De cellularium damnis vitae nostrae

da http://www.petpassion.tv/blog/

 

di Paperoga

 

Corrisponde a banalità purissima affermare che negli ultimi 15 anni la vita dell’uomo medio occidentale sia stata letteralmente rivoluzionata da due tecnologie: il cellulare ed internet. Ma se la navigazione in rete è stata da me scoperta nel 1999 e me ne sono pacificamente assuefatto, il rapporto col cellulare è nato tra mille strepiti e rifiuti, e rimane tuttora tormentato.

Volendo rispondere agli alti obiettivi speculativi fissati dal titolo in latino maccheronico del post, sdoppierò lo stesso affrontando separatamente due problematiche che poi sono anche l’essenza della rivoluzione che la telefonia mobile ha apportato alle nostre vite. Affronterò dunque in primis di come quella scatoletta infarcita di chip abbia stravolto la nozione stessa di “reperibilità”.

Giù in Salento i primi cellulari che non costassero quanto un rene sono apparsi nel 1996 o giù di lì. Sono stato uno degli ultimi fortunati studenti a diplomarmi prima che i cellulari entrassero a stuprare le aule delle superiori. Ho resistito sino al settembre del 1999, cedendo alla forza bruta di mia madre che, dopo una notte insonne senza avere mie notizie dopo una battuta di pesca con ritorno all’alba, mi prese per le recchie e mi comprò una scheda sim, appioppandomi un suo cellulare di risulta.

Ma perché resistevo così tanto? Il solito snobismo da bastian contrario? No. Semplicemente, mentre la gente impazziva nel poter telefonare dovunque o in qualunque momento, io ci tenevo a rimanere non reperibile. Intuivo che il cellulare era né più né meno uno di quei braccialetti elettronici che mettono sui carcerati in America quando li mandano a casa. Non puoi toglierteli, non puoi spegnerli, e ti rendono un puntino sul radar sempre costantemente monitorato.

Badate, la pensavo così quando ancora il cellulare era uno status symbol che non tutti potevano permettersi, non ancora uno strumento a buon mercato che oggi costa meno di un tostapane. A quei tempi era ancora possibile non averne uno, ed era ancora possibile usarlo in modo distratto. Lo usavi quando ti serviva, e se lo tenevi spento problema non ce n’era.

Nel tempo, la reperibilità da opportunità è diventato un obbligo, come avevo previsto senza troppi sforzi. Oggi non è più possibile tenerlo spento, o non rispondere, o persino non richiamare se il tuo cellulare dava occupato. Lo pretende il lavoro, lo pretende la famiglia. Appena il cellulare che stiamo chiamando squilla troppo a vuoto ci girano le palle, se è spento troppo a lungo pensiamo già alla tragedia. Quando lo riaccendiamo o finalmente rispondiamo ci sentiamo cazziare da capi ufficio, madri, mogli, figli, clienti, persino da sconosciuti, del tipo che:

Squilla cellulare sconosciuto.

Pronto?”

Finalmente dannazione, scusi ma le pare che deve tenere spento il cellulare per due ore?”

Scusi ma chi cazzo è lei?”

Cercavo Pinco pallino”

E guardi che ha sbagliato numero”.

Ah. (Pausa di due secondi). Però lei il cellulare lo deve tenere acceso uguale, per la madonna!”

Certo, ormai alla reperibilità ci siamo abituati, talmente tanto da non capire più quanta libertà ci abbia portato via. Il cellulare è sempre acceso, anche di notte. Se non riesci a rispondere in tempo devi richiamare, e se è un cellulare sconosciuto lo richiami subito curioso. Ma ben più che alimentare bisogni inutili come la curiosità morbosa, il cellulare ci ha recato in dono l’ansia, l’ansia di essere reperibili e ancor più l’ansia di reperire, di trovare, di controllare.

I genitori di oggi, con intenti pedagogici che ben meriterebbero la pena di morte, consegnano il cellulare ai lori figli ancor prima che arrivino alla scuola media. Non è solo uno dei tanti vizi con cui cercano di compensare la loro incapacità di educare riversandogli addosso bidoni di insano affetto materiale. No, è un calcolo astuto. Educare i figli, porre loro dei limiti, ma nel contempo anche fidarsi di loro, esercitare il loro ruolo di guide senza castrare il loro emergente bisogno di autonomia, è un lavoraccio che quei decerebrati non saprebbero manco concepire. Molto meglio munire i loro figli di un bel collare elettronico da dove possono controllarli e richiamarli a cuccia se del caso, insomma, fare i genitori a distanza dando l’illusione a sé stessi di non essere come quei debosciati che non si interessano dei pargoli

Ma a parte tutto, il cellulare ci ha resi ansiosi, impauriti, bisognosi di contatti immediati, di rassicurazioni via filo. Come facevamo una volta? Non è una domanda banale, ma dovremmo porcela più spesso. I telefoni di casa e le cabine telefoniche erano gli unici strumenti di contatto. Per organizzare una serata ci si industriava, si improvvisava, si sopperiva al disagio con grande elasticità. Eravamo liberi e disordinati, privi di quei fili invisibili attorcigliati al collo, e non ci interessava né essere reperiti, né reperire. Non avevamo ansia di controllo o comunicazione. Vivevamo scazzati, più tranquilli, giovani o adulti che fossimo. Poi è arrivata quella scatoletta, e puff! sono emersi bisogni, ansie, manie di cui non conoscevamo l’esistenza. E che oggi fanno parte del nostro dna, senza che possiamo più farci nulla.

Sono consapevole dei vantaggi della reperibilità totale, e certo non ci sputo sopra. Però, e chiamatemi passatista, ma non sono tanto sicuro che, nello scambio con una vita senza braccialetti elettronici, ci abbiamo davvero fatto un affare.

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3 Commenti a De cellularium damnis vitae nostrae

  1. “Ah. (Pausa di due secondi). Però lei il cellulare lo deve tenere acceso uguale, per la madonna”. Troppo bella! Sono come Paperoga uno degli ultimi che ancora è capace di dimenticarsi del cellulare per qualche ora, persino qualche giorno, però poi mi tocca per l’appunt sentirne di tutti i colori, sempre che non mi abbia già assalito l’ansia! :)

  2. anch’io, quante volte lascio i cellulari a casa! la gente mi cerca e io non rispondo, ma pazienza! senza contare le volte che ce l’ho addosso, dimenticandolo in modalità silenzioso e per qualche motivo non sento la vibrazione :P

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