Un luogo: l’infanzia

di Maria Grazia Presicce

La luce m’inonda come allora, come quando da bambina uscivo sul terrazzo e la luce mi pioveva addosso improvvisa e mi avvolgeva dolcemente proiettando la mia ombra piccina piccina.

Il sole come allora accompagna i miei passi, la mia ombra ora mi sovrasta, non è più piccina piccina e mi precede sicura guidandomi, esortandomi a procedere. Improvvisa scompare e mi si riavvolge attorno quando, timorosa, varco il limitare di una porta sgangherata. La penombra allora m’invade e mi penetra insieme ad un tanfo di chiuso, di umido, di fradicio.

Circospetta avanzo, mentre solo i ricordi mi spronano ad andare oltre e illuminano quella penombra, quella desolazione che ora occupa e incombe sulle mura scorciate, sulle porte sbilenche, sugli stipiti infranti, i pavimenti violentati, le finestre violate coi vetri rotti invase da rami di fico che pendono inerti e danno però un bagliore di vita e di colore a tanto sfacelo, a tanto silenzio.

Ma, il silenzio, la desolazione non fa parte dei miei ricordi che vividi e imperiosi riaffiorano e non mi fanno vedere più il buio e non vedo più squallore e non sento più silenzio:

“Lisa….Lisa è arrivata! Vieni, vieni a salutare il nonno, gli zii, Mesciu Guido …”#

E’ festa intorno a me, c’è tanta allegria fatta di saluti, di abbracci, di sorrisi che si diffondono nella penombra rischiarata dai lumi a petrolio e ad olio e dalla fiamma del camino che sprizza e sfavilla

e anch’essa lieta partecipa e saluta l’arrivo di Lisa e dei suoi fratellini che vispi e gioiosi corrono chi di qua chi di là a salutare e poi sgattaiolare e spiare, curiosare colorando e riempiendo di festosità tutto l’ambiente, mentre il cavallo bendato lento e silenzioso continua a girare la macina nella vasca dove alcuni uomini versano canestri di olive nere e mature.

C’è profumo di tutto qua dentro: profumo di muffa, di olive schiacciate, di olio, di fumo, di lavoro di onestà e d’amore e il cavallo gira, gira mentre gli uomini si affaccendano a caricare la pressa di fisculi colmi di polpa schiacciata e l’olio abbondante e lucente cola prepotente nel tino sottostante.

I barili pieni, in fila, attendono d’essere portati via e sembrano soldati nella loro luccicante armatura pronti a marciare.

“Lisa! …Lisa! Vieni di qua, stiamo abbrustolendo il pane”.

E’ Mesciu Guido che chiama a raccolta tutti. Lisa corre insieme ai suoi fratelli e siedono vicino al camino intorno ad un tavolo, dove troneggia un piatto colmo d’olio mosto. Ognuno intinge il suo pezzo di pane nel piatto e mangia incurante delle gocce che gocciolano lordando le mani e spesso anche i vestitini.

Che sapori che allegria, quanta serenità!

Le fragranze avvolgono e inebriano: è profumo d’altri tempi è profumo di semplicità, è piacere di poco e di tanto, è gioia fatta di sincerità e tanta schiettezza, mentre la fiamma scoppietta allegra sotto il camino e si accompagna ai nostri giochi, alle nostre risa al nostro parlottare incessante e irruente sotto lo sguardo affettuoso del nonno che sorride sotto i baffi.

Gesù! Un mare di ricordi m’inonda.

Una stanza desolata e vuota, la sua soglia sconnessa, un’imposta ciondolante e il camino ora murato…

Lacrime lente e incontrollabili scivolano sulle mie guance, vorrei ma non posso, non riesco a trattenerle. Colano inconsapevoli, solitarie e vanno insieme ai miei ricordi e mi accompagnano di là di un’altra soglia… mi ritrovo nel cortile…

“ Lisa corri, corri! .. scendi nel cortile, vai a prendere le foglie  del “tiraesana”, la zia si è fatta male col coltello. Corri! Fa presto!”

Scendevo allora di corsa le scale e andavo nel cortile dietro il forno, dove cresceva spontanea la pianta del tiraesana e delicatamente ne coglievo le foglie tenere e vellutate. Stavo accorta a staccare quelle larghe e verdi per non rovinare le foglioline più piccole.

Le staccavo una ad una tirandole leggermente in giù come mi aveva insegnato nonna e le ponevo nella mano libera una sull’altra. Tre o quattro aveva detto nonna. Le contavo e di corsa tornavo sopra e la nonna aiutava la zia a medicarsi mettendo le foglie sulla ferita: “ così rimargina prima ” Diceva, e a me allora sembrava una pianta magica.

Ora quella pianta magica era ancora lì con i suoi fiorellini gialli sulle punte dei rametti che sembravano sorridermi e invitarmi ancora a cogliere le foglie… ma, la ferita da rimarginare adesso era troppo grande, troppo estesa e tutte le foglie non sarebbero bastate.

Almeno lei, però, era sempre la stessa, mi sono limitata ad accarezzare i calici gialli sperando che nessun veleno evoluto l’abbia intaccata così potrà continuare a moltiplicarne la specie per sempre per sempre per sempre… Mi rallegra questo pensiero, mi dà gioia vederla vivida e vitale ma, la mia gioia dura poco allorché supero il varco del giardino recintato. Quanto sfacelo mi accoglie! Non è più un giardino di piante di fiori di frutti. Ora è un ammasso di pietre di cianfrusaglie, di ossa. Più che un giardino è una discarica e vicino al forno accanto alla grande macina del frantoio è stato allestito addirittura un mattatoio clandestino! E’ ben segreto, in effetti, questo luogo per prestarsi a simili sconcezze.

Adesso vedere tutto ciò mi fa quasi paura. Paura che da un momento all’altro qualche losco figuro possa saltare fuori….lentamente e quasi in punta di piedi torno indietro. Un brivido mi attraversa allo sbattere di una porta. Varco la soglia della penombra ed esco all’aria. Non c’è nessuno. Il silenzio e il bagliore del sole continua a sovrastare su tutto, su me, sul fabbricato sberciato violato e in parte crollato e le pietre ammucchiate in cumuli informi e altre sparpagliate mi guardano e mi appaiono tristi nel loro splendore sotto il sole.

Una lucertola fa capolino da sotto un sasso sul mucchio, gira lesta il suo capino e scompare per ricomparire poco più in là sotto un altro sasso.
Pietre sparse e sformate che facevano parte del grande torrione rifugio di colombi, di barbagianni, di civette e nidi di rondini in primavera… e ora? Il ricordo impetuoso mi riporta sul terrazzo formato da quei sassi e mi rivedo bambina correre felice sulle chianche arabescate dai muschi ed affacciarmi al muretto formato da quei sassi che ora giacciono muti e solitari e urlano la loro sventura e paiono rimproverarmi.

Ma, che potevo fare io sola contro l’incuria e la testardaggine di tanti? Eppure sarebbe bastato poco, tanto poco, lo so, ma non ero sola e non potevo decidere per tutti. Vorrei, avrei voluto salvarvi…  lacrime continuano ad inondare il mio viso e colano e mi giungono in bocca e sono amare, amare come la disperazione di quei cumuli confusi sommersi di luce, di quella luce che sommerge anche me. Mi chino a prenderne uno e poi un altro ed un altro ancora,…li porterò con me……ma mi pare d’un tratto di udire le grida di tutti li altri che mi pregano di portarli via…vorrei poterli prendere tutti, vorrei poterli tutti abbracciare mentre le lacrime continuano a scorrere e colano irrefrenabili sui sassi ai miei piedi.

Ho il cuore colmo di tristezza, vorrei poterli dare l’antica forma, ridarli la vita, vorrei, vorrei, vorrei…Ne stacco dal cumulo solo tre e li abbraccio e li porto con me ed è come abbracciarli tutti quanti, proverò a ridarli vita, resteranno con me, per sempre. Nel mio ricordo sono sempre vive ed ora sono già vita perché sono ancora con me e fanno ancora parte di me.


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