Uomini e bestie nella tradizione popolare salentina di fine Ottocento

 
Giovanni Fattori, Bovi bianchi al carro (1867-1870)

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

 

UOMINI E BESTIE NEL VINCOLO DI UNA TERRA RIARSA, INESAUSTA NELL’ASSORBIRE TANTO IL SUDORE DELL’UOMO CHE LAVORAVA DI ZAPPA, QUANTO QUELLO DEL BOVE CHE TIRAVA L’ARATRO.

 IL BRINDISI ALLA VACCA NELL’ARCAICA SIMBOLOGIA TAURINA

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) Che il contadino amasse l’asina più della propria moglie era un luogo comune, assumibile come diagramma significativo del rapporto in termini di profitto (maggiore resa = maggiore cura) ma che non spiega l’insieme contraddittorio dei comportamenti – o sentimenti che dir si voglia –, rimandando pertanto a una qualche ragione primaria più ampia nella capacità dell’inglobo. E poiché risalire a monte nel riflesso di un popolo già di per sé contrassegnato da retaggi arcaici porta  inevitabilmente a un recupero di echi ancestrali, ci ritroviamo di fronte quel retroterra di miti e culti panici le cui radici, come altrove abbiamo notato, continuavano a interagire, sia pure camuffate nel ruolo ambiguo delle leggende spesso tramutate in credenze. Non si era certo più a livello di numinoso naturalistico, nel cui contesto anche le bestie potevano avere ruolo deifico, ma se il superamento del politeismo agreste in teoria era valso a neutralizzare i reverenziali timori suscitati dalle misteriose forze della natura, in pratica il contadino dell’Ottocento continuava a esserne soggiogato, per cui lo stesso rapporto con le bestie ne usciva caratterizzato da un’indecifrata  soggezione traducibile in senso di colpa, quasi usurpazione di un potere che nel riverbero di moralità archetipiche poteva apparire come passibile di punizione.

 

Nel passaggio al monoteismo, quelle che erano forme deificate si erano infatti convertite in scansioni di sacralità della natura, formando sì un corpo unitario ma non assolvendo ad un obbligo di prevalenze nel rispetto, né tanto meno azzerando quel ricorso al cultuale vissuto come stato di inermità di fronte al mistero creativo. Un disarmo tanto più avvertibile a livello di classe contadina, il cui stato di asservimento creava pareggiatura di sorti nel vincolo di una terra riarsa, inesausta nell’assorbire tanto il sudore dell’uomo che lavorava di zappa, quanto quello del bove che tirava l’aratro.

Nell’insieme della visione bucolica era infatti impossibile stabilire delle separazioni fra presenza umana e presenza animale, poiché il giorno nasceva, dilagava e moriva traendo vitalità da un’unica orchestrazione, il cui crescendo non concedeva spazio agli assoli: la voce dell’uomo trovava complementarietà nel muggito del bove o nel raglio dell’asino, l’affannato tramestio dei passi si rispecchiava nell’affaticato zoccolare dei cavalli, lo stornellare delle ragazze si intrecciava al belare delle capre, e il pianto dei bambini era dolente contrappunto al lamento degli agnelli. E se dosatura c’era in tanto coinvolgimento di vita e di lavoro, non era certo a favore dell’uomo: per aggiogare un puledro si aspettava che i suoi garretti fossero ben saldi e con scrupolo se ne misurava a palmi il garrese, ma per incatenare i fanciulli alla zappa non ci si dava tempo, per cui il loro passaggio da fiore a frutto era estremamente rapido, e a pausa preparatoria c’era solo un rassegnato sospiro di rinuncia all’infanzia.

 

Nel quotidiano assenso al sacrificio, l’uomo e la bestia faticavano assieme, con la differenza però che quest’ultima aveva nel padrone un protettore vigile che la valutava e compativa negli sforzi, concedendole pause di riposo durante le quali spesso lui continuava a lavorare, sia pure soltanto falciando erba fresca da offrirle come boccata di ristoro. Pur covando le sue paure di miseria e dibattendosi nelle ristrettezze, questi si preoccupava di non farle mancare il pugno di biada, giungendo financo all’affettuosa attenzione di versarle nel pastone di crusca un bicchiere di vino; un gesto che rasentava l’atto oblatorio, tenendo presente come nell’ambito contadino il vino assurgesse a simbolo celebrativo, tanto da porsi come sigillo nella saldatura delle amicizie, dei comparatici, dei fidanzamenti, che venivano resi di pubblica ragione solo dopo che i due futuri consuoceri si erano offerti reciprocamente un bicchiere di vino, unurànnuse cu nna mbiùta e nnu brìnnisi (onorandosi con una bevuta e un brindisi), il cui usuale testo si articolava in forma propiziatoria:

     Miéru, sangu ti la terra, mbéu a ssanitate òscia! La cuntintezza ti lu osce cu bbessa ti nchianàta e mmai ti scisa, erde ti màsciu ‘ndacquàtu ti lu celu!

 (Vino, sangue della terra, bevo alla salute vostra! La contentezza di oggi sia sempre in salita e mai in discesa, sia verde di maggio innaffiato dal cielo!).

Anche le bestie si avevano il loro brindisi, e ciò accadeva al tempo delle messi, quando un bovino – meglio ancora se vacca – occasionalmente si trovava a transitare ai margini di un campo in mietitura: pur nella spirale dell’urgenza che caratterizzava quei giorni di raccolta, mietitori e mannellatori sospendevano il lavoro, affollandosi attorno all’animale e gareggiando a chi per primo gli offriva una spiga, a chi più a lungo poteva posargli la mano sulla groppa. A dare alla scena più netto crisma celebrativo ci pensava il capogruppo il quale, dopo aver bevuto a uno dei mmìli (anforette di terracotta) che i lavoranti si portavano dietro pieni di acqua corretta col vino – mistura che si diceva frenasse la sudorazione -, di questa se ne versava un poco nel cavo della mano e, invitando i presenti “mmusàti, mmusàti a lli mmìli” (“sorseggiate, sorseggiate alle anfore”), la offriva alla leccata della bestia, pronunciando la frase d’occasione: “Nui mbìmu a ssanitàte tua e tune lecca a bbunnànzia nòscia!” (“Noi beviamo alla tua salute e tu lecca alla nostra abbondanza!”).

Questa chiara volontà di stabilire una reciprocità di favori, in sostanza privilegiava la bestia, riconoscendole se non le mitiche funzioni tutelari, quanto meno facoltà propiziatorie, in uno spontaneo rinverdirsi dell’arcaica simbologia taurina che vedeva appunto nell’abbinamento terra-vacca la connotazione della fertilità, ossia il principio perfettivo del regno naturale. Fra le due figure archetipiche, l’inserimento dell’uomo aveva ruolo contraddittorio, perché se da una parte questi istintualmente si riconosceva suddito della natura – dalla quale dipendeva in tutto e per tutto -, dall’altra se ne era fatto virtualmente padrone, imponendo le sue regole nella coltivazione e, quel che più incideva psicologicamente, asservendo le bestie ai propri interessi. Di qui il latente senso di colpa nei loro confronti e il costante desiderio di attestare una sanatoria, bilanciando l’imposto servizio con un volontario rispetto. Un senso di compensazione al quale si veniva spronati fin dalla più tenera età e a prevalente cura delle madri, che pur di abituare un figlio a non avere paura delle bestie – soprattutto di quelle provviste di corna -, e nell’intento di orientarlo appunto verso un dominio temperato dall’amore, spesso gli raccontavano che a portarlo a casa, in fasce, era stata una vacca, descrivendo con quanta cura durante il trasporto lo aveva nannarisciàtu intra’a nnu facciulittòne mpisu a nnaca a lli corne (ninnato dentro un fazzolettone appeso alle corna a mo’ di cuna). “Quannu ccuéntri nna acca chiamala nunna” (“Quando incontri una vacca chiamala madrina”) gli ricordavano, e tutte le volte che era possibile si premuravano di farlo salire in groppa incitandolo: “Ncarìzzala, ncarìzzala, ca ti stà cchiàma patrùnu” (“Accarezzala, accarezzala, ché ti sta chiamando padrone”).

     Se al momento del brindisi sul campo in mietitura c’era una donna con il proprio bambino, questa non si lasciava sfuggire l’occasione: chiedendo pirméssu ti ‘nsiddhràta (permesso di insellata), sistemava il suo piccolo a cavalcioni sulla groppa della bestia, non prima però di aver affidato alle sue mani due o tre spighe frettolosamente intrecciate a cerchietto, raccomandandogli di appenderle alle sue corna a mo’ di regalo. Un gesto che, pur se nella spontaneità della proposizione non poteva essere scisso dalle ansie suddette, in sostanza svelava un riemergere di pregnanze ancestrali, identificabili tanto nel cerchio di spighe – esplicito di deificazione nei culti primordiali – quanto nell’atto stesso dell’insellata, valevole come simbolica intronizzazione.

Continuando a orbitare nel mitico, ossia concedendo a questo funzioni di sotterraneo suggeritore, se ne può trarre la conclusione che alla base del comportamento materno ci fosse un interesse propiziatorio, tenendo presente che la ricchezza dei re mitici si configurava appunto in dovizia di armenti e le loro stesse qualità di uomini coraggiosi, virili, potenti, venivano riassunte nell’immagine stereotipata di provetti cavalcatori, vuoi di destrieri vuoi di giovenche

     Nel leggendario nostrano le giovenche reali erano tutte jànche comu latte mpena muntu (bianche come latte appena munto) e a ogni vigilia di novilunio convenivano in massa a rretu a lla mparitàta ti lu parajsu tirréstre (dietro al muro di cinta del paradiso terrestre), dal cui cancello, a mezzanotte in punto, usciva lu rre Ddavìdde (il re Davide) il quale, essendo il re pastore per eccellenza e quindi ntinnénnuse ti uéi (intendendosene di buoi), le passava in rassegna, a ognuna misurando le corna finché, stabilito quale era la falcatura più bella, se ne impadroniva per tramutarla in luna nuova.

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi  nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 150-153

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10 Commenti a Uomini e bestie nella tradizione popolare salentina di fine Ottocento

  1. Riguardo il primo rigo di questo contributo, dove si legge “asina” e non “asino”, sempre in “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA” si legge: “Nell’allevamento degli asini, quelli di sesso maschile venivano prevalentemente destinati al macello. Per i servizi della vita quotidiana si preferivano sempre asine, in quanto sessualmente non scandalose. Le donne, però, vincolate dal pudore, fingevano di ignorare il motivo di carattere sessuale e attribuivano tale scelta al desiderio di emulare Gesù: per fare il suo ingresso in Gerusalemme non si era forse servito di un’asina? A proposito dicevano: “Lu signòre è sciùtu sobbr’a nna ciùccia e mmo tici ca nui ccattàmu nnu ciùcciu?” (“Il Signore è andato su un’asina, e dici che noi compriamo un asino?”)”.

    • sicuramente si evitava l’asino per motivi di pudore, ma l’asina era anche, e soprattutto, scelta, per le qualità del suo latte. Prezioso alimento in quanto il più vicino, anche scientificamente, al latte materno (Gigi ne darà conferma). I numerosi casi di interruzione dell’allattamento al seno permettevano di ovviare integrando, appunto, con il latte d’asina, ove non fossero disponibili delle nutrici

  2. Eccezionale lavoro di carattere antropologico, agrario e zootecnico. Una visione che oggi è andata quasi perduta.
    Complimenti all’autore per la bellissima trattazione che rende bene l’idea di quanto il rapporto uomo animale sia importantissimo.

    • Giulietta Livraghi Verdesca, come potrai leggere nella scheda bio-bibliografica in questo sito, rimane un fondamento nella nostra etno-antropologia. Avrai notato come, a distanza di diversi anni dalla sua scomparsa, ne facciamo orgogliosamente un punto saliente di queste pagine. Siamo sempre grati al suo Nino per offrirci testi di così alto spessore culturale, che sebbene appartenenti ad un mondo trascorso, meritano ogni attenzione e studio

  3. Oltre alla ricca iconografia in cui si riconosce il gusto e (anche) la mano di Marcello, grande è la ricchezza culturale salentina che promana da questo prezioso contributo, che merita la massima condivisione.
    Un grazie a Marcello per la scenta del pezzo e a nino, del quale traspare lo zampino affettuoso.
    Buona settimana a tutti.

    • UNA VERA CHICCA! Mi auguro che molti leggano questo bellissimo saggio di antropologia culturale.

  4. Quanto dice Marcello a proposito del latte d’asina è proprio vero e lo si può riscontrare in altri lavori della Giulietta, soprattutto in capitoli che trattano la nutrizione infantile o nel corso dei quali vengono citate le “mane ssutte” (“madri asciutte” [prive di latte al seno]).

  5. Che abisso abbiamo scavato in pochi decenni tra noi e la Natura! Come siamo stati bravi in brevissimo tempo a far prevalere il bieco profitto immediato sul rispetto consapevole del futuro! Quanti rapporti, anche sentimentali, con oggetti, animali e persone recisi per sempre! Le struggenti riflessioni alle quali la lettura del pezzo obbliga chi ancora conserva un barlume di sensibilità possono ancora fungere da viatico, pur malinconico, per una resurrezione?

    • magari, caro Armando! ma ho i miei dubbi. I miei nipotini non hanno mai visto una mucca dal vivo, neppure allo zoo. Ecco perchè son sempre più convinto che i pezzi postati, i tuoi compresi, sono gioielli di famiglia che dobbiamo conservare e almeno esibire agli interessati!

  6. Chissà se è vero, come mi è stato raccontato una volta, che la pila di lecciso su cui è dipinta in affresco l’immagine della Madonna Immacolata di Carmiano, fosse stata utilizzata perché si abbeveravano le vacche…Qualcuno saprebbe darmi qualche lume su questa ipotesi sulle immagini sacre del XIV-XV se.:? Grazie

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