Un salentino a Nord Est

Un salentino a Nord Est

 

Alle Terme, braccia, volti e storie di bravi albanesi

di Rocco Boccadamo


Non susciti stranezza, il titolo, né s’abbia l’impressione che l’autore stia, senza accorgersi, realizzando la classica scoperta dell’acqua calda.

Invero, sul tema, di acqua n’è ormai passata a fiumare, purtroppo quasi mai calda, anzi, per lo più, gelida, dolce e salata, ossia di terra e soprattutto di mare, talvolta infida e tragicamente assassina.

E’ noto che la Regione Veneto, compresa l’area dove sono molto indicative e primeggiano le attività imprenditoriali in campo turistico, con specializzazione sul versante ricettivo – termale – curativo, accoglie e ospita consistenti comunità d’immigrati, di varia provenienza, e, fra esse, numerose persone di nazionalità e/o origine albanese.

Ciò premesso in linea generale, l’accenno a gente del Paese delle Aquile figurante nell’intestazione di queste note, trae spunto da una precisa circostanza. Nello stabilimento termale in cui il leccese osservatore di strada si sta sottoponendo all’abituale ciclo di fango balneo terapia, è presente e lavora una vera e propria piccola colonia di nativi della nazione situata dirimpetto alle coste adriatiche meridionali, in parte, ed eccezionalmente prossima in linea d’aria, giusto sull’altra sponda del Canale d’Otranto.

Si tratta di tre collaboratori, un uomo e due donne, giovani, fra i trenta e i quaranta, in servizio qui da parecchi anni.

C’è M., folti capelli scuri e ricci, arrivato da Scutari, con un gommone approdato a Brindisi, nel 1996. Egli è addetto al prelievo del fango dalle vasche di maturazione collocate all’aperto sul retro dell’hotel, quindi al riempimento di pesanti secchi di plastica, color grigio cenere, e al loro trasporto – mediante un vecchio ma efficiente carrello di ferro con ruote di gomma, da sospingersi, guidare e orientare unicamente a forza di mani, braccia e spalle – sino alle cabine dei fanghini, man mano occupate, a turno, dai pazienti.

Un compito, certamente non all’acqua di rose, assolto sia sotto la calura estiva, sia a parecchi gradi sottozero e, tuttavia, M. non si lamenta, va e viene, mai una parola fuori posto, al contrario – spingendo, caricando e scaricando – non trascura di rivolgere il saluto e un accenno di sorriso agli ospiti.

Dopo tanto tempo, vanto un po’ di confidenza con M. e, quando capita l’occasione, gli chiedo notizie sulla sua avventura e sulla sua vita attuale in Italia.

M. tiene a riferire, innanzitutto, che la sua infanzia in Albania è stata dura e sacrificata, una “schifezza”, parola sua, tranne i pochi anni delle elementari, non gli è stato concesso di frequentare la scuola, perché appartenente a famiglia povera e senza mezzi. Aggiunge, poi, che suo nonno è stato a lungo rinchiuso, ed è finanche morto, in prigione, per motivi politici, ancora oggi s’ignora, dove si trovino i suoi resti.

Dopo lo sbarco a Brindisi, M. ha trascorso un paio d’anni a Torino, ivi chiamato da un amico, lavorando “per strada e ai semafori”, nei modi che tutti ben conosciamo. A prescindere da siffatto “impiego”, dice, M., di serbare un ricordo molto positivo di Torino, anche perché, all’epoca, è riuscito a mettere da parte un risparmio inimmaginabile, cinque milioni di lire.

Dal Piemonte, al Veneto, Abano e dintorni, e immediatamente il lavoro come portatore di fango o aiuto fanghino. Dopo qualche anno, il viaggio in Albania per prendere moglie e portarla con sé da queste parti; così, anche la compagna di vita ha iniziato a lavorare in albergo, pian piano la famiglia è cresciuta, contando, a oggi, anche tre figli.

Confida, infine, M., che, ora, fa ritorno al suo Paese assai raramente, giacché ha tutti i familiari e parenti, sino ai cugini, e la maggioranza degli amici, in Italia.

Origine a parte, M. è integrato in tutti i sensi nella nuova Patria, paga l’affitto di casa, fa fronte alle tasse, manda i figli a scuola, usufruisce dei servizi e dell’assistenza; riesce a sbarcare il lunario e ha un’autovettura usata.

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Oltre a M., lavorano nell’hotel che mi ospita, per la precisione coordinano le attività della sala da pranzo, due giovani signore, L. e G., analogamente originarie di Scutari, brune, simpatiche, sorridenti, gentili, svelte, disponibili e capaci. Hanno entrambe due figli.

Della prima, so pure che il marito fa il pittore, imbianchino precisa con modestia L., della seconda che è arrivata in Italia nel 1993 (il coniuge, nel 1991) ed ha il primogenito ormai diciassettenne.

Non c’è che dire, tre persone con radici in un’altra nazione e, però, simili a noi. Del resto, il loro italiano è perfetto e occorre informarsi espressamente per rendersi conto che sono straniere.

Influenzato, forse, dalla terra in cui sono nato, proprio dirimpetto al Paese delle Aquile, di cui ho spesso l’opportunità di scorgere a occhio nudo le coste oltre il mio mare, ogni volta che ritorno qui per i fanghi, mi fa piacere rincontrare gli amici albanesi e mostro loro qualche foto istantanea del Canale d’Otranto, con, sullo sfondo, le loro coste e montagne. Sorridono i tre, giacché, dentro, non dimenticano, ma, in pari tempo, danno apertamente a vedere di essere contenti di vivere qui.

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Ben mille chilometri separano, via terra, Padova e la zona delle Terme dal Salento. A prescindere dalla notevole distanza, esiste tuttavia un ideale cordone ombelicale che lega direttamente le due aree. Difatti, la precisazione è a particolare beneficio di chi non lo sapesse, la strada statale 16 “Adriatica” parte o nasce dalla Città del Santo, quartiere “Guizza”, e dopo aver costeggiato l’intero mare verde cantato dal D’Annunzio, raggiunge il Salento, terminando a Otranto, esattamente con la pietra miliare che segna 1000 km.

Otranto, la cittadina degli 800 Beati Martiri, nota come Porta d’oriente dell’Italia, il punto più prossimo alla costa albanese.

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