Il Salento è un’immensa partita a scacchi in fondo

Nardò. Torre Squillace (ph Maria Aurora Trentadue)

 

di Gianni Ferraris

“Il gioco degli scacchi è il gioco della vita, il re ha un potere solo apparente, è la donna, la regina che decide le sorti della sconfitta o della vittoria, però è lui, alla fine, a capitolare” mi diceva in parte scherzando Giovanni, il mio maestro di scacchi. E mi raccontava di quella guerra sciagurata, della ritirata dalla Russia così lontana, così ghiacciata. E delle donne russe che lo hanno accolto nella loro casa e lei, la più anziana, che gli tolse scarpe e calze e mise i suoi piedi sul suo seno per farli rivivere. Poteva perderli. Non avevano abbigliamento adatto. Giovanni, bravo sarto e improbabile pittore che spiegava la sua filosofia in quei dipinti quasi infantili. E gli scacchi come gioia e simboli della vita stessa.  Si faceva serio quando ne parlava come “la battaglia, forse la guerra della vita”.

I quadri e i pezzi. Bianco e nero. La vita contro la morte, il caso contro la ragione, l’autodeterminazione contro la predestinazione, eros e thanatos.  Il bianco ha la prima mossa sempre. E’ la regola, è la vita che muove i suoi passi.  E la strategia è la speranza.

“Il settimo Sigillo”, con il cavaliere che si gioca la partita contro la morte. Quasi a significare la ricerca del senso della vita, di Dio, dell’uomo.    La vittoria non esiste, non può esistere.  Però il tempo lo si ruba con il tempo delle mosse. Non c’è possibilità di passare il turno, però si può azzardare, osare. Il cavaliere incontra la signora nel bosco (apertura), poi il pasto con fragole e latte (partita), poi la foresta, prima del temporale (il finale).

Nato forse in India, forse in Cina, e portato da noi nel medio evo, il gioco degli scacchi ha da sempre significato un unicum in cui si muovono emozioni e ragione. Probabilità e fato.  Strategia e tattica contro l’alea della fortuna cieca delle carte o dei dadi. I pezzi come gli arcani dei tarocchi, ognuno con un suo significato ed un suo ruolo preciso, colmo di misterioso fascino, unico.  Ci sono le truppe leggere, quelle da mandare avanti per aprire varchi, spesso carne da macello, i pedoni. Le torri, in origine carri da guerra possenti e potenti. Gli alfieri, nell’antichità erano elefanti usati in combattimento e per gli spostamenti. I cavalli, immutati e indispensabili. La regina e il re. Il generale e il suo consigliere e protettore. Tutti i pezzi possono cadere ed essere ammazzati, presi, eliminati. Tutti tranne il Re. A lui si può dare solo “Scacco matto”. Shah (re) dal persiano,  mat (è morto) dall’arabo. Solo quando gli scacchi arrivano a noi il re si dice “morto”, non prima.  Perchè nessuno può osare tanto. Si imprigiona, gli si impedisce di muoversi ulteriormente e deve capitolare, cedere le armi, però non muore. Deve essere pronto ad un’altra partita, un’altra guerra. Quando un re morirà sarà per sempre.

Vuole la leggenda che l’inventore della scacchiera e del gioco degli scacchi chiedesse al re un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via. Sarebbe arrivato alla cifra di 18.446.744.073.709.551.616 chicchi di grano.

Matematica e geometria si fondono nel gioco degli scacchi, a simbolismo e fato. Nelle case si muovono filosofia e pensiero. Bianco e nero. Le 64  case derivano forse dagli 8 trigrammi commentati nell’I-Ching. Il visibile, spirito e divino. In altri luoghi si parla del simbolismo 8 x 8 come iconografia sacerdotale per i brahamani.

Perché è utilizzata nell’arte, cosa rappresenta, a chi parla la scacchiera? In quella battaglia c’è l’essenza dell’essere, la contrapposizione stessa fra divino ed umano. Angeli e demoni che si scontrano, confliggono, periscono. Ed è ammessa la promozione, solo per i più umili pedoni però. Quando  uno arriva in ottava si trasforma in qualcosa di più grande, importante. Può diventare tutto tranne il re. Solo lui, il sovrano, il generale, non è mutuabile. L’esercito si può rinnovare e sostituire. La caduta del re è l’impero che si dissolve, senza possibile rinascita.

La scacchiera è l’otto per otto,   la forma ideale di una casa, un villaggio, una città, un mondo.   E’ il luogo per eccellenza. Nascita, vita e morte, tutto dentro quel quadrato e quelle case. Fuori solo il nulla. E il nulla è impensabile, troppo lontano e non immaginabile dalla mente umana, come l’infinito. Come quel numero di chicchi di grano.

Nardò, Torre di Santa Caterina (ph Maria Aurora Trentadue)

Giovanni, grande sarto passato dalla Russia non per turismo. Amante della vita e della pittura. Occhiali con spesse lenti, strano nodo alla cravatta. Ha trascorso tutta la vita fra case bianche e nere. Non era, in fondo, un buon giocatore. Lui la studiava la scacchiera, la viveva come filosofia. Però, a pensarci bene, era un ottimo giocatore. Sapeva che il re non muore. E sapeva che la regina, la donna, il consigliere del re è il vero stratega. Perché lui, il re, ha il cammino limitato, una casa per volta. Lei può correre fin dove c’è spazio aperto, tramare in ogni direzione. Amava, Giovanni, il pedone che non diventerà mai re. Al massimo una seconda regina, un secondo consigliere. Le torri di guardia della costa salentina stanno ad aspettare e proteggere il re. Come macchine da guerra in attesa della mossa avversaria.  Sono torri bianche. Forse così le avrebbe intese Giovanni se fosse arrivato fin qui.  Se il re nero muove le sue navi le torri riparano i pezzi bianchi. Arrocco, difesa. Il nero vince sempre?  A volte no, si può rimandare. Il Salento è un’immensa partita a scacchi in fondo. Forse la più grande che io conosca.  Nei paesi si muovono le pedine della vita e della morte. Ci sono anime di mille re (baroni?) sconfitti che vagano nelle piazze, con la rabbia per la sconfitta o pacata rassegnazione. E ci sono orgogliosi vincenti nei secoli. Hanno lasciato tutti un segno de loro passaggio. Dolmen e menhir. Palazzi baronali e chiese contrapposti che si guardano nelle piazze. Masserie fortificate con alte mura di cinta.  E’ un campo di battaglia, orgogliosamente chiuso in case bianche e nere. Fuori c’è altra vita, ma è, appunto, altra. La vita si combatte solo dentro quelle case. I neritini se la sono giocata con la “libera repubblica di Nardò” e prima ancora, nel 1647 con la rivolta vinta dal re nero. E si combatte a Calimera  :“Zeni su en ise ettu s ti kalimera”, dove vince il bianco, la morte per ora non arriva.

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