Noi, nostro… e “Paternosciu”, ovvero “Buon Natale!” a modo mio.

di Armando Polito

Non c’è dichiarazione di uomo politico di qualsiasi colore che non contenga la locuzione fare un passo indietro o voci come discontinuità e condiviso.

A quest’ultima dedicherò alcune riflessioni partendo dall’amara considerazione che, pur essendo la nostra, almeno sulla carta, una democrazia rappresentativa, a causa dell’idea privatistica che della politica hanno mostrato di avere e di continuare ad avere gli eletti, l’integrazione obbligata per condiviso non è da tutti ma, bene che vada,  da noi, il più delle volte da me.

E pensare che, se esiste una voce che può sintetizzare l’idea della fratellanza, questa è, anch’essa sulla carta, proprio noi! Quale altro pronome fiorisce sulla bocca degli innamorati quando tutto fila liscio e neppure l’ombra di un terzo o di una terza può propiziare l’utilizzo, da parte del cornuto o della cornuta, non più di noi ma di voi? quale altro è il più usato da un gruppo compatto e fortemente unito come può essere una squadra sportiva finché la lealtà e l’affiatamento prevalgono su interessi inconfessabili? quale altro in un’ azienda in cui gli operai riconoscono nel titolare uno di loro, forse più importante, senz’altro non autoritario ma autorevole, non un cinico manager che percepisce un compenso stratosferico per far loro perdere, perché così vuole spietatamente il nuovo mercato, il posto di lavoro e farli morire di disperazione o di fame? quale altro in una classe in cui, nel rispetto reciproco dei loro ruoli, docente e discenti crescono insieme, e non solo culturalmente?

Purtroppo lo stesso pronome si presta molto bene a sintetizzare anche la complicità, non quella sana, sorella della fratellanza di cui ho appena parlato, ma quella intesa nel suo significato deteriore, nonché della connivenza: e penso ad una banda di rapinatori, ad un’associazione a delinquere di più ampio respiro (non necessariamente a Cosa nostra), all’uso criminale del pubblico denaro, quando non rubato, elargito ad incompetenti e disonesti per mera riconoscenza di partito.

Le due categorie di esempi appena fatte hanno, però, un punto in comune: tutelano un interesse parziale, coinvolgente due o più persone, e persino la prima, che sembrava la più nobile, è ben lontana dal concetto di fratellanza universale che implica un noi inteso come comunione di io, tu, egli, voi ed essi (presi singolarmente o no) con il resto dell’Umanità.

Consapevole che non sapremo invertire la rotta seguita dalla nostra comparsa sulla Terra fino all’estinzione della nostra razza, credo, tuttavia, che ogni tanto valga la pena riflettere sulle nostre miserie nobilitate a colpi di retorica, per evitare che nel prosieguo del nostro cammino sempre più raramente si accendano fasci di luce ad illuminarci, anche per poco, la strada: intendo riferirmi a quelle vite  spese, nel silenzio e nel buio o tra rumori di altoparlanti e sotto luci di riflettori di cui i protagonisti avrebbero fatto volentieri a meno, al servizio degli altri, le uniche, in fondo, degne di essere ricordate e di essere prese ad esempio.

Sicché anche un ateo, un miscredente, un senzadio, un indegno, secondo l’accezione corrente dei termini, come me può permettersi di citare per tutti Cristo, quel Cristo che, grande come uomo, paradossalmente è quotidianamente vilipeso e offeso proprio da chi ha voluto riconoscergli natura divina. È una strumentalizzazione che ha coinvolto tutti coloro che sono considerati come i fondatori delle grandi religioni del mondo, facendo leva, sostanzialmente, sulla paura della morte, fenomeno, in fondo, sul quale è basata ogni religione.

Yseult de Lacy, in  Petit Heures of the Duke of Berry, c.1380.
Yseult de Lacy, in Petit Heures of the Duke of Berry, c.1380.

Ma voglio tornare a Cristo e a quella che i Cristiani considerano la loro più bella preghiera, il Paternoster, il cui autore dalla tradizione è indicato proprio in Cristo. A questo punto il lettore si meraviglierà che abbia scritto Paternoster con l’iniziale maiuscola e mi accuserà di incoerenza o di vigliaccheria attribuendomi la convinzione che col potere, qualunque esso sia, è meglio non scherzare…

Niente di più infondato, non tanto e non solo perché del potere esercitato in un certo modo (e Cristo fu il primo ad aborrirlo) me ne impipo, ma soprattutto perché sono stati altri ad obbligarmi a farlo e in particolare colui al quale venne l’idea di chiamare paternoster un particolare tipo di ascensore ancora in uso negli Stati Uniti ed in Europa. In Italia l’installazione è vietata per motivi di sicurezza, anche se il solito maligno potrebbe vederci in questo lo zampino del Vaticano…1

Della preghiera riporto il nesso iniziale in greco, in latino ed in italiano2:

Πάτερ ἡμῶν… (Padre di noi…)

Pater noster… (Padre nostro…)

Padre nostro…

Il lettore mi perdonerà se per agganciarmi al titolo sarò costretto a fare una premessa di natura grammaticale. Come appare dalla traduzione letterale, dopo aver detto che Πάτερ, Pater e Padre sono dei vocativi, il secondo componente è in greco un genitivo plurale del pronome personale di prima persona plurale, mentre in latino e in italiano è il corrispondente aggettivo.

È intuitivo che l’aggettivo ha un significato meno pregnante rispetto al sostantivo o al pronome da cui è nato; ne consegue che la resa in latino con noster e in italiano con nostro dell’originale greco ἡμῶν corrisponde ad una sorta di traduzione annacquata3. Questo succede quasi sempre quando per fornire una traslazione più agile e conforme ai canoni espressivi correnti non si rispettano i valori grammaticali del testo originale; ed è per questo che dai miei ragazzi ho sempre preteso accanto alla traduzione libera quella letterale. Non è tutto: se in passato poteva succedere che per un colpo di fortuna la fraseologia contenuta nel vocabolario (sempre che lo si sapesse leggere e usare al meglio…) costituisse un formidabile aiuto in occasione dei compiti in classe (per quanto riguarda i classici da parecchi anni i testi in uso recano nelle note la traduzione, per lo più libera, quasi integrale…), oggi in rete è possibile trovare la traduzione di tutto (non mi riferisco solo alle lingue classiche) e i pericoli di non profonda comprensione del testo o, addirittura, di un suo travisamento, si sono moltiplicati in modo esponenziale.

Per tornare, è veramente  il caso di dire, a noi: è come se nell’originale greco i due protagonisti (noi e il Padre) fossero presenti in tutta la loro concretezza e nelle traduzioni, invece, la componente umana avesse meno rilievo. Che ciò sia avvenuto per dichiarazione di umiltà lo dubito fortemente…

Penso, invece, che sia avvenuto per superficialità, non dissimilmente da quanto si può notare in documenti laici. E penso agli atti notarili del passato ed alla formula in nostra presentia che si alterna con in nostri presentia o con in presentia nostra o con coram nostra presentia. Non attribuirei al notaio che usava in nostri presentia (nostri genitivo oggettivo) una particolare consapevolezza dell’importanza del ruolo ricoperto, come non attribuirei a dichiarazione di umiltà la costanza della formula in nostra presentia in atti di natura ecclesiastica, anche perché a questo punto non dovremmo più parlare di nos maiestatis ma di nos humilitatis.

Ho parlato di superficialità senza citare fino ad ora il responsabile (se reale o presunto lo lascio giudicare ai lettori). Com’è noto, il traduttore della preghiera dal greco (il testo greco è attribuito a Matteo; tutto il Nuovo Testamento ci è pervenuto in greco e ciò che ci è giunto in aramaico, non quello parlato ai tempi di Cristo, è una ritraduzione dal greco) al latino fu San Girolamo, e illuminante per il problema qui posto è questa sua affermazione metodologica, già da me, con tutto il rispetto, precedentemente contestata in toto nella sostanza. In una lettera4 indirizzata nel 395 a Pammaco egli scrive: Ego enim non solum fateor, sed libera voce profiteor, me in interpretatione Graecorum, absque Scripturis santis, ubi et verborum ordo misterium est, non verbum e verbo, sed sensum exprimere de sensu (Io infatti non solo dico ma con libera voce proclamo che io nell’interpretazione dei Greci, eccetto le sacre scritture dove anche l’ordine delle parole è un mistero, esprimo non parola da parola ma significato da significato), invocando poco dopo l’autorità di Cicerone del quale cita quest’affermazione: …nec converti, ut interpres, sed ut orator, sententiis iisdem et earum formis tam figuris quam verbis ad nostram consuetudinem aptis. In quibus non verbum pro verbo necesse habui reddere, sed genus omne verborum vimque servavi. Non enim me annumerare ea lectori putavi oportere, sed tamquam appendere5 (…e non tradussi [le orazioni di Eschine e di Demostene] come traduttore, ma come scrittore, adattando le loro opinioni e forme, tanto nelle figure che nelle parole, al nostro modo di esprimerci. In questo non ritenni necessario rendere parola per parola, ma conservai tutta l’essenza delle parole e la loro forza; non pensai infatti che fosse opportuno contarle per il lettore ma soppesarle); e ancora più avanti Girolamo cita Orazio: Nec verbum verbo curabis reddere, fidus interpres6 (E da fedele interprete non curerai di rendere parola per parola).

Affermazioni sacrosante su un compito difficilissimo qual è quello del traduttore (figura che, secondo me, dovrebbe essere in grado di unificare in sé le funzioni, nell’ordine, del filologo,  dell’interprete e del glossatore), ma che, sempre secondo me, sono fuorvianti quando non si tiene nella giusta considerazione anche il valore grammaticale della parola da tradurre, al quale corrisponda anche una pregnanza di pensiero che non ci si può permettere il lusso di omettere, a costo di usare un eloquio poco elegante o, comunque, non perfettamente consono all’uso corrente.

Proprio il caso, mi pare, del nostro ἡμῶν; e non posso neppure sospettare che il buon Girolamo non conoscesse il nesso classico amor mei=amore di me stesso (genitivo oggettivo con valore riflessivo) in contrapposizione ad amor meus=il mio amore (cioè quello che io provo per gli altri). Dopo aver detto che con questo mio rimprovero non ambisco certamente a soppiantarlo (anche perché non sono certo uno stinco, tanto meno una testa, di santo) nel ruolo, ufficialmente riconosciutogli, di protettore dei traduttori, passo ad un’ultima riflessione più intimamente legata, forse, allo spirito e agli interessi culturali di questo sito.

Se nel passaggio dal greco al latino ho parlato di traduzione annacquata, dovrei definire bastarda e strana quella dal latino al dialetto neretino. Paternòsciu, infatti, consta di un primo componente che è tal quale quello latino; eppure mi sarei aspettato un dialettale patri, forma non usata autonomamente ma solo col possessivo singolare enclitico (pàtrima/pàtrita/pàtrisa=mio padre/tuo padre/suo padre) dal quale pure si sarebbe potuto estrarre, magari nella forma non apofonizzata patre; il secondo componente, invece, appare come la trascrizione dialettale dell’italiano nostro con il normale passaggio str>sc (come in finestra>finescia) che ha dato in neretino nuèsciu (per il femminile la forma  però è, per metafonia, nòscia), mentre qui compare, stranamente, nòsciu usato in altre zone del Salento).

E come non ricordare i due proverbi salentini in cui il Pater noster è la preghiera per antonomasia?

Picchi pane e picchi paternosci (Poco pane e poche preghiere), corrispondente, grosso modo, a chi si accontenta gode, un inno quasi alla vita semplice e frugale che presuppone pochi peccati da emendare.

Santu Nicola meu se nu me mariti, paternosci de mie nu nne spittare (San Nicola mio, se non mi fai trovare marito non attendere da me preghiere); agli occhi di qualcuno potrebbe sembrare come il classico esempio di una religiosità pratica, se volete rozza, strumentale, utilitaristica, contadinesca ma disincantata e, uso una parola grossa, ricattatoria.

Però, non sono forse intrise di rinfaccio prima e di una minaccia e  ricatto sottintesi poi le preghiere che non solo gli eroi ma perfino i sacerdoti greci rivolgevano ai loro dei? Sentite, è uno dei tanti esempi tant’è che per le preghiere si può parlare di parti formulari, cioè obbedienti ad un modello per forma e contenuto, l’invocazione di Crise ad Apollo (riporto per brevità solo la traduzione di Ippolito Pindemonte):

Dio dall’arco d’argento, o tu che Crisa

proteggi e l’alma Cilla, e sei di Tènedo

possente imperador, Smintèo, deh m’odi.

Se di serti devoti unqua il leggiadro

tuo delubro adornai, se di giovenchi

e di caprette io t’arsi i fianchi opimi,

questo voto m’adempi; il pianto mio

paghino i Greci per le tue saette.7

 

Non guasta chiudere, dopo aver ricordato il detto gallipolino sinti nu mòzzaca patarnosci8(sei un bigotto; alla lettera: sei un mordi-rosario),  con la nostalgia di un canto bugiardo9del tempo che fu:

Ci ‘uliti cu bu dicu ‘na menzogna,/’nu puntu de ‘erdade nun ci sia:/ de sira ‘iddi ballare la lucerna,/lu lucernaru la danza facia;/lu manimuzzu petre ‘scia cugghiendu,/e ‘mpiettu a ‘omu nudu le mentia;/lu mutu patarnosci ‘scia decendu,/lu surdu ‘scia de ‘retu e lu sentia; lu musciu casu ‘ecchiu ‘scia endendu,/lu surge lu ‘eddhanzie nni tenia (Se volete che vi dica una menzogna/non ci sia  nemmeno un punto di verità:/di sera vidi ballare la lucerna/il lucerniere faceva la danza;/ una persona con la mano mozzata andava raccogliendo pietre/e le poneva nel petto di un uomo nudo;/il muto andava dicendo Pater noster/, il sordo gli andava dietro e lo sentiva; il gatto andava vendendo formaggio stagionato, il sorcio gli teneva la bilancia).

Per farmi poi perdonare, almeno in parte, il turbamento che questo mio scritto potrebbe aver procurato a qualche lettore, per farmi perdonare, dicevo, e non solo da lui…,  chiudo con una galleria fotografica in cui di mio ci ho messo solo un copia-incolla, praticamente nulla, non senza augurare a tutti, consapevole di non aver fatto, come vuole in questo periodo la pubblicità, il buono …, il mio non convenzionale Buon Natale!.

___________

1 Ma, se l’ascensore, costituito da una serie di cabine  applicate ad una catena senza fine, risale ai primi decenni del secolo scorso,  paternoster in documenti notarili di Gallipoli del secolo XV è un monile di coralli per grandi occasioni e  patarnòsci a Squinzano indica un tipo di maccheroni molto minuti e patarnòsciu a Castro e a Scorrano il frutto dell’edera, a Cutrofiano   un frutto poco sviluppato. Punto di partenza comune è il rosario (che già è una traslazione metonimica: dalla preghiera all’oggetto che l’accompagna): la somiglianza è integrale nell’ascensore, parziale (con riferimento al singolo grano) nei maccheroni e nel frutto.

2 Altri passi della preghiera sono stati accusati di traduzione infedele se non  errata ma, a quanto ne so, nessuno si è mai soffermato sulle due parole iniziali.

3 Infatti Pater noster in greco sarebbe stato Πάτερ ἡμέτερε (l’ultima parola vocativo dell’aggettivo possessivo di prima persona plurale).

4 Epistola LVII; cito dal testo riportato nella Patrologia del Migne; la traduzione, letterale…, è mia).

5 De optimo genere oratorum, V, 14.

6 De arte poetica, vv. 133-134.

7 Iliade, l, 47-54.

8 Emanuele Barba, Proverbi e motti del dialetto gallipolino, Stefanelli, Gallipoli, 1902, pag. 189.

9 Così lo chiamarano (il motivo si capirà dopo averlo letto),  inserendolo  insieme con altri canti di Lecce e Cavallino, Vittorio Imbriani e Antonio Casetti nella loro raccolta intitolata  Canti popolari delle provincie meridionali, Loescher, Torino, 1871; il canto in questione è a pag. 202.

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