. San Sebastiano. Immagini, Architettura e Storia, a cura del comitato “Pro Chiesa san Sebastiano”, 2000, Francavilla Fontana.

[3] Cf. Ibidem.

[4] Il 15 agosto 1579 il feudo di Francavilla Fontana viene acquistato da Davide Imperiali senza ipoteca o limitazione alcuna, e ciò comportava ampi diritti non solo sulla tassazione di ogni attività e reddito, ma anche sulla giurisdizione civile e penale.

[5] Ultimo degl’Imperiali fu Michele IV, che morì senza eredi, lasciando il feudo, per testamento, al marchese di Latiano, Vincenzo Imperiali, suo parente prossimo.

[6] Cf. Pacichelli G. B., Il Regno di Napoli in prospettiva, II, 1703, rist. anast., Bologna 1975, Forni editore, 181–182.

[7] Cf. Ibidem.

[8] Cf. Ibidem.

[9] Anche per questo, probabilmente, l’epigrafe che ricorda l’evento non da merito specifico ad alcuno: Funditus erecta primo lapide solemniter benedicto die XX oct. MDCXCVI. 

[10] Questa particolarità architettonica lega la nascente casa degli Scolopi al celebre studentato che gli stessi padri ebbero a Chieti

[11] Elzeario da Sabrano (in francese Elzear de Sabran, 1285 – 1323), fu un nobile italiano di origine francese che, nel 1299, sposò Delphine de Signe (1283 – 1360). Entrambi i coniugi fecero voto di castità entrando, successivamente, nel Terz’Ordine Francescano. Nel 1312 Elzeario prese possesso dei suoi feudi in Italia e partecipò alla difesa armata degli Stati della Chiesa contro l’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo; nel 1317 fu scelto dal nuovo re, Roberto d’Angiò (1277 – 1343) come precettore del suo erede, il duca Carlo di Calabria: per conto del sovrano, nel 1323, si recò in Francia per trattare il matrimonio della principessa Maria di Valois con il duca Carlo, ma si ammalò durante la missione e morì presso la corte francese. Fu sepolto con l’abito francescano nella chiesa dei Frati Minori di Apt. Papa Urbano V (di cui Elzeario fu padrino di battesimo), ne decretò l’eroicità delle virtù e ne approvò la canonizzazione, che venne ufficialmente decretata dal suo successore, papa Gregorio XI, il 5 gennaio 1371. Elzeario de Sabran non va confuso con il nipote Eleazario da Sabrano (morto il 25 agosto 1380), vescovo di Chieti dal 1373 fino alla nomina cardinalizia nel 1378.

[12] Elzeario era il nome del fratello della principessa Irene di Simeana, la quale aveva, come secondo nome, Delfina, lo stesso della moglie di Elzeario da Sabran.

[13] Cfr. Del Prete P., Una famiglia di pittori pugliesi nel ‘700, in “Iapigia, rivista di archeologia, storia e arte”, Anno V, fascicoli I – II, Bari 1934.

[14] Oggi il quadro è conservato presso la sede della Diocesi di Oria.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n° 6

L’Aristeus Antennatus, una prelibatezza

Aristeus

di Pino de Luca

Aristeus Antennatus è il suo nome latino, abita tra i 300 e i mille metri di profondità anche se ama viaggiare molto. È stato avvistato sia sottocosta che fino a 3300 di profondità, è un grande navigatore di correnti ascensionali e sui canion pascola felice.

Qualche giorno fa feci una visita alla Friggitoria Marenuesciu di Squinzano, dai miei carissimi Letizia e Salvatore, meravigliosi giovani che hanno scelto la dura arte della ristorazione.

Salvatore me ne offrì una mezza dozzina da consumare così, al naturale. E allora scoprì che la mia compagna di esplorazione, nonostante una vita insieme, non conosceva la differenza fra il “violetto” e il pur pregiatissimo gambero rosso.

Immaginando che se questa piccola differenza è ignota alla mia compagna può darsi che sia ignota anche ad altri, ho pensato di provare a comunicarla anche qui.

In realtà si tratta davvero di differenze particolarissime, sembrerebbe che il colore sia una discriminante se non fosse che anche l’Aristeomorpha foliacea, in ragione di particolari condizioni, possa virare al violetto il suo carapace anche se, in generale, persegue i toni del rosso.

Come se non bastasse anche il “violetto” può colorarsi di rosso. Come se facessero una gara per farsi confondere.

Cominciamo con l’evidenziare i caratteri differenti del Plesiopenaeus edwardsianus o gambero rosso dell’Atlantico.

Intendiamoci sono tutte specie molto pregiate di crostacei, ma hanno pregi diversi e costi MOLTO diversi.

Il Gambero rosso dell’Atlantico presenta nella parte inferiore della “testa” (cefalotorace) una appendice (massillipede) con una frangia di lunghi peli neri da formare una specie di piuma.

I nostri non hanno piume, mentre la differenza primaria tra aristeus e aristeomorpha (a forma di aristeus) è nell’intestino visibile dalla parte inferiore. Viola e abbondante nell’aristeus e nero e sottile nell’aristeomorpha. Il viola, nel violetto, è diffuso anche sulla parte superiore del rostro.

Ma son tutti caratteri variabili e difficilmente apprezzabili da un occhio distratto. Ciò che non consente errore è il numero di denti: l’Aristeus ne ha tre l’Aristeomorpha ne ha cinque o sei. Essi si trovano sul rostro, appena sopra gli occhi peduncolati.

Adesso sapete riconoscerli e apprezzarli per quanto valgono. L’elemento che caratterizza il violetto è l’astaxantina, un betacarotenoide dalle proprietà preziose nella conservazione dell’elasticità della pelle.

Riassumo le semplici regole: mai acquistare gamberi senza testa a meno che non siano surgelati e rammentare che avvolgere il “violetto” in una qualche guaina (lardo o pancetta) e tenerlo a cuocere per più di tre minuti è poco meno di un crimine. Chi fa questo dovrebbe subire la radiazione con sdegno da ogni consesso enogastronomico, anche perché l’astaxantina è termolabile. Se proprio non si riesce a gustarlo nature, il violetto non deve subire più di un minuto di calore, magari violento, ed essere accompagnato solo dai profumi dell’olio della celina di Nardò e del succo di melagrana salentina.

Adora l’aria di mare e un vino fresco e asciutto, come il Vermentino, di Gallura o di Gallipoli fate voi.

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